Porsche, lasciare la moglie “demente” è un suo diritto
LA MALATTIA FA SCOMPARIRE LA PERSONA – È successo anche a me. Continuare a vivere con lei significava perdere pezzi di vita, stare in un limbo di paure: un sacrificio inutile
DI SELVAGGIA LUCARELLI
30 MARZO 2023
“Ha la demenza, io divorzio”. “Mr. Porsche rottama la moglie”. “Wolfgang Porsche divorzia dalla moglie perché lei ha la demenza”.
Da giorni leggo titoli come questi sui principali siti e giornali italiani e non posso fare a meno di pensare a quanto sarebbe importante conoscere la malattia – quella malattia – prima di semplificare la vita altrui. Prima di appropriarsi di una storia così, di trasformarla in gossip manicheo in cui i cattivi hanno la Porsche e una nuova fidanzata, i buoni sono la moglie abbandonata con la demenza senile.
Riassumo velocemente la storia, quella della fredda cronaca: Wolfgang Porsche, 79 anni, presidente del consiglio d’amministrazione della omonima Casa automobilistica, ha chiesto il divorzio dalla moglie Claudia Hübner, 74 anni, dopo una relazione durata circa 15 anni. Lei si era ammalata di demenza senile due anni fa, è immobile, deve essere assistita dalla figlia e dalle badanti 24 ore su 24. I comportamenti della donna sarebbero molto cambiati divenendo anche aggressivi, e questo avrebbe reso impossibile la convivenza. Il marito ha una nuova relazione con una vecchia amica, Gabriela di Leiningen. L’opinione pubblica tedesca ha accusato Porsche di cinismo, in Italia non è andata meglio. Valeria Braghieri, per esempio, sul Giornale ha scritto: “L’ha confusa con un’auto. Ma non una delle sue, perché quelle si venerano in eterno, pezzo dopo pezzo, anno dopo anno, persino graffio dopo graffio. No, deve averla scambiata per una di quelle più ‘da battaglia’ che carichi fino allo sfinimento partendo per le vacanze, che frusti fino al duecentomillesimo chilometro, che spingi su ruote sgonfie e lisce col motore che tossisce e la marmitta penzoloni. Il ‘signor’ Porsche ha deciso di rottamare la moglie perché lei ha commesso l’imperdonabile errore di ammalarsi di demenza senile”. E così molti altri.
Credo e spero che quest’orda di penne giudicanti non abbia la più pallida idea di cosa sia la demenza, perché se solo conoscesse risvolti e sfumature di questa infame malattia forse riuscirebbe a provare compassione persino per un anziano milionario tedesco col sedere sulla Porsche.
Quando mia mamma un anno fa è stata ricoverata in una Rsa per via dell’Alzheimer e della sua immobilità, per la prima volta nella mia vita ho esplorato quel mondo spaventoso, struggente, malinconico che è una casa di risposo. Mia mamma aveva una forma di demenza quieta, quasi timida. Non parlava, aveva dei momenti di tenerezza, sembrava riconoscerci a tratti ma poi, un attimo dopo, era già smarrita in mondi inaccessibili. Sua madre, che aveva vissuto con noi molti anni fa, invece era stata colta da una demenza feroce, con sbalzi d’umore che per me ancora bambina erano tanto incomprensibili quanto terrorizzanti. La notte, soprattutto, ci svegliava con grida oscene, ci accusava di averla rapita, di volerla uccidere, ci chiamava bastardi. Alzava le mani su mia madre. Dopo un anno di quella vita sottosopra, un anno in cui le nostre esistenze furono oppresse dal peso dei suoi umori incontrollabili, andò in una casa di riposo. Continuare a vivere con lei significava perdere dei pezzi di vita, rimanere sospesi in un limbo di paure e insensatezza, senza che nessuno potesse trarre davvero beneficio da quel sacrificio.
In quella casa di riposo in cui mia madre forse aveva davvero trovato riposo, il tempo con lei era infinito. Fuori da ogni retorica, comunicare con una persona affetta da demenza che non parla, non cammina, ti oltrepassa con lo sguardo oppure ti fissa per un tempo indefinito chiedendosi chi tu sia e cosa tu ci faccia lì, è un’agonia.
Io tiravo fuori le foto dei gatti dal telefono e poi mettevo della musica e mia mamma ogni tanto ricordava qualche parola di una strofa di De Andrè o di Fossati, riesumavo vecchie storie sperando che la parte più sedimentata della sua memoria avesse ancora qualche appiglio, oppure facevo facce buffe come si fa coi bambini, per strapparle un sorriso. Magari restavo lì un’ora e quando andavo a casa ero esausta, mi chiedevo se ne valesse la pena. Per me e per lei. Era uno strazio. E lo strazio era anche guardarmi intorno, osservare come la demenza avesse un abito diverso a seconda del corpo che vestiva. C’era una signora con i capelli bianchissimi che mi chiedeva sempre “aiuto, fammi uscire di qui” e provava a infilarsi in ascensore quando andavo via. Mi faceva pena e paura perché voleva la mia mano, ma la stringeva troppo forte e mi diceva che sua figlia l’aveva abbandonata, poi all’improvviso chiamava sua madre. “Mammaaaa mammaaaa”, urlava. Un’altra signora non diceva niente, come mia mamma. Alle volte le trovavo vicine, nella saletta in cui mangiavano, e sembravano due statue di un tempio. Dritte, parallele, immobili, senza poter comunicare. Vedevo i parenti di tutti, o quasi, entrare, uscire, impegnarsi, sforzarsi, spazientirsi talvolta. Piangere. C’era un comico famoso che veniva tutti i giorni, sua mamma si era rotta il femore e non camminava, la sua testa era lucida, era una signora dolcissima che mi diceva “la guardo io sua madre”, ma non ci voleva stare lì. “Voglio andare a casa” la sentivo dire (credo che poi in effetti se ne sia andata). E io la capivo. Non ci voleva stare in mezzo a persone che non sanno più chi sono, lei che era ancora lì. La capivo, io, mentre voi che giudicate il milionario tedesco evidentemente non sapete nulla e avete un’idea romantica della demenza, pensate che il malato si istupidisca un po’, che si diventi delle bambole tristi da accudire come bambini. Docili e malleabili. Non sapete cosa significhi perdere la memoria e la parola, gradualmente, sentire che la tua essenza ti sta abbandonando. Non sapete cose significhi la quotidianità con chi non ti riconosce più, con chi non riconosci più, doverti difendere dall’aggressività inattesa di chi ti ha accarezzato tutta la vita o assistere alla resa triste di chi amava vivere in battaglia. La malattia degenerativa è una sentenza per chi si ammala, non può diventarlo anche per chi ama quella persona, perché sarebbe una doppia ingiustizia. Io non giudico Wolfgang Porsche. Non ha abbandonato sua moglie. Ha una situazione economica che gli consente di affidarla alle migliori cure. Si occuperà ancora di lei e delle sue necessità, ma evidentemente ha il desiderio di non essere inghiottito da quell’oblio senza ritorno, di assaporare il presente. Non ha abbandonato sua moglie perché è la malattia della moglie che costringe a un abbandono prematuro. Quando mia madre è morta ho pianto poco. Le avevo detto ciao molto tempo prima. Non l’avevo abbandonata. L’avevo salutata. Se non lo capite, i dementi siete voi.
FONTE: