Lo scaricabarile*

di Vincenzo D’Anna*

Giulio Andreotti, uno dei protagonisti assoluti della vita politica della Prima Repubblica, amava ripetere: “sono convinto dei miei limiti, ma sono altrettanto certo di non dovermi misurare in un mondo popolato da giganti”. L’ironia era una delle caratteristiche dello storico leader democristiano, appresa, fin da giovane, alla scuola del suo mentore e maestro Alcide De Gasperi, lo statista trentino che seppe risollevare le sorti della nazione dalle macerie dell’ultima guerra. Credo che la premier Giorgia Meloni, da quando si è insediata a palazzo Chigi, abbia fatto spesso sua questa riflessione. Infatti, innanzi alla pochezza culturale e politica dell’attuale contesto, popolato per lo più da incolti ed orecchianti, chi proviene da un percorso di militanza e di acculturazione come la leader di Fratelli d’Italia, al di là delle idee professate, si porta dietro un bagaglio di saperi e di esperienze che gli consentono di primeggiare. In tal caso, si dispone del vantaggio di saper cogliere il segno dei tempi, di potersi orientare facilmente lungo il tragitto da percorrere. In sintesi: quando il sole è basso all’orizzonte anche le ombre dei nani appaiono lunghe. Non che Giorgia appartenga alla categoria dei nani politici, intendiamoci. Tuttavia, obiettivamente, neanche può cogliersi nella statura della giovane leader del centrodestra alcuna particolare straordinaria capacità. V’è però che la sufficienza del suo agire diventa enorme al cospetto del livello generale degli attuali protagonisti della scena politica tricolore. Va inoltre dato atto alla presidente del Consiglio di essersi mossa, almeno fino ad ora, con adeguatezza, disinvoltura e senso pratico in aderenza al programma che pure lei aveva enunciato e che tutt’oggi persegue a testa bassa, piaccia o non piaccia a chi l’ascolta. Tradotto in soldoni: la prima donna capo dell’esecutivo del Belpaese “rischia” di diventare un gigante nel raffronto con i suoi interlocutori e sopratutto una guida avveduta per tutto il Parlamento. Ora, al di là dell’ordinaria azione di governo fin qui svolta dalla Meloni, emerge anche un dato di straordinarietà rappresentato dal voler affrontare, fin dai primi mesi del proprio mandato, la madre di tutte le questioni e la riforma di tutte le riforme di cui l’Italia ha bisogno per poter addivenire, finalmente, al completamento di quella eterna e mai compiuta transizione politica del sistema istituzionale e delle regole sulle quali essa dovrà fondarsi: la riforma costituzionale. Il tentativo certo non è nuovo e le strade da percorrere sono lunghe e ben diverse tra di loro, con una discussione, sul tema, che si annuncia a dir poco problematica. D’altronde è sempre stato così a partire dalla prima commissione parlamentare istituita per la riforma della Magna Carta nel lontano 1983 con la presidenza del liberale Aldo Bozzi. Nel tempo, su proposta del Parlamento, ne sono state varate numerose altre tra le quali ricordiamo la Bicamerale del 1997 presieduta da Massimo D’Alema. Ebbene tutti questi “organismi”, pur avendo prodotto numerosi lavori e proposte, si sono poi arenati nelle determinazioni finali. Si aggiunga che ben due proposte di riforma sono state elaborate da governi in carica sotto forma di leggi, approvate dalle Camere, ma poi non ratificate dal referendum popolare e il quadro è completo. La prima, del governo Berlusconi, fu infatti bocciata per pochi voti; la seconda, promossa dal governo Renzi (che aboliva il Senato eliminando il Bicameralismo perfetto e le lungaggini parlamentari), si trasformò in una sorta di consultazione elettorale più sul governo dell’ex “rottamatore” del Pd che non sui contenuti referendari. Risultato: bastonatura solenne alle urne. Oggi Giorgia Meloni convoca a Palazzo Chigi i gruppi di opposizione per una preventiva discussione sulle procedure da mettere in atto per avviare la stagione del presidenzialismo e della democrazia diretta, ossia: quella che lascia scegliere al popolo il Capo dello Stato oppure quello del governo; quella che semplifica i percorsi legislativi; quella che inserisce, in Costituzione, tutti quegli aggiornamenti necessari per una Magna Carta che tra poco compirà ottant’anni! Una carta resa ormai anacronistica dalla società digitale, dall’involuzione dei partiti politici chiamati, un tempo, a fare da tramite tra il popolo e le istituzioni ed oggi ridotti al rango di ditte individuali a uso e consumo del leader di turno. Per questo c’è bisogno di un cambiamento che impedisca di essere ancora amministrati da“ parrucconi” che, in ogni frangente, si palleggiano decisioni e responsabilità, senza mai venirne a capo. Certo, parlando di riforma della Costituzione, forse meglio sarebbe stato eleggere, come nel 1946, un’assemblea costituente che in un anno elaborasse una proposta complessiva al Parlamento ed poi alla nazione. Ma tant’è, qualcosa almeno sembra iniziare concretamente a muoversi. Anche perché, diciamocela tutta: occorre un aggiornamento che, pur non toccando la parte riservata ai diritti ed alle libertà dei cittadini, consenta di saper chi effettivamente comanda e chi n’è responsabile innanzi alla opinione pubblica. Insomma, poter appendere alle pareti del Quirinale oppure a quelle di palazzo Chigi, quello che già da tempo è stato affisso nella sala ovale della Casa Bianca in Usa, centro del potere e delle responsabilità, vale a dire un cartello con la frase: “Lo scaricabile finisce qui”.

*già parlamentare

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