Era già al Tg5 quando nacque il più giovane dei suoi redattori, Jacopo Pesciarelli, 32 anni, figlio di un collega morto in uno schianto in motocicletta. Clemente Mimun guida il telegiornale di Mediaset che lo vide tra i fondatori come vice di Enrico Mentana. Il prossimo 9 agosto compirà 70 anni e da quasi 30 è direttore di tigì (Tg2 dal 1994 al 2002, Tg1 dal 2002 al 2006, Tg5 dal 2007, con una breve parentesi a capo di Rai Parlamento), «un record mondiale, credo». Da bambino sognava di fare l’astronauta, «ma sull’Intrepido, in ultima pagina, vidi una striscia con un tizio brutto e tozzo, avvolto nell’impermeabile: aveva il cartellino “Press” infilato nella fascia del cappello». Fu l’inizio di una carriera in bilico tra fumetti e cinema. Il suo ufficio nel Centro Safa Palatino di Roma si affaccia su un giardino invaso da pappagalli tropicali che garriscono senza requie: «Qualcuno li ha liberati e ora figliano a dismisura». La «J.» che compare fra nome e cognome nei titoli di coda del Tg5 sta per Jackie. «Mio padre, patito di Charlot, mi chiamò così in ricordo di Jackie Coogan. Spero di non finire come il protagonista del Monello, poi zio Fester nella Famiglia Addams, che a 70 anni morì alcolizzato. Siccome vorrei continuare a rompere vetri a sassate, per precauzione non bevo».
Perché Silvio Berlusconi assunse proprio lei?
«No, guardi, fui assunto dal mio caro amico Mentana, con cui avevo lavorato al Tg1. Il Cavaliere lo incontrai solo in seguito nel villino di via Rovani, a Milano. La segretaria Marinella Brambilla mi fece attendere in un salone abbellito da antiche vedute di Venezia alle pareti. Entrò Berlusconi. Per rompere il ghiaccio chiesi: belli questi quadri, scuola del Canaletto? Strabuzzò gli occhi: “Scuola?”. Voleva lasciarmi nel dubbio».
Il Cavaliere compra tele d’autore all’ingrosso, mi risulta.
«A gennaio 1995 vado a trovarlo a Palazzo Chigi, da cui era stato sfrattato. Entra Marinella: “Presidente, questo dipinto è di sua proprietà”. Lui: “Lascialo qui, tanto torniamo”. Profezia avveratasi nel 2001. Ma nel frattempo il quadro era sparito».
Come spiega il successo politico di Berlusconi?
«Ama le donne e odia le tasse. Lei conosce forse italiani che odiano le donne e amano le tasse? La politica non c’entra. Ha successo l’uomo Berlusconi. Mi ha raccontato di quando piazzò le prime case di Milano 2. Un giorno arrivano marito e moglie. Lui sta imbiancando l’ufficio vendite. “Non c’è l’impresario?”, chiedono. E il Cav: “È mio cugino, corro a chiamarlo”. Esce. Torna in doppiopetto. La coppia: “Ma lei è identico a suo cugino!”. Berlusconi: “Abbiamo un Dna forte, inconfondibile”».
La madre Rosa mi raccontò: «Vendeva elettrodomestici. Una vigilia di Natale portò sulle spalle un frigorifero Ignis a una signora. Giunto al quinto piano, si accorse d’aver sbagliato scala. Risalì i gradini nell’altra ala dell’edificio».
«Alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone, dove svolgeva i servizi sociali dopo la condanna nel processo Mediaset, un’anziana ospite voleva essere imboccata solo da lui. Mi confidò: “Ha sei anni meno di me, ti rendi conto?”. Scontata la pena, tornava lì a cantare Que reste-t-il de nos amours?, accompagnato al pianoforte da Fedele Confalonieri».
Che cosa pensa del video che ha inviato al raduno di Forza Italia dopo un mese di ospedale?
«Non mollerà mai. Sul piano emotivo, mi ha addolorato perché gli voglio molto bene e non pareva in piena forma. Ma rifiorirà, ne sono sicuro».
Lei sa di che parla. Nel 2011 ebbe un ictus.
«Alle 4 del mattino, mentre prendevo un bicchiere d’acqua. Devastante. In ospedale non mi fecero la trombolisi, perché c’erano 50 possibilità su 100 che crepassi. I medici si saranno detti: meglio cionco ma vivo. Così oggi mi ritrovo con un braccio sinistro che peserà 80 chili e una zoppia, nonostante tre ore di fisioterapia a settimana».
Berlusconi le fu vicino nella malattia?
«Piombò in ospedale 48 ore dopo, all’alba, con una sola guardia del corpo e un giubbino da aviatore per non farsi riconoscere. Gli dissi: “Mi dimetto, nomini un altro”. Replicò: “Non se ne parla!”. Fece arrivare un pc per collegarmi con la redazione e spiegò ai fisioterapisti come rimettermi in piedi. A quel punto si sparse la voce, tutti volevano un selfie con lui. Si sottrasse. Però fece il giro delle stanze e confortò i pazienti a uno a uno».
Animo gentile.
«La scaletta del Tg5 era sempre zeppa di mostri e delitti. Un 21 marzo Berlusconi, non ancora sceso in politica, chiese a Mentana: “Non potreste ricordare che oggi è il primo giorno di primavera?”».
Letizia Moratti, all’epoca berlusconiana, da presidente della Rai cercò di toglierle il Tg2.
«Pippo Baudo a quel tempo teneva su l’azienda da solo, dovrebbe esserci il suo busto in viale Mazzini, al posto del Cavallo morente di Francesco Messina. “Se hai le palle, non cedere”, mi spronò. Gli giurai: mollerò un giorno dopo che se ne sarà andata lei. Fu cacciata e io rimasi per altri sei anni».
Ma perché Moratti la detestava tanto?
«Quando il pm Antonio Di Pietro si tolse la toga, affidai un’edizione straordinaria a Michele Cucuzza, anziché alla sua cocca Alda D’Eusanio, che in quel momento non era rintracciabile».
Non che fosse amato dalla redazione.
«Quattro anni di Vietnam. Sussurrarono a Oscar Luigi Scalfaro che avevo tagliato il suo discorso sul “tintinnar di manette”. Falso. Dovetti minacciare d’incatenarmi al Quirinale. Il Presidente mi ricevette. Gli portai la videocassetta: c’era tutto, pause comprese. Nel frattempo persi 15 mila capelli».
Non le andò meglio al Tg1.
«A parte Vincenzo Mollica, lì era pieno di maître à penser che pensavano solo a farsi i cavoli propri. Si sentivano tutti Montanelli, Biagi o Bocca. Altro che sinistri con il Rolex! Quelli avevano il Patek».
Perciò andarsene fu una liberazione?
«Certo. Diedi una festa al Circolo Due Ponti per 200 invitati, nemici compresi. Oltre a Baudo, c’erano Bruno Vespa, Lino Banfi, Claudio Lotito. Li salutai con i fuochi d’artificio che disegnarono in cielo la scritta “Ciao ciao Tg1”. Ebbi 100 mila euro di premio per i risultati conseguiti. Mi fu offerta Rai Sport, la struttura con il budget più imponente. Benché il consigliere d’amministrazione Sandro Curzi, comunista, insistesse per farmi accettare la nomina, rifiutai. Avevo capito che non mi avrebbero permesso di fare nulla per vincere la concorrenza di Sky».
Con il Tg5 è riuscito a battere il Tg1 varie volte.
«Nonostante abbia appena 57 giornalisti. Loro saranno in 120 o 130, più 700 nelle sedi regionali, 100 redattori sportivi e 15 uffici di corrispondenza. Ma Albino Longhi sosteneva che una rondine non fa primavera. Con il nostro budget e i 5 minuti di pubblicità che ospitiamo, è tecnicamente impossibile superare stabilmente il Tg1».
Bel tipo l’Albinosauro. Lo ebbi come direttore.
«L’unico ad aver guidato per tre volte il Tg1. Prima di ogni edizione delle 20, incrociava indice e medio per scaramanzia. Pretendeva che ogni notizia fosse battuta in 7 copie. Cancellava molte righe. Poi le ripristinava scrivendoci accanto a penna la formula di rito: “Vive”. Per dimostrare che comandava lui».
Mi par di capire che non rientrerebbe in Rai.
«Mi è stato proposto varie volte. Pier Ferdinando Casini e Marcello Pera mi offrirono persino la presidenza. Respinte pure le candidature parlamentari. Di recente ho sognato che il Padreterno mi dava la possibilità di tornare indietro di 50 anni. No, grazie, ho già faticato abbastanza, gli rispondevo. Preferisco vivere. Ho fatto mia una frase che mi disse Claudio Baglioni: “Ho raggiunto la pace dei consensi”. Per la Rai ho tanto affetto e nessun rimpianto. Amo Renzo Arbore, amico dai tempi di Bandiera gialla, e Fiorello, scopritore di talenti. Ma Gerry Scotti e Paolo Bonolis, star di Mediaset, non sono da meno».
Fare il giornalista non era meglio che lavorare, per dirla con Mario Missiroli o Luigi Barzini junior?
«Cominciai a 17 anni come fattorino senza contratto all’Asca, agenzia di stampa cattolica: 30 mila lire al mese. Altre 15 mila se svuotavo i cestini zeppi di carta straccia. Altre 15 mila per portare all’1 di notte la mazzetta dei giornali freschi di stampa al direttore Gianfranco Barberini e al suo patron politico, il dc Flaminio Piccoli, in salita fino a Monte Mario, spesso sotto la pioggia battente, pedalando, perché il motorino Ciao arrancava. Sudavo per poter frequentare il liceo e per comprarmi le musicassette di Lucio Battisti e Cat Stevens. Cinque anni dopo ero redattore. Da allora continuo a sgobbare».
Ma come? Al liceo non la mantenevano i suoi?
«I miei vivevano in Israele. Papà aveva moglie e figli italiani, ma a Roma non ottenne mai la cittadinanza. Essere apolidi da ricchi è bellissimo, da poveri è terribile. Faceva il commesso da Tessab abbigliamento, di fronte alle Botteghe Oscure, conosceva sette lingue. Dovette espatriare con tutta la famiglia. A 17 anni decisi di lasciare Kfar Saba, 25 chilometri da Tel Aviv. Per comprarmi il biglietto notturno dell’Alitalia lavorai tre mesi in una falegnameria. Tornai a Roma, la città in cui sono nato».
E dove andò ad abitare?
«Dalla nonna, Miriam Pariente, detta Zazza. Dopo essersi svenata per salvare marito e figli dai nazisti, s’era ritirata in due stanze e adibiva le altre tre a pensione. In una ospitava Marco Pannella, con Bettino Craxi il politico cui sono stato più affezionato».
Per quale motivo amava Craxi?
«Perché teneva a bada i comunisti».
Da chi ha imparato nel giornalismo?
«Si rubacchia qua e là. Mentana mi batte perché, oltre a dirigere il Tg La7, sa anche condurlo. Al confronto, sono un giocatore della Sambenedettese, lui è Maradona. Ho avuto la fregola di apparire in video fino ai 40 anni. Ora meno mi si vede, meglio è».
Credevo Enzo Biagi.
«Compiva gli anni il 9 agosto, come me, ci telefonavamo per gli auguri. Lo stesso con Sandro Paternostro e Romano Prodi. È rimasto solo l’ex premier al quale mandare un messaggio su Whatsapp».
E nella vita chi è stato il suo maestro?
«Emma Alatri, una maestra vera. Prima del rastrellamento del 1943 nel ghetto di Roma, aveva organizzato per i piccoli ebrei una scuola elementare in cantina. M’insegnò a scrivere. Lei li chiamava “pensierini”. Invece erano articoli di giornale».