Le prigioniere dell’odio
Undici femminicidi durante la quarantena: molte convivenze forzate sono diventate una condanna. Per le donne è stato quasi impossibile chiedere aiuto
In gennaio 12, in febbraio 2, in marzo a inizio chiusura in casa 5, in aprile 4, nella prima settimana di maggio 2. 25 ammazzate dall’inizio del 2020 di cui, sino al 9 maggio, 11 nella emergenza coronavirus. A Bolzano e a Beinasco nel Torinese, a San Vito dei Normanni (Brindisi), a Furci Siculo (Messina), a Rho e a Albignano d’Adda (Milano), a Serramanna (Medio Campidano). Barbara, Bruna, Rossella, Lorena, Gina Lorenza, Viviana, Mariangela, Alessandra, Marisa, Susi; la più giovane, 27 anni, la più matura 52; uccise dal marito, dal convivente, dal fidanzato, da uno che la perseguitava, dal figlio, e persino da una nipote. Senza contare, chiuse in casa, le donne bastonate accoltellate gettate a terra prese a pugni, cinghiate, martellate ecc. o semplicemente insultate e terrorizzate, sopravvissute (come la donna scappata dalla finestra e a pezzi in ospedale) in attesa di prossimi corrucci e nervosismi e messe in riga e punizioni più o meno definitive da parte del maschio-padrone che però col suo cane o gatto è tutto baci.
In questi mesi hanno contato solo i morti di coronavirus, registrati ogni giorno nel loro incessante accumulo di numeri e di dati, minaccia cupa per tutti, anche per le 25 donne che però sono morte per la mano di uno di famiglia, di una persona un tempo ma forse ancora amata, per un odio irrefrenabile che dicono sia amore. Le maghe ma forse semplicemente le persone sapienti di questa inestirpabile sciagura hanno subito previsto che la clausura avrebbe costituito un pericolo in più per le prede familiari e il primo segnale è stato proprio la diminuzione di richieste di aiuto ai centri antiviolenza (60-70%) e delle denunce (50-80%) rispetto allo stesso periodo nel 2019. Convivenze insopportabili per le stesse ragioni che lo sono da anni, neanche lo sfogo di separarsi per il lavoro, forse i bambini da proteggere, nessun punto della casa dove rifugiarsi per sottrarsi alla furia, nessuna possibilità di chiamare qualcuno sotto l’imperio del carceriere: un parente, un’amica, appunto i centri antiviolenza o la polizia. Nel silenzio dominato dalla grande paura, e per il resto tutti impegnati a rendere impraticabile ogni soluzione politica, finanziaria, sanitaria, in un Paese che si sta sfasciando sotto l’irresponsabilità di troppi, cosa volete che sia qualche donna che muore d’altro, non di coronavirus e neppure delle tante malattie di cui si muore e di cui non si sa più niente?
Già molto tempo prima del confinamento, si sa come l’informazione ha bisogno di scoop, le donne ammazzate una dietro l’altra, sia pure con diverse crudeltà e mezzi, occupavano qualche riga nelle prime pagine dei giornali online ma quelli cartacei probabilmente sbuffavano, sempre la stessa cosa, in cronaca e neanche più interviste ai vicini che dicono sempre che era una famiglia così unita. Una notizia ripetitiva non è una notizia, le associazioni si danno da fare, la giustizia pure, le leggi anche, addirittura il governo ha recentemente sponsorizzato una pubblicità (mi dicono, io non l’ho vista) in cui spiega agli uomini che non devono ammazzare le loro donne (e se mai neppure i loro uomini).
Non so se la pubblicità che comunque è talmente invasiva da diventare invisibile, possa riuscire a convincere il consumatore di violenza a usare il prodotto del rispetto; quindi penso che probabilmente ci vorranno anni prima che certi maschi si rendano conto che se non va bene uccidere qualcuno non lo è neppure far fuori la propria donna.
Ci sono stati anni in cui le ragazze andavano a scuola di karate proprio per far fare brutte figure agli eventuali innamorati maneschi: oggi, oltre a stare molto accorte nella scelta del compagno, imparare a stenderli per terra con un dito sarebbe una difesa e un monito. Dopo anni di ammazzamenti ogni parola ormai sembra inutile come se il disastro fosse inevitabile, una qualsiasi vendetta della natura, un terremoto, un diluvio, un tifone. Forse una sera fra qualche anno seguiremo il calvario di queste donne a Un Giorno in pretura e finalmente ma inutilmente rabbrividiremo di pena e di orrore.
Fonte: La Repubblica del 12 maggio / articolo di NATALIA ASPESI