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La striscia di Gaza Editoriale di Stelio W. Venceslai
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La striscia di Gaza EDITORIALE di Stelio W. Venceslai
La striscia di Gaza è un territorio di 365 kmq con una popolazione di poco più di 2 milioni di persone, di cui l’80% ha un reddito medio pro capite di 2 dollari al giorno e che per il 70% è composta da profughi palestinesi. Un territorio, quindi, poverissimo, anche per contingenze belliche, che vive solo grazie agli aiuti internazionali.
Geograficamente, questo territorio è separato dagli altri governati dall’Autorità palestinese e confina solo con Israele e l’Egitto.
A seguito dell’armistizio del 1949 tra Egitto e Israele, Gaza fu amministrata dagli Egiziani prima e poi da Israele per ventisei anni con l’insediamento di ben ventuno fattorie o kibbutz che davano da mangiare a circa ventimila Palestinesi grazie all’attività svolta nel settore agricolo, con le coltivazioni in serra e così via. Quando Israele abbandonò la striscia di Gaza, i Palestinesi distrussero tutto.
Israele, però, controlla lo spazio aereo, le acque territoriali, l’accesso off-shore marittimo, l’anagrafe della popolazione, l’ingresso degli stranieri, le importazioni e le esportazioni, nonché il sistema fiscale.
Nel conflitto israelo-palestinese occorre prendere atto che si tratta di un evento che si ripete, in pratica, dal 1948, quando le N.U. tracciarono in Palestina i confini del nuovo Stato di Israele.
Da allora, salvo periodi di relativa tranquillità, è in corso una guerra permanente fra Israele, i Palestinesi e i suoi vicini Stati arabi. Una guerra che si è svolta con alterne fortune e con alleanze variabili ma che, in sostanza, ha visto i Palestinesi perdere progressivamente terreno, dando ad Israele la possibilità di espandersi sul territorio, una possibilità spesso pagata a caro prezzo.
Quindi, siamo di fronte una guerra dei “cento anni” di cui l’attacco palestinese ad Israele di un paio di settimane fa è solo l’ultimo degli episodi, anche se il più cruento.
La reazione israeliana, certamente attesa, era inevitabile, così come lo sconcerto della comunità internazionale, distratta dal conflitto ucraino e dai problemi della sicurezza di Taiwan.
L’obbiettivo palestinese sembra chiaro: risvegliare l’interesse su un problema che sembrava assopito, impedire il ravvicinamento in corso fra l’Arabia Saudita e Israele, evidenziare il ruolo di sostegno dell’Iran, isolato dal contesto internazionale ma, ora, di nuovo protagonista, suscitare la solidarietà di tutto il mondo islamico.
L’azione di Hamas ha certamente raggiunto i suoi scopi. Le difese anti missili israeliane sono state “bucate”, gli Hetzbollah annidati nel sud del Libano e foraggiati dall’Iran hanno ripreso vita, la situazione politica di Israele è piuttosto confusa. Lo screditato Netanyahu si è inventato un governo di unità nazionale di fronte a un pericolo comune, ma è chiaro che ci sarà, comunque, alla fine, una resa dei conti nei suoi confronti. Di certo, il problema palestinese è, oggi, al centro dell’attenzione del mondo ed è riemersa dal nulla la fatiscente Autorità palestinese.
La reazione israeliana è in corso, con le solite conseguenze: distruzioni, morti, massacri, su un territorio tormentato dalle lotte interne, dalla disoccupazione, dalla miseria e dalla fame. Non è una reazione strategica ma solo di vendetta e questo non porta molto lontano. L’obiettivo di distruggere Hamas, che ha salde radici in Palestina, è illusorio. Al contrario, si sta formando un ampio fronte internazionale contro Israele.
Il massacro all’ospedale di Gaza (500 morti), la questione degli ostaggi e l’intento, più volte dichiarato da Netanyahu, di scatenare un’improbabile azione terrestre rendono la visita di Biden in Israele quasi inutile. Gli Stati Uniti sono i principali sponsor di Israele ma anche se Israele ha ragione, a volte aver troppa ragione significa passare dalla parte del torto.
Netanyahu sa bene che non può scatenare un conflitto mondiale solo perché la sua politica del pugno duro e i suoi servizi di sicurezza hanno fallito né può insistere senza l’aiuto degli Stati Uniti che non possono mettersi contro tutto il mondo. Ha fallito su tutti i punti.
La questione palestinese, dopo quasi un secolo di conflitti, è talmente intricata che tutti hanno torto, tranne le vittime, che sono troppe.
Anche la soluzione di avere due Stati, che non si è mai voluta, è un palliativo. Fare i due Stati, l’uno democratico (Israele) e l’altro molto meno, non risolverebbe il conflitto tra il nuovo Stato palestinese e Hamas, che controlla la Striscia, e tra questo e Israele.
Si parla di un conflitto regionale, ma solo apparente. Il conflitto è ben più grande, fra l’Occidente, che non si sa bene che cosa sia, e il resto del mondo (Cina, Russia, India, Brasile, Iran).
Gli Stati Uniti, nonostante la loro impressionante forza militare, presente in tutto il mondo, sono in declino. A parte l’incognita delle future elezioni americane, non possono alimentare contemporaneamente l’Ucraina, Israele, vigilare su Taiwan e preoccuparsi dell’Africa.
La conferenza di Pechino sulla Via della Seta, cui partecipa anche Putin, vede 133 Paesi presenti, sotto il vigile e compiaciuto sguardo di Xi, il despota cinese. È un consesso di cui non si parla molto ma che dovrebbe far riflettere. Gli sguardi e gli interessi del mondo sono puntati sulla Cina. L’Ucraina è una ferita aperta a guarigione molto differita, Israele è un vulnus doloroso, ma solo un incidente imprevisto. La vera partita si gioca altrove e trascende le vicende ucraine e palestinesi.
Biden non tornerà negli Stati Uniti a mani vuote. Il paventato attacco di terra israeliano non ci sarà. Non se lo può permettere. Netanyahu sa bene che sarebbe un bagno di sangue inutile, non avendo nessuna strategia per il futuro. Dovrà rimangiarselo e scendere a più miti consigli prima di essere cacciato dal governo. Israele non è più una potenza militare minacciosa nel Medio Oriente. Hamas ha messo in crisi la sua invulnerabilità aizzando il terrorismo islamico contro il quale non c’è difesa.
È da sperare che Israele non faccia un colpo di testa che scatenerebbe l’inferno per tutti.