*E la chiamano democrazia…* di Vincenzo D’Anna*

“La nostra civiltà dipende dall’ordine esteso della cooperazione umana. Un ordine più comunemente conosciuto come capitalismo”. A dirlo fu uno dei più grandi economisti liberali: Frederik August Von Hayek, premio Nobel per l’economia, uno dei leader della cosiddetta Scuola Economica Austriaca (o di Vienna). Un’agorà di economisti e filosofi, come Carl Menger, Ludvig Von Mises, Karl Popper, Eugen von Böhm-Bawerk i quali si contrapponevano ai postulati del socialismo e dello statalismo, che nel secolo scorso trovarono in J.M. Keynes il loro massimo esponente. In soldoni i “viennesi” non accettavano il ruolo dello Stato dirigista, monopolista, programmatore ed interventista sia nella vita economica di una nazione, sia nella vita dei singoli individui (e nello loro libertà di intraprendere). Le loro tesi raccomandavano di rendere minima l’influenza dei governi, invocando semmai una protezione della proprietà privata e supportando, in generale, l’individualismo come espressione dei diritti e delle prerogative di cui gode ciascun cittadino. Insomma: gli austriaci combattevano l’idolatria degli apparati, ritenendoli un male necessario e come tale limitato nelle loro potestà di intervento e di regolatori della vita dei cittadini. Più alto era il grado dei diritti riconosciuti e garantiti, indisponibili a qualsivoglia autorità, più libera, aperta e tollerante doveva essere il regime sociale nel quale si viveva. Ora, detto per inciso: preferisco l’equità all’uguaglianza perché la prima tiene conto delle differenze esistenti nel contesto sociale ed opera per sostenere gli svantaggiati, la seconda le elimina sopprimendo il merito e le singole diverse capacità. Idee che non sono assiomi o postulati filosofici, frutto dell’elaborazione di un pensiero astratto. Al contrario, esse dimostrano, inoppugnabilmente, oltre il cinismo e le menzogne interessate del potere politico, che anche quando sono animati dalle migliori intenzioni, i socialisti, alla fine, falliscono sempre. E si tratta di un fallimento annunciato perché costoro ignorano l’ordine esteso del mercato anelando a riscrivere, a tavolino le regole della morale, del diritto e dell’economia, trovandosi, così, sempre nell’impossibilità di realizzare i loro pur nobili obiettivi. I “pensatori” della scuola di Vienna non hanno aspettato la caduta del muro di Berlino o la dissoluzione delle economie statali e dei regimi illiberali (entro i quali le idee socialiste potevano essere imposte ai cittadini) per far valere il loro pensiero. Nossignore, hanno avuto il coraggio alzare la voce sulla base di esperienze epistemologiche concrete. E quel che più appare straordinario è che lo hanno fatto navigando contro corrente nel cosiddetto “secolo breve”, un lasso di tempo in cui si imponevano dittature marxiste e regimi nazional socialisti. Anni nei quali il potere dello Stato finiva per confluire nelle mani di oligarchie socialmente presuntuose, violente e sanguinarie. Oggi è piuttosto semplice far garrire sui più alti pennoni delle istituzioni la bandiera dei principi liberali e di un’economica di mercato, parlare di concorrenza, libertà di impresa e di diritti. A questo punto se il lettore non avrà abbandonato il testo perché ritenuto lontano dalla sua utilità quotidiana, dai suoi interessi di “uomo qualunque”, poco o niente interessato alle teorie economiche, ma solo ai fatti della cronaca quotidiana, potremo dimostrare che quelle teorie tendono a salvaguardare un regime di libertà economiche che presuppone libertà civiche e politiche. In soldoni: che senza quella impostazione liberale e liberista non sarebbero mai sorte le big society, gli Stati aperti e tolleranti, le leggi che governano la libertà senza sopprimerla oppure orientarla. Insomma che senza quel costrutto generale non ci sarebbero né diffusione della ricchezza né agiatezza e progresso sociale. Certo oggi la politica è distinta e distante dalla cultura politica e dalla conoscenza delle basi teoriche che la sostengono e la differenziano creando forze politiche diverse, ciò non toglie però che senza un minimo di conoscenza anche la più giusta delle critiche finisce con l’essere uno sfogo qualunquistico privo di risposte risolutive e praticabili. Poiché non esistono risposte semplici a domande complesse, anche l’uomo della strada, oltre a chi ha la presunzione di governarlo, dovrebbe conoscere i rudimenti della politica sia per giudicare che per protestare; oppure saperle superare governando le criticità. I telegiornali ci inondano di notizie sulla legge di bilancio dello Stato e sul patto di stabilità in discussione con l’Europa. Quanti di coloro che saranno i fruitori oppure le vittime di questi provvedimenti economici hanno contezza di cosa realmente essi contengano? Come quegli stessi provvedimenti influenzeranno la vita quotidiana della gente, propositi ed aspirazioni dei loro figli ed in futuro dei loro nipoti? Ed allora a cosa possa servire un regime democratico se chi lo determina è il cosiddetto popolo sovrano, ignaro e neghittoso. ? Gente che con il proprio voto, permette la nascita di governi che creano regimi statalisti e pervasivi, senza possedere conoscenza alcuna su quanto hanno deciso? E la chiamiamo democrazia, ma allo Stato sembrano solo ludi cartacei

*già parlamentare

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