*Le prigioni della vergogna*

di Vincenzo D’Anna*

Fu nel secolo  dei lumi che i filosofi e gli intellettuali cominciarono ad avere interesse per le condizioni in cui espiavano la pena i carcerati. A cominciare da Cesare Beccaria con il suo saggio “Dei delitti e delle pene” nel quale egli sosteneva che vi fosse un diretto rapporto tra le condizioni sociali di coloro che delinquono ed i reati commessi. Un uomo  è spinto a rubare e a compiere reati a causa della necessità e della sopravvivenza, dello stato di miseria e di ignoranza nel quale è costretto a vivere. Sulla stessa lunghezza d’onda un altro grande illuminista, Francois Marie Aruet, in arte Voltaire, affermava che si dovesse misurare il grado di civiltà di una nazione dopo aver visitato le condizioni delle sue  prigioni. Insomma ci si cominciava ad interrogare sulla giustizia. Un altro illuminista Pietro Verri scrisse contro la decisione di punire alcuni reati con la tortura, soprattutto quando questa comportava le crudeli conseguenze della famosa “Colonna Infame”. Quest’ultima fu edificata a Milano allorquando due malcapitati cittadini furono condannati per essere ritenuti degli untori, ossia coloro che diffondevano la peste in città, come ammonimento per i posteri. Ovviamente quella degli untori altri non era che fantasia popolare, non essendo, in quel tempo, conosciuta la causa della malattia che uccideva, a Milano, il cinquanta percento della popolazione. Insomma arrivava anche dalle nostre parti la luce dei diritti e delle garanzie processuali ed il rispetto dovuto al reo. In Inghilterra con l’Habeas Corpus si  identificò il processo come strumento fondamentale per difendere i diritti e la libertà individuale, stabilendo che l’integrità personale dell’indagato o del reo fosse garantita dalla stessa autorità che lo aveva preso in custodia. Un principio di civiltà giuridica ed umana che cominciò a fare piazza pulita delle pratiche come i processi sommari o le condanne senza giudizio, le torture per estorcere confessioni, gli abusi e le condizioni di vita degradanti per i reclusi. Principii sanciti dalle legge, ossia dalla volontà di chi governava lo Stato. Ecco perché Voltaire ci invitò a visitare le carceri ed i tribunali per definire il grado di civiltà di una nazione. Più recentemente il garante dei detenuti, Samuele Ciambriello, ha più volte lanciato l’allarme sulla insostenibilità della vita in molti dei nostri istituti di detenzione. Abbiamo circa ventimila detenuti in più rispetto alla capienza massima dichiarata, ed altrettanti sono quelli in attesa di giudizio. Il che significa che la galera è ancora intesa come un’anticipazione della pena, quindi secondo una presunzione di reità dell’inquisito, piuttosto che di innocenza del medesimo. La galera viene ancora intesa da taluni Pubblici Ministeri come un subdolo strumento per estorcere confessioni, oppure collaborazioni interessate di camorristi e mafiosi a caccia di benefici e sconti di pena. Il combinato disposto di questa prassi e della forma mentis che la presuppone (leggi presunzione di colpevolezza), fa del nostro Paese non più la culla del Diritto quanto una becera fotocopia delle nazioni che rispettano la libertà degli individui e la loro dignità di esseri umani. Eppure la nostra Magna Carta, la fonte delle leggi, dei diritti e dei doveri, afferma solennemente che la pena ha carattere riabilitativo del condannato. In buona sostanza non tanto un carattere espiativo ed afflittivo quanto il tentativo di offrire al detenuto un’opportunità di redimersi smettendo, così, di rappresentare un pericolo per la civile convivenza sociale. Quanti di questi assunti siano rimasti sulla carta lo si può dedurre dalle drammatiche cifre di coloro che si tolgono la vita dietro le sbarre! Insieme ai musei, la domenica, bisognerebbe aprire le carceri alla popolazione! Visitare istituti come quello di Poggioreale, infatti, è un’esperienza unica e drammatica al tempo stesso. Celle sovraffollate, servizi igienici rudimentali, spazi di privacy inesistenti, violenze ed abusi, sono il viatico per avviare alla delinquenza definitivamente i detenuti più giovani. Un mondo nel quale vige la sopraffazione e manca il rispetto per la dignità e l’umanità, non può che insegnare che la violenza e la legge del più forte siano gli unici criteri per  sopraffare e sopravvivere. Un’umanità dolente ed inascoltata, un universo orrendo, si arrangia per sopravvivere  più che redimersi. Ha perfettamente ragione il garante dei detenuti quando denuncia : “l’assenza di interesse politico si coniuga con un populismo penale. Occorre il risveglio di una coscienza civica sui diritti, perché i diritti generano diritti”. Da Tangentopoli in poi la demagogia politica ha fatto il pari con il cinismo, quello di utilizzare il moralismo forcaiolo come strumento di scelta della classe politica, in danno degli avversari. Molti i patiboli che si sono innalzati nelle piazze ed in Parlamento al suono del tintinnio delle manette, e molta la folla feroce ed ipocrita che, come le tricoteuse francesi, attendeva che si tagliassero teste, senza pensare ad altro.

*già parlamentare