L’avvocato Francesco Tagliaferri assolto, ma i giornali non scrivono una riga
Quando fu accusato di essere favoreggiatore di una banda di spacciatori il suo nome e il suo viso erano comparsi incorniciati sulla stampa locale e nazionale. Una persona, un penalista perbene.
So che non è elegante, che non si dovrebbe scrivere dei processi che si seguono in tribunale quando si pubblica su di un giornale, come accade a me col Riformista, però stavolta me ne fotto e metto i piedi nel piatto, per chiedere come mai dell’assoluzione di Francesco Tagliaferri, avvocato romano prestigioso, ex presidente della camera penale di Roma, mio assistito (e amico mio fraterno anche se comprendo che l’argomento è un po’ da libro cuore), accusato di essere favoreggiatore di una banda dai spacciatori e assolto dal Tribunale di Tivoli lunedì, non si trova parola sulla stampa locale e nazionale?
E sì che avevo fatto anche un breve, brevissimo, comunicato stampa, mandato a tutte le agenzie ed alle testate, prime fra tutte quelle romane, dove due anni fa il nome, e il viso, di Francesco erano comparsi incorniciati dalla notizia della perquisizione subita a studio e dell’accusa, infamante per una persona perbene ma micidiale per un avvocato perbene, di essere una di quelle toghe sporche che vendendo l’anima per soldi si prestano a difendere per conto e nell’interesse non del proprio assistito ma di qualcun altro.
Un favoreggiatore, appunto, non un avvocato, così come, per la verità, in cuor loro molti pm vedono gli avvocati, a prescindere. Una cosa indegna per un uomo perbene come Francesco, che aveva assistito alla perquisizione del suo studio, che poi è lo studio dove assieme esercitiamo, con l’aria incredula e ferita che spesso vediamo sul viso dei nostri assistiti.
Aveva visto, assieme a me che ero accorso subito, gli agenti entrare nelle stanze, toccare i fascicoli, profanare quelle carte e quegli spazi, che ci illudiamo ancora essere oggetto di tutela perché custodiscono i segreti di una professione che sulla fiducia assoluta, e sull’assoluto riserbo, poggia le sue basi secolari.
Aveva vissuto Francesco, quel giorno e nei mesi seguenti, assieme al grande abbraccio collettivo che tanti penalisti italiani gli avevano subito dato – consci di quanto può essere grande l’umiliazione che subisce un avvocato portato ingiustamente in Tribunale, cioè nel luogo ove svolge il suo lavoro – anche tutto ciò che per un professionista una accusa del genere comporta: dalla rinuncia ad alcuni mandati per questioni di opportunità, alla ostentata freddezza di magistrati conosciuti da anni, al cannibalismo dei colleghi pronto a proporsi ai tuoi clienti, alle manifestazioni di ipocrita solidarietà smentita dalle battute dietro le spalle.
L’aveva vissuto, ma senza ostentare il dispiacere, perché è un uomo schivo, che semmai delle miserie sorride, e gli unici commenti che aveva fatto, con me e con pochi altri, erano che una cosa del genere per un avvocato ormai affermato come lui era tremenda ma fosse capitata ad un giovane sarebbe stato un dramma da cui rischiava di non riprendersi. Un processo fa male, noi penalisti lo sappiamo, fa male a tutti, colpevoli o innocenti che siano, perché senti che la tua vita è nelle mani di chi ti giudica, ti senti una cosa, e non è mai una bella sensazione.
Però quando sai di non aver fatto nulla, quando capisci che l’accusa è il frutto di pregiudizio poggiato sugli empiti moralisteggianti di chi prima di tutto non sa come lavorano gli avvocati, e magari sei un bravo avvocato che sa altrettanto bene quanto vago sia il destino nelle aule di giustizia, il processo è un tormento.
Per questo avrei voluto che il nome del mio assistito, del mio amico Francesco, ieri comparisse sui giornali che l’avevano sbattuto sulle pagine della cronaca due anni fa per dire come era finita, per raccontare che persino il pm aveva chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste; per ridargli l’onore che, pure senza riuscire a togliergli, avevano calpestato.
Ma come al solito non è avvenuto, neanche una riga sui giornali, a parte un trafiletto sul giornale del Cnf ed uno sul Messaggero, perché la stampa italiana è abituata a mangiare alla greppia delle Procure e non cambia mai.
Questa infamia prima o poi dovrà finire e se non sarà la rarefatta morale e la sottile deontologia del italico giornalismo giudiziario a provvedere si dovrà fare una legge che, in questi casi, obblighi i megafoni delle Procure a pubblicare, con le stesse strilla e la stessa enfasi, anche le sentenze di assoluzione. Per tutti però, non solo per i potenti, anche per i galantuomini schivi come il mio amico.
Fonte: di Valerio Spigarelli/ Il Riformista, 22 luglio 2020