Nessun Paese è indenne dal rischio di essere luogo di maltrattamenti e violenze istituzionali. La tortura esiste, e fortunatamente da qualche anno vi è anche un reato che la punisce. I fatti di Piacenza e Torino ci dicono tanto di una sotto-cultura diffusa fondata su tre pilastri: spirito di corpo, violenza e corruzione morale. Quanto accaduto nella caserma dei Carabinieri a Piacenza e nel carcere di Torino evidenzia anche un altro Stato che indaga, persegue, e speriamo giudichi, senza farsi condizionare da divise e stellette. La tortura non è questione che riguarda il terzo mondo incivile o il solo Egitto, nelle cui mani è ancora il nostro Patrick Zaky.
La tortura riguarda anche noi, la nostra democrazia, le nostre istituzioni e le nostre forze dell’ordine. Ben lo sapevano coloro che alla fine degli anni 80 del secolo scorso proposero la nascita di un Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Nessun Paese è indenne dal rischio di essere luogo di maltrattamenti e violenze istituzionali. A Piacenza, come a Torino, pare ci siano state forme di copertura o di omissione da parte di chi aveva responsabilità di direzione e di comando. Ugualmente era accaduto nelle violenze di Genova 2001, nelle torture di Asti 2004, così come scrissero i giudici nelle sentenze che aprirono le porte alle condanne europee. Il depistaggio è stato drammatico nel caso Cucchi. Vedremo come procederanno le inchieste.
La tortura si nutre di spirito di corpo, reticenze e silenzi, nonché di quell’incondizionato sostegno politico che alberga nella teoria impropria delle mele marce. Colui che tortura può essere definito una mela marcia solo se è isolato nel suo contesto (a Piacenza le indagini ci parlano però di un’intera caserma che usava violenze e commetteva crimini), se i superiori lo fanno sentire una scheggia impazzita, se viene emarginato e non esaltato in caserma, se i sindacati e le forze politiche prendono le distanze, se lo Stato si costituisce parte civile. Se ciò non accade vi è una responsabilità di sistema.
Le carriere nelle forze di Polizia non si devono fondare sul numero di arresti, perché ciò induce al falso, alla corruzione. Chiunque lavora nelle forze dell’ordine ha un compito essenziale, ossia essere promotore di diritti e di giustizia. Il suo lavoro non va misurato in controlli, fermi, uso di manette. I poliziotti, i Carabinieri e la Polizia Penitenziaria non hanno bisogno di Taser, come i sindacati aizzati da alcuni politici ritengono erroneamente, ma di gratificazione. Non hanno bisogno di un Salvini che indossa le loro felpe per eccitare il loro spirito di corpo, ma di essere immersi in una cultura della legalità e della non-violenza. A Piacenza spirito di corpo e violenza si sono pericolosamente frammiste anche a una più generica attività criminale che ci ha riportato nei film di Polizia americani dove c’è sempre qualcuno corrotto. Corruzione e tortura fanno parte dello stesso campo semantico, si rafforzano l’un l’altra, sono raramente scollegate.
Nelle intercettazioni abbiamo sentito come fosse diffusa una cultura della violenza, rivendicata con un machismo insopportabile. Non è facile sradicarla. Tre anni fa è stata approvata la legge che ha introdotto la tortura nel nostro codice penale, scatenando la protesta nel nome dell’impunità di chi indossa una divisa. C’è chi ancora nel dibattito pubblico – politici di destra e sindacati autonomi di Polizia – ne chiede l’abrogazione. Da qualche mese i pubblici ministeri e i giudici evocano la tortura nelle inchieste, la chiamano per nome. Solo così si riducono i rischi dello spirito di corpo.
Fonte: di Patrizio Gonnella/ Il Manifesto, 24 luglio 2020