Mori indagato per le stragi mafiose del ’93: “Fu già assolto”, ma questa non è l’accusa del passato
NE BIS IN IDEM – A Processo per Riina, Trattativa e Provenzano
C’è un’accusa (contro i pm ovviamente) che aleggia negli articoli, nelle interviste e nelle dichiarazioni politiche pubblicate dopo che Mario Mori ha svelato di essere indagato. L’accusa è quella di violare il principio del ne bis in idem, cioè il divieto di nuovo giudizio per l’imputato assolto in via definitiva per lo stesso fatto. Il generale che ha comandato prima il ROS dei Carabinieri negli anni ‘90 e poi il servizio, allora denominato SISDE, dal 2001 al 2006, sotto Berlusconi, per molti sarebbe stato indagato dai pm Filippo Spiezia, Luca Tescaroli, Luca Turco e Lorenzo Gestri sugli stessi fatti per i quali era stato assolto a Palermo.
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“Non si può ipotizzare lo stesso reato, viola i principi costituzionali. Le sentenze devono bastare”, è il titolo dell’intervista allo storico Salvatore Lupo pubblicata da Il Messaggero ieri. Ora, si può dire che l’accusa al generale, sulla base delle cose note (le due pagine del capo d’imputazione svelato da Mori) sembra difficile da sostenere. Si può polemizzare sul fatto che per Mori, 85 anni, già assolto tre volte, la sola indagine, ancorché doverosa, soprattutto se ci sono elementi nuovi che non conosciamo, è una pena.
Non si può sostenere invece che Mori è indagato per le stesse accuse per le quali è stato processato e assolto tre volte. La prima volta infatti gli contestavano il presunto favoreggiamento per la mancata perquisizione al covo di Totò Riina dopo l’arresto nel gennaio del 1993. La seconda volta il favoreggiamento in relazione al mancato arresto del boss Bernardo Provenzano nel 1995 a Mezzoiuso e la terza volta la violenza o minaccia a corpo politico dello Stato nel cosiddetto ‘processo trattativa’ .
L’indagine odierna non riguarda nessuno dei tre fatti suddetti. La nuova ipotesi di accusa sollevata a Firenze è infatti molto più grave delle precedenti. Ciò non vuol dire che sia più solida ma certamente è diversa. Qui si accusa Mori niente meno che di avere concorso, mediante una condotta omissiva, alle stragi realizzate da Cosa Nostra nel 1993 a Firenze e Milano e agli attentati di Roma nell’ambito della stagione in cui la mafia corleonese scelse la strategia eversiva per condizionare la politica.
Mori, per i pm, non impediva le stragi avendo il dovere giuridico di farlo. In particolare ometteva di fare indagini o attività preventive dopo avere ricevuto anticipazioni da più fonti sul piano stragista della mafia in nord Italia. Ad agosto del 1992 sarebbe stato avvisato del piano di colpire i monumenti e in particolare la torre di Pisa dal maresciallo Roberto Tempesta, in contatto tramite Paolo Bellini con il boss Antonino Gioé. Sempre per i pm fiorentini non fece nulla nemmeno dopo la seconda anticipazione degli attentati al nord del 25 giugno del 1993 ricevuta dall’allora confidente Angelo Siino, il quale a sua volta lo aveva saputo sempre dal solito Gioè, in carcere a Roma, dove quest’ultimo era finito nel frattempo a marzo 1993. Mori e i suoi difensori potranno portare mille argomenti per svalutare le confidenze suddette e per valorizzare le azioni successive del generale. Però l’ipotesi di avere aiutato, stando a mani conserte la mafia, a fare le stragi del 1993 non equivale a quella di avere aiutato, sempre con omissioni, i due capi della mafia corleonese a eludere la perquisizione a Riina e l’arresto di Provenzano. Né si può parlare di presunte responsabilità sovrapponibili tra il procedimento fiorentino e il processo trattativa. Mori è accusato a Firenze di essere rimasto ‘troppo fermo’ così permettendo a Cosa Nostra le stragi del 1993. A Palermo invece era stato accusato di essersi ‘mosso troppo’ andando a trattare con Vito Ciancimino dopo la strage di Capaci veicolando così la minaccia dei boss allo Stato.
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