PROCESSO ALLA BANDA DEL MATESE
Nella primavera del 1877 si concentrarono, in tutto una ventina di uomini, sul massiccio del Matese. Intercettati dalla polizia nei pressi di S. Lupo in provincia di Benevento aprirono il fuoco e uccisero un carabiniere e né ferirono un altro.
Carlo Cafiero, di ricca famiglia pugliese, socialista e internazionalista e Enrico Malatesta di S. Maria C. V. discepolo di Bakunin, anarchico alla testa di un pugno di uomini tentarono di provocare una sollevazione delle popolazioni meridionali contro il governo. Nella primavera del 1877 si concentrarono, in tutto una ventina di uomini, sul massiccio del Matese.
Intercettati dalla polizia nei pressi di S. Lupo in provincia di Benevento aprirono il fuoco e uccisero un carabiniere e né ferirono un altro. Attraverso sentieri di montagna ripararono in provincia di Caserta dove, nei comuni di Gallo e Letino, dichiarato decaduto il Re, proclamarono la repubblica sociale. Accerchiati e arrestati tutti, furono rinchiusi nel carcere di S. Maria C. V.
Contro gli arrestati furono aperti due processi, uno presso la procura del Re di Benevento per l’omicidio e il ferimento dei due carabinieri e l’altro presso la procura di S. Maria C. V. per attentato alla sicurezza interna dello Stato. L’istruttoria a S. Maria C. V. fu complessa e di largo respiro, anche se su di essa pendeva la minaccia del ministro dell’interno Giovanni Nicotera, di investire del processo un Tribunale Militare. A conclusione, il Procuratore Generale chiese l’unificazione dei due processi e il rinvio a giudizio degli imputati davanti la Corte di Assise di S. Maria C. V.
Venuto a morte il re, Vittorio Emanuele II, il nuovo re, Umberto I, proclamò l’amnistia per i reati politici. Rimasto il solo carico dell’uccisione e del ferimento dei due carabinieri, ritenuto reato comune, gli imputati furono rinviati a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Benevento, competente per territorio.
I giudici di quella Corte assolsero tutti gli imputati. Il tribunale e il carcere di S. Maria C. V. nella pendenza del giudizio finirono sui giornali di tutta Europa, non solo per l’aspetto politico del processo e la pericolosità degli imputati, ma anche per un episodio singolare, quasi di colore, che suscitò ilarità e incredulità, anche esse a livello internazionale.
Il 21 giugno 1877 il console d’Italia a Ginevra informò il ministro dell’interno che gli internazionalisti della “Banda del Matese” capeggiata da Carlo Cafiero ed Enrico Malatesta, prigionieri nelle carceri di S. Maria C. V. in attesa di giudizio innanzi alla Corte d’Assise di Benevento, erano riusciti a far pervenire una loro lettera al Bureau federale di Neuchàtel. Alla richiesta di spiegazioni del ministro, il direttore delle carceri e il procuratore del Re di S. Maria C. V. esclusero categoricamente che il fatto potesse essersi verificato sia perché gli agenti di custodia addetti alla sorveglianza erano persone di provata fede, sia perché i prigionieri erano guardati a vista in ogni movimento del giorno e della notte.
Ad ogni buon conto per scrupolo professionale il direttore diede ordine di privare i detenuti di qualsiasi strumento di scrittura e dispose che i prigionieri potevano scrivere due volte alla settimana alla presenza delle guardie e in una sala apposita su carta e con penna fornita al momento dalla direzione del carcere.
Dopo solo 20 giorni il ministro allarmato informò il direttore delle carceri che alla riunione del comitato della sezione italiana di Ginevra, Andrea Costa aveva tirato fuori un’altra lettera di Carlo Cafiero proveniente dalla prigione di S. Maria C. V. Il direttore rispose per la seconda volta che il fatto era impossibile e che il tutto era una millanteria degli internazionalisti diretti ad accreditare una forza inesistente.
Esasperò ancora lo scrupolo professionale e fece sorvegliare i sorveglianti dentro e fuori la prigione. Per quasi un mese Carmine Esposito, un agente di custodia fece impazzire il commissario di S. Maria C. V. ed altri esperti indagatori fatti venire apposta.
Smontato dal servizio, ogni giorno se ne andava alla stazione e se ne stava in contemplazione a vedere passare i treni. La Svizzera e i treni facevano giurare che fosse lui la talpa: tutti i sospetti risultarono infondati.
Carmine Esposito era nient’altro che un romantico che si contentava di affidare ai treni i suoi sogni di terre lontane. I prigionieri furono trasferiti dal 10° comprensorio, il nucleo di agenti fu cambiato e il nutrito drappello di soldati di guardia all’esterno rinforzato. Le palomme non hanno mai conosciuto barriere.
A distanza di poco meno di due mesi il giornale “L’Anarchia” di Napoli scrisse che gli internazionalisti prigionieri, nel carcere di S. Maria C. V. si erano costituiti in sezioni col nome di “Banda del Matese” e che avevano inviato ad Andrea Costa il mandato, sottoscritto da tutti, a rappresentarli al congresso di Verniers.
Come se la notizia non bastasse, il “Buletin de l’Association des travailleurs”, che si stampava a Sonvillieurs, cantone di Berna, pubblicò il testo del mandato con le firme dei detenuti. Il solito direttore diede la solita versione: le firme erano apocrife perché non era assolutamente possibile che i detenuti, rinchiusi in camerate diverse, avessero potuto firmare lo stesso foglio.
Il Ministro lo mise a tacere perché si accertò che le firme erano autentiche. Artefici dell’operazione erano stati due camorristi, il detenuto Vincenzo Esposito e il prestinaio esterno Camillo Palmiero, figlio di quel Ferdinando Palmiero, “pedecchiuso” uno dei capi camorra di Caserta, arrestati nella repressione del ‘62. A distanza di tempo fu sequestrata la micro attrezzatura per scrivere che solo i camorristi possedevano ed erano in grado di fornire. Andrea Costa rivelò ai compagni esuli in Svizzera che per ogni documento che usciva dal carcere, Cafiero pagava 40 lire.
PROCESSO CARNEVALE Era stato rinviato dalla Corte di Cassazione da Palermo alla Corte di Assise di S.Maria C.V. Salvatore Carnevale, socialista, sindacalista, guidava il movimento popolare per l’occupazione delle terre. Fu ucciso una mattina mentre percorreva un “tratturo” per recarsi al lavoro. Furono arrestati quali autori dell’omicidio quattro “campieri”, indicati come mafiosi di un feudo della principessa Notarbartolo.
L’istruttoria presso il tribunale di Palermo fu agitata da manovre sotterranee per scagionare gli imputati. Silenzio dei testimoni, falsi alibi, ritrattazioni di dichiarazioni già rese furono il terreno per invocare la legittima suspicione. Il processo davanti la Corte di Assise di Santa Maria fu lungo e a volte drammatico. Gli imputati furono condannati all’ergastolo e fu segnalato che quella era la prima sentenza che interrompeva l’abituale serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Vari furono i motivi che richiamarono a Santa Maria la stampa internazionale: 1) lo sfondo politico e mafioso del processo; 2) il libro di Carlo Levi” Le parole sono pietre” riferito al linguaggio asciutto e di denunzia di Francesca Serio la madre dell’assassinato; 3) la presenza al processo dello stesso Levi, interessato anche a verificare se gli imputati corrispondevano ai connotati morali che la Serio gli aveva attribuito e a lui riferiti in lunghi colloqui.
La serie di assoluzioni si interruppe solo per un momento per riprendere, con l’assoluzione degli imputati in appello, il suo corso. Parlare del passato remoto del tribunale non mi è stato difficile. I documenti costituiscono una guida sicura.
Parlare del suo passato prossimo è stato più difficoltoso perché il tempo non ha ancora ingiallito le carte. Parlare del tribunale oggi è estremamente difficoltoso, a meno che non ci si voglia fermare alle esteriorità fatte di arresti in massa, maxiprocessi e condanne all’ergastolo. Il lettore sprovveduto potrebbe confonderle con quelle che seguirono la famigerata Legge Pica (1863-1865). Il tempo rimetterà al loro posto, nella speranza che non ne manchi alcuna, le tessere del mosaico della giustizia.