Bellissimo intervento dell’ex magistrato:” Attenti ad annientare Cutolo. È una persona, non un “simbolo”
Dietro il no alla scarcerazione, l’idea (incostituzionale) del 41bis come fabbrica di pentiti. Quando, nel 1982, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini intervenne per ottenere il trasferimento di Raffaele Cutolo dal carcere di Ascoli Piceno a quello di massima sicurezza dell’Asinara, riaperto appositamente per lui e dove per un paio di anni sarà l’unico detenuto, tutte le persone amanti della giustizia approvarono quella saggia iniziativa.
La N.c.o. (Nuova camorra organizzata), fondata in carcere dal boss, aveva in poco tempo accumulato un enorme potere e assunto il controllo di vaste zone della Campania (e non solo), attraverso violenze di ogni tipo e omicidi efferati. Nel solo 1981, le vittime della guerra camorrista con la Nuova famiglia (la rivale associazione dei clan tradizionali) raggiunsero il numero di 295, furono 273 nel 1982, e toccarono quota 290 nel 1983.
La diabolica intelligenza del professore aveva saputo costruire una organizzazione radicatissima che forniva “lavoro” e welfare, ma anche identità, a giovani senza altra prospettiva di futuro, riuscendo a pescare perfino negli ambienti politicizzati che vivevano con rabbia il “tradimento” delle promesse sui cui si era fondata l’impetuosa crescita di consensi al Pci negli anni Settanta (non tutti finirono nelle fila del “Movimento del 77”, qualcuno fu attirato dalla sirena camorrista). Inoltre Raffaele Cutolo aveva saputo cogliere l’occasione del rapimento dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, da parte delle Br, per entrare da protagonista nel grande gioco delle trattative con la Dc ed i Servizi segreti (non deviati).
E fu proprio l’allarme per questa “trattativa”, i cui termini non erano affatto chiari, a spingere il saggio presidente Sandro Pertini a prendere un’iniziativa provvidenziale, che contribuì a stroncare un fenomeno nuovo e allarmante, e inferse senza dubbio un colpo gravissimo al prestigio di un uomo che non avrebbe dovuto averne, e alla forza di un’organizzazione che aveva prodotto solo danni alla civile convivenza.
Ma, col tempo, le cose cambiarono, e oggi la Nco – checché ne pensi il Tribunale di Sorveglianza di Bologna – non esiste più, e anche il prestigio criminale del vecchio boss malato è oramai un ricordo del passato. Eppure, dal 1986, egli è ancora soggetto al regime “duro” del 41bis, senza davvero che ce ne sia alcun bisogno.
Che cos’è il 41bis? Un sistema sadico mirante all’annientamento di un presunto nemico, e come tale incompatibile con la nostra Costituzione che sancisce la finalità rieducativa della pena. È un regime che impone l’isolamento e forti restrizioni ai rapporti con l’esterno, ma anche molte altre prescrizioni che non hanno niente a che vedere con la “sicurezza”. Cosa c’entra con la sicurezza, per esempio, il divieto di vestirsi come si vuole? O di usare lenzuola meno grezze di quelle fornite dall’amministrazione, o l’imposizione di un vetro di separazione nel corso di colloqui controllati visivamente e registrati? O le mille altre restrizioni senza altra ragione che non sia quella di rendere la vita impossibile? Un mio assistito, provetto pasticcere, lamenta di preparare la pasta frolla con il pan carré (che cucina poi in un forno di fortuna composto di due pentole sovrapposte), perché gli è vietato comprare la farina. Che cosa c’entra la sicurezza con la farina?
Legittimo dunque il sospetto, avanzato da molti, che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non “si pente”, o peggio di una tortura intesa a favorire la “collaborazione”, con ciò aggravando fortemente i profili di incostituzionalità dell’istituto. Perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta ad una revisione critica del proprio passato e alla decisione di farla finita col passato. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura.
Nei giorni scorsi, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha respinto l’istanza di scarcerazione per motivi di salute avanzata nell’interesse di Raffaele Cutolo.
Il suo avvocato, Gaetano Aufiero, ha assennatamente osservato: “Cutolo è una persona sola, ultraottantenne, afflitta da malattie e reclusa da quarant’anni, dei quali venticinque al 41bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana”. Leggiamo sui giornali che il Tribunale avrebbe obiettato che la sua scarcerazione “potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco, rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma”, e avrebbe aggiunto che il vecchio boss rappresenta “un simbolo”. Un simbolo? Che significa? Si mira forse a distruggere un “simbolo” attraverso l’annientamento fisico e morale di un essere umano?
Sono parole che ricordano la violenta requisitoria che il pubblico ministero Michele Isgrò pronunciò nel corso del processo contro Antonio Gramsci e altri dirigenti del Pci. Era il 2 giugno 1928 e il rappresentante della pubblica accusa dinanzi al Tribunale Speciale disse che bisognava “far smettere di funzionare il cervello” del fondatore del Pci, perché era sommamente pericoloso. Voglio con questo dire che Raffaele Cutolo è una vittima innocente come lo fu Antonio Gramsci? NO, non ci penso proprio. Piuttosto è la cultura di certi magistrati di oggi e di tutti i tonitruanti difensori del carcere duro ad assomigliare pericolosamente a quella del fascismo.
Fonte: di Nicola Quatrano, avvocato, ex magistrato */ Il Dubbio, 13 agosto 2020