Usa, arde ancora la fiaccola delle libertà?*

di Vincenzo D’Anna*

Chi non conosce la statua della libertà, quell’imponente monumento che, dal 4 luglio 1876, fa bella mostra di sé all’ingresso del porto di New York, di fronte a Long Island? Si tratta di un dono che la Francia ritenne di fare agli Usa nel centenario della loro nascita come Stato indipendente. I legami tra la nazione transalpina e quella americana sorsero durante guerra d’indipendenza che le colonie d’oltreoceano combatterono contro la madre patria Inglese potendo, appunto, contare sull’aiuto che Parigi garantì ai rivoltosi anche militarmente per un gioco di potere e di contrasto con la corona britannica. Tuttavia sarebbero trascorsi appena una dozzina di anni ed anche a Parigi sarebbe scoppiata una rivolta laica e popolare contro il potere della monarchia assoluta. Due rivoluzioni diverse, sotto il profilo costituzionale e della forma di Stato, ma che approdarono, entrambe, al risultato di liberarsi dell’imperio di un re, dotandosi di istituzioni democraticamente elette. D’altronde uno dei più illuminati protagonisti della rivoluzione francese, Alexis de Tocqueville, aveva studiato in loco i “fatti” americani, e così il generale Marie-Joseph du Motier, marchese de la Fayette, di origine francese e di cittadinanza americana, che partecipò ad entrambi i moti rivoluzionari. Ora, oltre gli episodi squisitamente storici, in quei due Paesi nacquero e prosperarono strutture parlamentari moderne, nel mentre il più antico sistema parlamentare, quello britannico, rimaneva di stampo monarchico. Sia come sia l’America è sempre stata la patria in cui le libertà politiche e civili sono considerate sacre, incartate in una Costituzione composta di pochi articoli basati su principii di carattere generale che i singoli Stati Federali hanno successivamente sviluppato. Una terra generosa, che ha accolto nel proprio seno decine di milioni di migranti, memore di un passato costruito, appunto, dalle mani di persone provenienti in prevalenza dalla madre patria inglese ed irlandese. Furono questi coraggiosi, infatti, a colonizzare inizialmente quelle terre selvagge, all’inizio anche con la violenza contro le popolazioni indigene oppure con l’ausilio del turpe traffico di esseri umani provenienti dall’Africa. Contraddizioni che poi furono pagate, in seguito, dal popolo americano con una sanguinosa guerra civile combattuta tra gli Stati del Nord e quelli del Sud per cancellare la schiavitù. Quello che maggiormente interessa, in questa sede, non è tanto l’elencazione delle benemerenze di una nazione che va considerata tra la più prospere e potenti al mondo, quanto verificare se quei principii di libertà politiche, civili ed economiche che pure la caratterizzano, sono ancora validamente posti e scrupolosamente osservati in quanto alla base delle proprie istituzioni repubblicane. Insomma: se quei criteri liberali, ormai bicentenari, ancora guidano la “terra dei liberi e la patria dei coraggiosi!”, come recita the Star-Spangled Banner, l’inno americano. Una verifica impensabile in epoca passata, allorquando gli Usa erano generalmente ritenuti i guardiani della libertà nel mondo, da sempre opposti militarmente e politicamente a tutte le forme di dittatura esistenti sulla faccia della Terra. Un’aura nobile, validata da fatti storici inconfutabili, che faceva della federazione statunitense un baluardo di democrazia al quale gli amanti delle libertà individuali guardavano con convinta ammirazione. Eppure quella stessa nazione ha anche patito, nel corso degli anni, forme illiberali come la segregazione razziale, la violenza politica (con l’omicidio dei suoi Presidenti) e lo scontro frontale con i mali tipici delle società multietniche, opulente e progredite ove spesso allignano i fenomeni di devianza criminale, a causa dell’idolatria del successo e del denaro. Per quanto stridenti siano quelle parentesi – devianti rispetto ai principi professati – l’America ha comunque sempre trovato, nella saldezza delle proprie istituzioni e nella fede diffusa dei suoi cittadini per l’idealità, un rimedio per riaffermare la sua più nobile ed originaria vocazione. Da qui un elenco di domande, obbligatorio, scontato, ovvio: è ancora saldo ed operante quel tessuto civile e politico che ha contraddistinto gli States in passato? La deriva qualunquistica che Donald Trump intercetta con forza e con largo seguito di consensi, può minare alla base i principii fondativi di quella nazione? E la debolezza di Joe Biden, fiaccato nel fisico e nel pensiero, rappresenta ancora una diga sufficientemente alta affinché la violenza politica ed il caos sociale non tracimino ancora in uno scontro popolare aspro e violento di vaste dimensioni?ci sarà l’accettazione dei risultati elettorali senza ulteriori assalti e vandalismi a Capitol Hill, ed altre sedi delle istituzioni federali? Più che l’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca, del comandante in capo dell’esercito più potente del mondo e dell’economia più florida tra le nazioni, quel che si para innanzi agli elettori americani, somiglia quasi ad una sorta di referendum sul domani del loro Paese: qualora infatti quella democrazia dovesse vacillare innanzi a soluzioni eversive, oppure populiste, qualunquiste, xenofobe (sul piano politico) e protezionistiche (sul versante economico), c’è il rischio che, con questa, possa cadere anche la luce che illumina gli “uomini liberi” e le società civili aperte e tolleranti, ovunque esse siano ubicate. Insomma: splenderà ancora la fiaccola della statua delle libertà nella nazione che e’ un faro per tutto l’Occidente? E’ questa la vera posta in gioco e nessuno lo può ignorare.

*già parlamentare