di Alessandra Ziniti

La Repubblica, 21 luglio 2024

“Apri”, “Chiudi”. Giacomo (lo chiamiamo così per proteggere la sua identità) non ha neanche due anni e mezzo e, di fatto, non parla. Dice “si”, “no”, “mamma”, “pappa” e quasi niente altro. Ma quelle due parole che sente ripetere così spesso in quella che è diventata la sua tragica routine dietro le sbarre, quelle le ripete puntualmente ogni volta che entra ed esce dal carcere. A Rebibbia, nella sezione nido, Giacomo è recluso ormai da dieci mesi insieme alla sua mamma che – diciamolo subito – non è una delle borseggiatrici rom sempre incinte contro cui la Lega invoca misure di massimo rigore (e pazienza se ci vanno di mezzo i bambini), ma è una trentenne italiana che sta scontando una pena per reati minori. Come il suo compagno, padre del bimbo, anche lui recluso a Rebibbia. E così dietro le sbarre è finito anche Giacomo. Sì, sbarre, perché la stanza in cui il bambino sta con la mamma, pur avendo una portafinestra di vetro, ha pur sempre le sbarre. Alle quali il piccolo si attacca con il nasino schiacciato sul vetro aspettando ogni mattina l’arrivo di una delle volontarie dell’associazione “A Roma insieme-Leda Colombini” che hanno dato alla direzione di Rebibbia la disponibilità a portare Giacomo ad un nido esterno la mattina e a riportarlo in carcere il pomeriggio.

Due bambini figli di detenute, rientrano da scuola accompagnati da due volontarie nella Casa circondariale – Istituto a Custodia Attenuata per Madri (ICAM) nella Casa circondariale – Lorusso Cutugno, Torino, 8 aprile 2022.
ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Da ottobre scorso, quando sua madre è stata arrestata, Giacomo è il solo bimbo che sta a Rebibbia. Nessuno con cui parlare, giocare, interagire, nessuno degli stimoli di cui un bambino a quell’età avrebbe bisogno. Tanto che Giacomo ha maturato un ritardo nello sviluppo psico-motorio dovuto proprio alle condizioni in cui è costretto a vivere. Non parla, non corre, è sovrappeso, porta ancora il pannolino. La sua storia, alla vigilia dell’esame in aula del disegno di legge sicurezza che fa venir meno l’obbligo delle misure alternative per donne con figli minori di un anno, spiega cosa significa condannare un bambino a vivere recluso.

A raccontarci le giornate di Giacomo dietro le sbarre è una delle volontarie che tre volte la settimana va a prenderlo a Rebibbia “Lui è contentissimo di andare al nido – dice – io entro con l’auto dentro il carcere, quando salgo a prenderlo lo trovo dietro il vetro di sicurezza con le sbarre che mi aspetta. Mi vede e gli si illumina il viso. Scendiamo insieme i 16 gradini che portano all’atrio e provo a fargli ripetere i numeri. Poi quando in auto aspettiamo che le guardie aprano il cancello, lui cominciare a dire: “Apri, apri, apri”. Giacomo, sei contento di andare a scuola? “Si”. “Di vedere la tua maestra? “Si”, “E i tuoi compagni? “Si”. Non dice altro ma fa dei gridolini indicando una moto, una bici, un parco, immagini estranee alla sua realtà quotidiana.

“Quando ci avviciniamo a Rebibbia e lui riconosce le mura di cinta, allora dice sempre “mamma” – racconta ancora la volontaria – capisce che lo sto riportando da lei. E mi si stringe il cuore quando, dopo aver varcato il grande cancello di ferro con le sbarre, Giacomo dice ‘chiudi’. Sa che le guardie ce lo richiudono subito alle spalle”. Per il resto della giornata, la tv con i cartoni animati è il suo principale passatempo. C’è un piccolo giardinetto nella sezione nido con dei giochi, ma è pieno di zanzare. Non corre mai come fanno tutti i bimbi della sua età, mangia quel che passa il convento e quello che la mamma gli compra allo spaccio. Una volta a settimana viene portato dall’altro lato ad incontrare il padre.

Ma come è possibile che un bimbo di due anni sia in carcere da nove mesi, perché la mamma non è in una casa famiglia? Giacomo è purtroppo vittima anche della burocrazia, di una lunga attesa di una valutazione. E nel frattempo continua a ripetere “apri” e “chiudi”.

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