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Gli operai schiavi di Hitler. 1.448 uomini sequestrati

16 giugno ’44 – Genova: il dramma delle tute blu

26 Luglio 2024

La sera del 16 giugno 1944 inizia a circolare clandestinamente nei quartieri genovesi di Ponente un messaggio disperato a firma Comitato di Difesa del Popolo: “L’azione dei negrieri fascisti ha trattato i nostri fratelli come carne da macello, nella più infame tratta di schiavi che la storia possa registrare”.

È avvenuto qualcosa di sconvolgente, inaudito fin nell’oscenità del nome in codice con cui il prefetto Carlo Emanuele Basile ne ha pianificato i preparativi: Operazione Lauseharke che vuol dire “pettine per pidocchi”. Un’ironia macabra che avrà compiaciuto i caporioni nazisti, i quali da tempo reclamavano da Mussolini un contributo di manodopera qualificata italiana da deportare nella madrepatria. Perché i pidocchi in questione altri non erano che gli operai delle acciaierie Siac di Campi, del cantiere navale Ansaldo, della Piaggio carrozze ferroviarie e della elettrotecnica San Giorgio di Sestri Ponente. Colpevoli di aver dato vita dal 1° giugno 1944 al grande sciopero che aveva coinvolto dodicimila tute blu del polo metalmeccanico e cantieristico genovese. Rivendicavano aumenti salariali, chiedevano la fine della guerra, si ribellavano alla dittatura fascista che aveva assunto il volto della Repubblica Sociale sottomessa ai tedeschi. Scioperi antifascisti, che univano ragioni sociali a ideali politici, si erano già verificati nel marzo 1943 in tutto il triangolo industriale dell’Italia settentrionale, quando ancora il Duce era al potere e la Resistenza organizzata nel Cln di là da venire. Ma la capacità di tenuta degli scioperanti genovesi, capaci di un’astensione dal lavoro a oltranza di dieci giorni, venne percepita come un oltraggio dal prefetto Basile. Il 13 giugno dispose la serrata degli stabilimenti e preannunciò: “Questa non è che la prima e la più blanda misura. O con noi o contro di noi”.
Nessuno però avrebbe potuto immaginare che la rappresaglia prendesse le forme di un sequestro di massa, la più grande deportazione di operai perpetrata in Italia, per farne degli schiavi di Hitler.

La storia poco raccontata di quella ferita inferta dal nazifascismo alla popolazione genovese è stata ricostruita da Giovanni Mari in un libro prezioso, Assalto alla fabbrica, che si avvale delle testimonianze degli ex deportati e dei loro familiari riuniti nel Gruppo 16 Giugno. Sembra quasi che chiedano scusa, nella breve postilla al volume, per il desiderio di lasciar testimoniata la loro sofferenza – “non abbiamo gesta eroiche da raccontare, abbiamo solo scioperato contro la guerra e la dittatura” – quasi che si trattasse di un episodio trascurabile di quei venti mesi che videro Genova in prima fila nella lotta per la Liberazione dell’Italia. Il paradosso è che negli stessi giorni dell’aprile 1945 in cui Genova insorgeva in anticipo sull’arrivo degli angloamericani, e riusciva a liberarsi da sola costringendo il generale tedesco Meinhold ad arrendersi nelle mani dell’operaio Remo Scappini, presidente del Cln, gli operai genovesi deportati in Germania, ridotti allo stremo, vivevano in prima persona la caduta del Terzo Reich. Quelli concentrati a Mauthausen vennero costretti a cremare i cadaveri degli ebrei. Quelli affittati per 6 marchi al giorno agli industriali privati che ne avevano fatto richiesta a Dresda, a Berlino, nella Ruhr, si ritrovarono bersagli dei bombardamenti aerei degli Alleati.
Era tempo che tributassimo loro l’attenzione che meritano, riconoscendoli a pieno titolo partecipi della Resistenza, che forse sarebbe più giusto declinare al plurale, essendo troppo a lungo rimasta in ombra la Resistenza delle donne, quella degli internati militari renitenti alla leva e, per l’appunto la Resistenza disarmata dei lavoratori.

Il gelido rapporto della Militarkommandantur genovese registra che durante la pausa pranzo di quel venerdì 16 giugno 1944 fu operata un’“azione punitiva” allo scopo di “arrestare 1448 operai sul posto di lavoro nelle aziende in sciopero e trasportare questi in 43 vagoni ferroviari nel Reich per destinarli al lavoro forzato”. Un rastrellamento condotto unitamente dai soldati tedeschi e dalle milizie fasciste. Giovanni Mari nel libro descrive nel dettaglio il dramma, la casualità della sorte di chi venne acciuffato e chi riuscì a fuggire. Non pochi gli adolescenti stipati nei carri bestiame da cui, dopo un viaggio penoso, verranno scaricati il 18 giugno nel lager di Mauthausen. Fra loro non mancano nomi conosciuti: il diciasettenne Ibio Paolucci che nel dopoguerra diventerà valente giornalista dell’Unità; Raimondo Ricci, futuro presidente nazionale dell’Anpi; Augusto Puri, fratello maggiore di quell’Ambrogio Puri che nel dopoguerra da manager assumerà la guida dell’Ansaldo.
Incerto il numero di coloro che non riuscirono a fare ritorno, essendosi il numero degli operai deportati al lavoro forzato di molto accresciuto dopo il giugno 1944. Quanto al principale responsabile di quella ignobile deportazione, Carlo Alberto Basile, morì nel proprio letto a Stresa nel 1972. Nel dopoguerra venne condannato a morte ma, grazie all’amnistia, presto lasciò il carcere e militò attivamente nel Movimento Sociale Italiano, il partito di cui Fratelli d’Italia si considera erede.

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