Morto Alain Delon. Tutte vedove* di Vincenzo D’Anna*

Conobbi chi fosse Alain Delon nel momento in cui vidi un poster che lo raffigurava attaccato al muro della cameretta di quella che allora era la mia fidanzata, oggi mia moglie. Credo che quel manifesto sia stato affisso, per anni, nelle camere da letto di milioni di donne: Delon, di cui in questi giorni si piange la scomparsa, era in fondo un’icona che rappresentava il fascino dell’uomo ideale. Parliamo, ovviamente, delle teen-agers degli anni ’70 del secolo scorso, anni nei quali erano ancora vivi e vitali i precetti della ribellione socio culturale sbocciati nel maggio del 1968. Anni violenti e radicali nei quali un vecchio sistema educativo, insieme con le regole dell’etica pubblica e della morale personale, venivano spazzati via, per dare spazio alla totale liberazione dai vincoli e dalle regole comportamentali di una società in continua evoluzione. Intendiamoci: non tutto cambiò in meglio, anzi, a cominciare dalla scuola e dalle università, la contestazione politica cancellò sia le costumanze delle baronie sia la didattica e gli studi. In sintesi: diventammo tutti più liberi ma anche un poco più ignoranti. Erano quelli tempi orientati più da pulsioni che da ragionamenti, da idee confusamente rivoluzionare che partorirono celebri epitaffi come “l’immaginazione al potere”. Anni in cui l’impegno politico era un elemento decisivo per sentirsi emancipati, lo strumento per cambiare le cose, ancorché quasi sempre si viaggiasse senza una precisa meta. Anche affiggere dei poster in casa, come quello che ritraeva il grande attore francese, era un sintomo, per le ragazze, di manifestare un’identità che si sottraeva alle rigide regole familiari di quei tempi, in uno con la minigonna ed i cortei studenteschi: la rivendicazione della parità dei diritti e l’emancipazione del genere femminile. Delon fu, per certi versi, un simbolo di quella voglia di autodeterminazione, un modo di dire: “sposo chi mi attrae esteticamente, chi mi garba culturalmente, senza distinzioni di ceto sociale, non chi volete voi, cari genitori”. Insomma, Delon, si parva licet, fu per le giovani donne quel che l’effigie di Ernesto Che Guevara rappresentò per i ragazzi che volevano cambiare le società. Ma l’attore transalpino non fu solo un simbolo, uno degli ultimi interpreti di quell’epoca di fermenti che nel mondo cinematografico italiano si chiamò “la dolce vita” ed in quello francese “la nouvelle vogue”. La prima, iniziata con i film di Federico Fellini, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, si svolgeva in via Veneto a Roma, la seconda a Parigi e prese il via con i film di Louis Malle, Jean-Luc Godard e Francois Truffaut. A scoprire Alain Delon, nel suo massimo splendore artistico, oltre che nella prorompente bellezza che lo caratterizzava, fu il grande regista Luchino Visconti che gli affidò una parte nella pellicola “Rocco ed i suoi fratelli” e poi nel “Gattopardo”, traduzione cinematografica del celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa. A sommesso parere di chi scrive, la migliore interpretazione artistica “italiana” di Delon fu ne “L’ultima notte di quiete” di Valerio Zurlini dove la leggenda del cinema francese interpreta un originale professore di filosofia che si innamora di una sua studentessa. Nutrito il palmares dei premi assegnati, anche se quel che più emergeva in lui era il mito che sapeva sprigionare alla pari di personaggi del calibro di Brigitte Bardot e Marcello Mastroianni, autentiche impronte di vita che si erano fatte storia del costume. L’immagine dell’iconico attore ha rappresentato, per anni, l’ideale della bellezza maschile, il termine di comparazione del “bello in sé”, come avrebbe detto il filosofo Platone. Infatti Delon fu anche molto benvoluto al di fuori del mondo della celluloide, dove era ritenuto una buona persona prima ancora che un personaggio. Nelle ultime interviste si era detto pronto a morire per la semplice ragione che viveva in un mondo di cui non comprendeva più (né approvava) le costumanze, una società ove, altre a venire a mancare i suoi affetti e le persone care, mancavano lo spirito e l’idealità che gli erano propri. Nel contempo, per gentilezza d’animo e spessore intellettuale, si dichiarava estraneo alla ricchezza ed alla mania del possesso, consapevole di aver vissuto una vita straordinaria senza mai atteggiarsi a mostro sacro dell’arte. Alain aveva per l’Italia una venerazione. Si era definito francese di nascita ed italiano per elezione. La sua era una scelta di vita. Difficile trovare un francese con un simile atteggiamento, d’altronde era sempre sorridente e mai presuntuoso, cordiale senza mai essere altero. La Francia gli tributerà certamente gli onori che merita, perché perde un suo ambasciatore nel mondo. Quando morì Charles De Gaulle, l’allora primo ministro George Pompidou annunciò così la notizia: “la Francia è vedova, De Gaulle è morto”. Credo che per Delon si possa dire pur senza enfasi: “le donne sono tutte vedove, Delon è morto”.

*già parlamentare