*Legge di Bilancio, la madre di tutte le scelte* di Vincenzo D’Anna*
E’ iniziata la settimana decisiva per la politica economica del governo Meloni che dovrà presentare, a Bruxelles, il documento programmatico di bilancio dello Stato. Cosa non da poco per chi ha ricevuto in eredità un cospicuo debito causato da un periodo di spesa incontrollata (dal reddito di cittadinanza al superbonus). Tuttavia i vincoli di bilancio non si esauriscono col deficit pregresso. C’è infatti da mettere sul piatto anche la spesa che l’esecutivo di centrodestra ha determinato con la minore contribuzione per lavoratori (riduzione del cuneo fiscale) e gli sgravi per le madri lavoratrici. Due misure che, da sole, assorbono circa 20 miliardi di euro. Da questa scelta, compiuta dal Mef, si capirà quale tipo di politica fiscale intenderà adottare il governo per la seconda parte della legislatura. Le elezioni, in fondo, sono sufficientemente lontane per poter mettere mano ad un iniziale risanamento del debito. In ogni caso, le sfide che la maggioranza di centrodestra dovrebbe accettare sono tre. La prima è quella di un riordino del sistema fiscale per via ordinaria dal momento che finora si è andati avanti con provvedimenti di durata annuale con il proposito poi di poterli rinnovare di anno in anno. La seconda sarebbe quella di passare dalla fase degli interventi chirurgici a una più corposa revisione delle aliquote Irpef, tagliando la selva di norme che si sono affastellate negli anni a botta di sgravi ed agevolazioni. Insomma: serve una riforma di sistema che riduca la pressione fiscale dando, al contempo, la certezza ai contribuenti di quello che lo Stato effettivamente pretende da loro. Sarà sempre tardi perché ci si renda conto che buona parte dell’evasione (diretta o indiretta che sia) è spesso determinata da una forma di legittima difesa rispetto all’esosità delle richieste. In tutti sistemi liberali, almeno laddove sono scarse sia l’idolatria dello Stato che l’idea che questi debba poter saccheggiare i redditi a secondo delle spese e dei debiti che esso accumula, il maggiore gettito fiscale si è registrato tagliando la percentuale delle imposte dovute. Il che lo si è ottenuto snellendo i percorsi ed il confronto tra apparato centrale e contribuente. Lo hanno fatto Margaret Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan negli Usa, con esiti positivi per l’economia e gli introiti stessi. Ebbene, basterebbe allora applicare la curva di Laffer che mette in relazione l’aliquota d’imposta con le entrate fiscali. In soldoni: basterebbe accettare che oltre una certa percentuale di imposte applicate il gettito cali invece di aumentare. Fin quando, infatti, il contribuente ritiene sopportabile e compatibile con la sopravvivenza della propria impresa, oppure del proprio lavoro, la tassazione egli paga; quando invece le tasse esorbitano il giudizio di equità e di compatibilità del contribuente, ecco che questi si ingegna per non pagare, provoca in tal modo l’erosione fiscale se non l’evasione vera e propria. Una fenomenologia che si fonda sia su fattori pratici – circa la sopportabilità – sia di quelli psicologici del contribuente. Minori tasse significano minori costi per le imprese, maggiore incidenza sui prezzi dei prodotti, più aliquote di mercato conquistate, più produzione e fatturato e comunque maggiori imposte da versare sul maggiore fatturato. In decine di paesi al mondo, almeno quelli che hanno i bilanci non disastrati e soprattutto non sono oberati da una mole di debito, questo ciclo virtuoso produce più introiti statali e quindi benessere diffuso, la creazione di più ricchezza e lavoro. Sarebbe, comunque, un’illusione pensare di poter far leva solo sull’incremento delle entrate senza ridurre le spese statali, ossia senza alleggerire i compiti dello Stato ed i relativi esborsi. Lasciando al libero mercato di concorrenza, ai minori prezzi dei beni e dei servizi, alla libera iniziativa, di realizzare il famoso paradigma “ meno Stato e più mercato”. Una condizione che coincide con la terza sfida da accettare per il governo Meloni e che, per la verità, è durata nel nostro Paese fino agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso, con il famoso boom economico. Anni d’oro, che avevano visto, in precedenza, De Gasperi alla guida del governo e Luigi Einaudi a reggere il timone della Banca d’Italia fin poi ad assurgere alla carica di Capo dello Stato. Furono poi i governi di centrosinistra, venuti in seguito, con le partecipazioni statali, il consociativismo sindacale, l’idea dello Stato onnipresente e delle greppie assistenziali a determinare per il Belpaese quelle condizioni di criptosocialismo economico e di clientelismo politico che tanto male hanno fatto allo Stivale!! Non si può certo chiedere all’esecutivo in carica di recuperare sessant’anni di sperpero e di spesa pubblica, di diecimila aziende partecipate, del ripiano a piè di lista dei disavanzi di queste ultime, della evasione fiscale. Si può però chiedere alla coalizione di centrodestra più a destra che ci sia mai stata, un segnale forte e chiaro di liberalismo in politica e di una sana economia sociale di mercato. In politica, infatti, spesso si semina per quelli che in seguito dovranno raccogliere, un esercizio certo difficile per un politico. Lo è di meno però per uno statista, che guarda al futuro più che alle rendite del presente. In fondo dietro la partita economica c’è sempre l’impronta di una sintesi politica e, con essa, la capacità di compiere gesti ricordevoli ed utili per realizzare il bene comune, più che perpetrare il proprio potere.
*già parlamentare