Locandina
lo-can-dì-na
Significato Piccolo manifesto esposto in luoghi pubblici a fini promozionali, specie di spettacoli, kermesse e simili
Etimologia diminutivo di locanda, voce dotta recuperata dal latino, propriamente gerundivo di locare ‘affittare’.
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«Ehi, hai disegnato tu la locandina? Splendida!»
Noi aggi abbiamo i cartelli ‘affittasi’: si affigge un’indicazione per mettere in affitto un posto dove stare. Ci possiamo godere il cortocircuito fra ‘affiggere’ e ‘affitto’, entrambi dalla pianta del figere latino, ‘fissare’: uno letterale, manuale, riferito a un manifesto che viene fissato da qualche parte, uno figurato, che investe il canone fissato (fitto), e quindi il posto da dare a fitto.
Ma insomma, la storia di questa pratica è più antica dei nostri cartelli di plastica dai colori accesi e dei nostri A4 stampati in casa, e in particolare la dicitura è stata per lungo tempo differente. In latino ‘affittare’ si diceva locare (in effetti si dice ancora, specie nel gergo del diritto), e quindi una stanza da affittare era una locanda, che dà anche il nome all’albergo, non d’alto bordo, in cui si può affittare una stanza, o un letto, o più probabilmente un posto in un letto con altra gente.
Permettiamoci qui un piccolo inciso di grammatica latina perché è utile in generale: quando troviamo terminazioni di questo genere (-andus -anda -andum, -endus -enda -endum e via dicendo) siamo probabilmente davanti a un gerundivo, cioè a un aggettivo verbale che trasforma un verbo in una qualità colorata di dovere o necessità (faccende, leggende, prebende, agende, reprimende, con addendi e reverendi stupendi, tutti con un passato da gerundivi — roba da fare da leggere da offrire da agire da reprimere da aggiungere da riverire).
Perciò la locanda è [una stanza] da affittare, locanda est. Se (come forse facciamo) collochiamo questo nome in narrazioni medievali, con viandanti in cerca di una locanda per la notte, siamo fuori strada: ‘locanda’ è una voce dotta, recuperata quando impazzava la latinomania primocinquecentesca del Rinascimento.
Ad ogni modo abbiamo alle spalle secoli di annunci, scritti su ogni supporto, titolati ‘locanda’. Sono stati tanto consueti alle masse che questo titolo, nel Novecento, ha acquistato il significato di ‘piccolo manifesto pubblicitario’ — diminuito in locandina.
Il passaggio non è banale: è un po’ come se fra qualche secolo la grafica appesa con i volti i nomi e le date dello spettacolo teatrale si chiamasse ‘affittasi’ anzi ‘affittasino’ («L’ho letto sull’affittasino dello spettacolo»).
Ma proviamo a dire anche qualcosa di più, oltre al fatto che è un piccolo manifesto pubblicitario: certo, la locandina è un foglietto volante appoggiato su un bancone, o un foglio poco più grande attaccato a una vetrina, ma la chiamiamo locandina anche se la vediamo solo digitalmente, e — attenzione — anche quando la consideriamo in astratto, come contenuto informativo e grafico.
In altre parole, un ciclopico manifesto coi personaggi del film d’animazione che campeggia sulla piazza non lo indicheremmo come ‘locandina’, ma poi potremo dire di aver visto quei personaggi sulla locandina del film — senza contare che lo notiamo anche considerando la stessa grafica della locandina, quando chiediamo «Chi ha disegnato la locandina?» senza tenere conto delle dimensioni.
Così posso parlare di quanto sia bella la locandina della prossima uscita al cinema, posso parlare delle locandine della serie di incontri che si terrà in paese sparse nei bar, dell’emozione di vedere un nome che si conosce sulla locandina di un evento importante, ma anche delle notizie roboanti gridate dalle locandine fuori dall’edicola (infatti sono locandine anche le civette, i manifesti che anticipano articoli dei giornali in vendita).
In tanta ordinarietà troviamo uno splendido groppo di passato e presente, pieno di sorprese.