In Falciano di Carinola  nel 1945 – Uccise il vicino perché la cavalla aveva pascolato sul suo terreno/ La sua condanna fu a 18 anni di reclusione – L’accusa sostenuta da Luigi De Magistris nonno dell’ex sindaco di Napoli

di Ferdinando Terlizzi (*)

 

I Carabinieri della stazione di Falciano di Carinola il 22 marzo del 1945 riferivano che si era presentato nei loro uffici l’agricoltore Angelo Gerardi ed aveva riferito che in contrada Scorticavacca dell’agro di Falciano quella stessa mattina l’agricoltore Giuseppe Taglialatela,  aveva ucciso, con due colpi di fucile, il suo vicino di fondo Francesco D’Amico.  Mentre il D’Amico era intento ad arare il proprio terreno fu fatto segno da parte del Taglialatela di 2 colpi di fucile che provocarono la morte quasi immediata. Commesso il delitto il Taglialatela si dava alla latitanza asportando l’arma omicida. Dalla perquisizione in casa D’Amico si rinvenne un fucile a due canne calibro 16 carico di 3 cartucce,  la canna sinistra presentava “annerimento” di polvere e a parere del maresciallo dei carabinieri da recente esplosione. Le indagini a riguardo accertarono che nella sera precedente al delitto, il D’Amico era stato a caccia insieme con Michele e Raffaele Iovine e aveva esploso contro un volatile un colpo di fucile.  La moglie dell’ucciso Giuseppina Fiorellino si costituì parte civile mentre la Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Napoli con sentenza il 22 marzo ’47 – su conforme requisitoria del pubblico ministero –  rinviò al giudizio dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere il Taglialatela per rispondere del reato di omicidio premeditato aggravato. Il Taglialatela, che si era dato alla latitanza, venne arrestato il 24 febbraio 1948 e la causa fu discussa all’udienza del 2 febbraio ‘49 in presenza dell’imputato.

 Nel corso del processo il pubblico ministero d’udienza chiese la condanna del Taglialatela per omicidio volontario a 30 anni di reclusione e l’avvocato Ciro Maffuccini, in difesa del Taglialatela, avanzò la richiesta della scriminante della provocazione e la concessione delle attenuanti generiche e non già una legittima difesa sia pure putativa.  In effetti la tesi della legittima difesa non fu sostenuta con effettiva insistenza tanto è vero che la parte civile – rappresentata dal professor  Alberto Martucci – mise più volte in risalto il fatto che non era credibile la tesi secondo la quale il Francesco D’Amico si sarebbe abbassato per prendere il fucile.  La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Ignazio Lagrotta; giudice a latere, Domenico Musicco;  Procuratore Generale, Luigi De Magistris (nonno dell’ex sindaco di Napoli),  dopo le arringhe della parte civile sostenute dagli avvocati Cesare di Benedetto e dal professor Alberto Martucci e quelle della difesa dell’imputato Ciro Maffuccini  e Giuseppe Fusco, nell’udienza del 26 febbraio del 1949, condannò l’imputato a 18 anni di reclusione.

Non solo fu quindi accertato il pascolo doloso ma si seppe, finanche, che il D’Amico era vittima della prepotenza del Taglialatela che non si dimentichi – aveva già commesso un altro omicidio.

 

(*) Fonte: Ferdinando Terlizzi – I processi de la cronaca – Inedito (in pubblicazione per l’anno 2026)