Dopo giorni in cui tutti nel social-salotto si sono riscoperti (o reinventati?) teologi per pontificare circa la nuova crociata contro Halloween, mentre la fazione opposta difendeva l’americanata che nata in America non è, io guardo a Napoli e a quella filosofia napoletana che dà – è proprio il caso di dirlo – gusto e sapore alla vita. E anche alla morte.
In realtà, Halloween non è che una “contaminazione di ritorno” per Napoli, dove è millenaria consuetudine offrire dolci ai morti. In una città che vanta piatti e tradizioni per ogni cosa, già prima del secondo dopoguerra, a fine ottobre, i bambini mettevano qualche lira in una scatola – ‘o tautiello, appunto – e, agitandola, facevano impaurire passanti e vecchietti al grido di “ccà dindo ce sta ‘o morticiell’” cui seguiva la richiesta di qualche ficosecco, biscotto o leccornia varia, l’antesignano di “dolcetto o scherzetto” insomma; in una città dove c’è una connessione continua tra vivi e morti, laddove ogni altra città rifugge il contatto con l’oltretomba, a Napoli, dove si chiede protezione a chi sta nell’oltretomba senza disdegnare qualche richiesta di qualche numero da giocare al lotto con la promessa di qualche “refrisko a l’anema d’o priatorio”, addirittura si sono create succulenti pietanze ad hoc, in loro onore: il torrone dei morti.
Non è difficile in questi giorni vedere spuntare bancarelle, finanche nei pressi dei cimiteri, dove poter acquistare quello che è un dolce tipico e topico e che non è certo il torrone di Natale. Tutt’altro! Tutto il contrario. Il torrone dei morti è un composto dolce, morbido, prodotto per allietare il trapasso e il viaggio nell’aldilà. Un composto tenero di cioccolato con un cuore di mandorle e nocciole abbrustolite, destinate al trapassato che si presume avesse una dentatura carente. Dal latino torreo (io abbrustolisco), persino la sua forma era trapezoidale, proprio per ricordare la forma di una bara. Napoli, però, è anche la città della scaramanzia e, forse, presi dal dubbio che questo torrone “avessa purtà male”, i mastri pasticcieri iniziarono ad arrotondare la parte superiore della “dolce bara” dando così una forma semicircolare alla creazione.
Anche un omaggio da parte dei defunti a vantaggio dei vivi che bisognava allietare per la triste mancanza.
Non era difficile che in questi giorni “di festa”, infatti, si facesse visita ad amici e parenti portando in dono proprio questo specialissimo dolce il cui uso veniva, poi, allargato al “libero” consumo, al punto che era consuetudine fino a qualche decennio fa omaggiare la fidanzata (e la madre di lei, ma non vogliamo malignare!) proprio con il torrone dei morti. Altra particolarissima qualità è l’acquisto che non veniva fatto dell’intero pezzo, ma a fette perché, essendo poi farcito dei gusti più disparati – fragola, pistacchio, frutta mista – si poteva gustare di tutto un po’. Accanto al torrone dei morti faceva bella vista anche ‘o franfallicco, una caramella ormai scomparsa, prodotta là per là dal franfalliccaro, di zucchero filato – anticamente anche col miele – il cui nome deriva dal francese fanfaluche “ninnolo, cosa di poco conto” che, quindi, poteva essere acquistata da tutti. E dopo questa Napoli avanguardista e popolare, contro i tuttologi del “webbe”, diretti o indiretti detrattori di Partenope, da ‘o munno d’ ‘a verità, si alza il napoletanissimo invito a “zucarsi ‘o franfallicco” e “skiattare (requiescat) in pace”.