La lezione tedesca buona anche per l’Italia* di Vincenzo D’Anna*
Se c’è un termine tanto abusato ed allo stesso tempo tanto equivocato, questi è proprio “liberismo”, nelle sua forma più utilizzata dai profani e dai mendaci. Ma, cari lettori, non desistete dall’andare avanti nella lettura di questo fondo. L’intento di chi scrive, infatti, è solo quello di spiegare come si possa trovare, per governare il Belpaese, una teoria economica che meglio si adatti ai vizi degli italiani ed alla loro atavica predilezione per l’assistenzialismo statale. In sintesi, come poter conciliare le forme tollerabili di una politica di rigore e di risanamento economico con la detta vocazione degli italiani a chiedere sussidi e favori al governo. Che il familismo amorale, ossia l’abitudine a gestire il potere per favorire i propri elettori (e questi ultimi i propri parenti), sia una cifra distintiva della nostra nazione, fin dagli albori della Repubblica, è cosa nota. E tuttavia è possibile poter conciliare, in qualche egual misura, i difetti degli uni (i governanti) e quelli degli altri (i governati), la qual cosa è d’interesse generale e quindi anche del lettore che sarà arrivato a leggere questo articolo fino alla fine. Chiariamo prima le cose dal punto di vista terminologico e semantico: il liberismo è la dottrina economica del liberalismo e quest’ultimo rappresenta la più vasta dottrina per governare lo Stato in regime di democrazie e di libertà, garantendo tutti i diritti ai governati nell’ambito di una società “aperta” e tollerante. E’ strano come molti si dicano convinti liberali ma poi critichino il liberismo che altri non è se non la libertà d’impresa in un libero mercato di concorrenza posto sotto l’imperio delle regole statali. Senza quelle regole politiche ed il rispetto delle medesime, il libero mercato si trasformerebbe nel luogo in cui i lupi divorano gli agnelli. Insomma: senza politica non può esistere l’economia. La prima infatti deve assicurare il benessere e l’equa gestione dei poteri, la secondo la libera iniziativa e d’impresa entro gli ambiti della corretta concorrenza. I socialisti ritengono il mercato di concorrenza – il liberismo – il luogo ove si creano disparità sociali, ove regna la regola del profitto (e del profittatore) in ragione del fatto che l’impresa ha finalità lucrative. Il mercato è ritenuto dai “sinistrorsi” una fonte di disparità sociale perché c’è chi vince e c’è chi perde la competizione. Secondo loro e’ meglio consegnare tutto nelle mani dello Stato che dovrebbe prevedere e provvedere alle ambizioni, ai bisogni ed ai gusti dei cittadini resi, in tal modo, eguali e massificati tra loro. Una fatale quanto tragica presunzione quella dello Stato onnipresente ed onnipotente che ovunque applicata ha solo portato un’equa distribuzione dei desideri inevasi e della povertà!! Ma al di là di queste considerazioni, la faccenda assume anche risvolti pratici che si riversano direttamente sui comuni cittadini. Se il debito pubblico infatti non cala, aumenteranno anche gli interessi sullo stesso e di conseguenza le tasse. Se chi ci governa spreca denari pur di accaparrarsi la simpatia dell’elettorato, lo farà a scapito di altre priorità più necessarie alla nazione. La malapianta del clientelismo allignerà rigogliosa, la politica abbandonerà l’interesse e la cura dell’interesse generale e diffuso per dedicarsi alla cura del particolare: quello richiesto dai clienti a scapito del bene comune. A rimorchio di questo andazzo giungerà puntuale la compromissione etica del parlamento ed il varo di leggi inique e con esse arriverà la corruzione e la complicità illecita tra benefattore e beneficiato. A quest’ultimo poco interesserà il rimanente e le disparità verranno fuori da questo malsano andazzo politico e non certo dal regime delle libertà economiche che puntano, invece, a conquistare il compratore con buoni prezzi e buoni prodotti. Una lezione di vita trasfusa in economia. Esiste, dunque un sistema che almeno attutisca, entro limiti ragionevoli, questo ciclico modo di fare? Sì e si chiama “economia sociale di mercato”. Un’economia che non tralascia la cura dei bisogni e delle necessità degli svantaggiati, di quelli che, non potendo competere, restano indietro e di coloro che sono nati in ultimo nella scala sociale. Un capitalismo, insomma, ben temperato e disciplinato che non rinuncia ad alcuna delle proprie libertà competitive. Un governo che, nel pieno rispetto delle garanzie sociale, tenga conto dei bisogni dell’imprenditore e dei i lavoratori. La scuola economica di Friburgo diede origine a questa tipologia di liberismo che, applicato in Germania da Wilhelm Röpke, agevolò l’opera di governo di statisti come Konrad Adenauer, Ludwig Erhard, Willie Brandt, Helmut Kohl nel far risorgere la nazione tedesca dalle macerie della guerra perduta e dal pesante onere del debito di guerra da pagare ai vincitori. In parole provare si coniugò l’economia con il diritto, facendo prevalere le regole decise della politica che andavano a disciplinare ed orientare il mercato si concorrenza. Se oggi ci si lamenta di una politica subalterna ai potentati economici la colpa è di coloro che non hanno né visione né cultura di stampo liberal liberista. Conoscere, quindi, per giudicare chi ci governa. Siete giunti fin qui a leggere? Bene credo che abbiate le idee più chiare.
*già parlamentare