La caccia al Tesoro di Donald; le pressioni per confermare Gaetz; il G20 e la Cop29
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martedì 19 novembre 2024

 

La dottrina di Putin, i piani di Trump
(FILES) This combination of pictures created on November 7, 2024 shows former US President and Republican presidential candidate Donald Trump at a Fox News Town Hall in Cumming, Georgia, on October 15, 2024, and Russia's President Vladimir Putin speaking during the BRICS summit in Kazan on October 24, 2024. Trump has spoken to Putin and urged him not to escalate the war in Ukraine, the Washington Post reported on November 10, 2024. Trump spoke with Putin from his Mar-a-Lago estate in Florida on November 7, just days after his stunning election victory over Democratic rival Kamala Harris, the report said. (Photo by Elijah Nouvelage and Alexander NEMENOV / AFP)
 

Buongiorno,

oggi abbiamo dodici blocchetti e un taccuino per raccontarvi il mondo di America-Cina: partiamo dalla dottrina militare aggiornata da Putin, dai mille giorni della guerra in Ucraina, dall’intervista all’ex ministro degli Esteri ucraino Kuleba. Proseguiamo a Washington con il piano di Trump per gestire l’immigrazione, la corsa per guidare il Tesoro americano e le pressioni sui senatori per confermare Gaetz come ministro di Giustizia.

Vi raccontiamo poi il G20 da Rio de Janeiro, la Cop29 da Baku, la condanna dei 45 democratici che volevano elezioni libere a Hong Kong, l’auto piombata sulla folla in Cina, le armi russe trovate nel deposito di Hezbollah, il complotto iraniano per uccidere l’ex ministro della Giustizia canadese.

Buona lettura.

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(Andrea Marinelli) Il presidente russo Vladimir Putin ha approvato il decreto che aggiorna la dottrina nucleare della Russia. Secondo quanto riporta l’agenzia Tass, il decreto sulla deterrenza consente d’ora in poi di utilizzare armi nucleari nel caso la Russia — ma anche la Bielorussia — venga attaccata con armi convenzionali che creino una minaccia alla sovranità o all’integrità territoriale. Finora la dottrina prevedeva invece che la Russia utilizzasse armi nucleari soltanto in caso di un attacco nucleare, oppure nel caso di un attacco che mettesse in pericolo l’esistenza dello Stato.

Russian President Vladimir Putin attends a meeting with New People party's leader Alexey Nechaev in Moscow, Russia, Tuesday, Nov. 19, 2024. (Vyacheslav Prokofyev, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)

La mossa arriva nel millesimo giorno di guerra in Ucraina, pochi giorni dopo che gli Stati Uniti hanno dato a Kiev il permesso di usare missili a lungo raggio per colpire obiettivi militari all’interno della Russia. Di fatto, la nuova dottrina rende più facile una rappresaglia nucleare, possibile ora anche contro uno Stato non nucleare se questo è supportato da potenze nucleari: ogni aggressione contro la Federazione con il sostegno o la partecipazione di uno Stato nucleare verrebbe considerato un attacco congiunto, spiega la nuova dottrina, così come l’aggressione di uno Stato parte di un’alleanza o un blocco militare sarebbe considerata un’aggressione dell’intera alleanza o blocco.

Il documento, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale russa, rappresenta «una misura estrema per proteggere la sovranità» nazionale: a causa dell’emergere di nuove minacce e rischi militari, hanno chiarito a Mosca, la Russia «ha dovuto chiarire i parametri che consentono l’uso di armi nucleari». Se Donald Trump sarà pronto ad «ascoltare le preoccupazioni» della Russia e a «capire le ragioni per cui la Russia sta agendo in questo modo», ha commentato il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov all’agenzia Ria Novosti, allora sarà possibile un dialogo «per il raggiungimento della pace».

 Intanto emerge che le forze di difesa ucraine hanno colpito ieri, per la prima volta, il territorio russo con i missili balistici Atacms. «Il bersaglio è stato colpito con successo», ha detto una fonte informata delle Forze di Difesa al media ucraino Rbc. «L’attacco è stato effettuato contro un obiettivo nella regione di Bryansk».

Tre altri soldati si abbracciano e incoraggiano a vicenda: sono ufficiali della leggendaria Terza Brigata d’assalto e stasera saranno assieme sul treno per tornare al fronte nella zona di Kupiansk. «Vogliamo vendicare i nostri morti. Putin deve pagare caro l’errore di averci attaccato e Zelensky non può svendere la nostra terra in cambio di un finto accordo, dobbiamo vincere a tutti i costi», dicono.

A una decina di metri, una coppia di anziani genitori recita una preghiera dopo avere a sua volta piantato la bandierina dove hanno scritto a mano col pennarello nero il nome del figlio caduto due settimane fa nel Donbass: Igor era di Chernihiv e aveva 24 anni. L’inchiostro deve essere di cattiva qualità, perché nell’umido si sta già dissolvendo. Alexandra ha gli occhi arrossati, sembra abbia pianto tanto negli ultimi giorni. «Questa è per papà Oleh, che aveva appena compiuto 46 anni ed è morto a Bakhmut l’anno scorso. Quest’altra è per Vinceslav, il padre di mio marito, caduto 55enne vicino a Pokrovsk un mese fa. Poi c’è mio cugino Sergi, 32 anni, che era come un fratello e giocavamo assieme da piccoli. Infine, Bogdan, anche lui 32enne morto per difendere Kharkiv, ed era il figlio dei nostri vicini di casa. Sono tutti partiti volontari, non hanno aspettato di essere reclutati. Se avessi parlato con loro, ti avrebbero spiegato che non c’era alternativa e che i russi andavano fermati con le armi. Ma sai cosa ti dico io oggi? Basta! Non possiamo più andare avanti in questo modo. Occorre che Zelensky arrivi al più presto a un compromesso con Putin. Non la pensavo affatto così un anno fa. Ma il Paese non ce la fa più, meglio vivi e occupati adesso, che morti per sempre», dice piantando le bandierine.

Accanto a lei, Marina Shastopalova, 40 anni della regione di Sumy, sfiora con la mano l’immagine di Igor Riedun, che aveva 29 anni ed è morto nell’enclave di Kursk a fine agosto. «Facile parlare di eroismo e guerra a oltranza, quando si sta comodamente a casa propria lontani dal fronte. Il nostro villaggio si trova a 40 chilometri dal confine russo, ogni giorno in chiesa celebriamo il funerale di un soldato. Dobbiamo assolutamente lavorare per la fine della guerra e voi europei dovreste garantirci», esclama.

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Dmytro Kuleba, 43 anni, non ha perso un filo di energia da quando, due mesi fa, Volodymyr Zelensky lo ha pregato di farsi da parte. Per molti a Kiev era diventato un ministro degli Esteri dal profilo troppo alto per un presidente così accentratore.

Joe Biden ora vi dà le armi per colpire la Russia in profondità. Un po’ tardi?
«Decisione in ritardo, da un pezzo. Quando un partner ti spiega perché una certa fornitura di armi non sia possibile, sai che la vera questione è sempre la volontà politica. E riguarda tutti i nostri partner, non solo gli Stati Uniti. Ora molto dipenderà dalle forniture concrete dei missili e da come saremo autorizzati a usarli. Ma dobbiamo abbandonare l’idea che un solo tipo di arma cambi tutto».

La Russia reagirà agitando la minaccia nucleare?
«È il solito bluff. Aspetteranno di vedere come questa mossa sui missili a lunga gittata viene messa in atto, perché sanno che spesso le decisioni annunciate dai nostri partner non infliggono danni per loro insopportabili. Risponderanno con mezzi convenzionali. Oltretutto non vedo come possano lanciarsi in un’ulteriore escalation, perché lo fanno già di continuo in ogni caso. Hanno un obiettivo, distruggere l’Ucraina. E lo perseguono».

Crede che Trump possa risolvere il conflitto? Lui dice che lo farà in un giorno.
«Al fondo la guerra è semplice, uomini e donne che si uccidono. Ma più sali nella scala della guerra e più è complicato. E quando un leader dice che metterà fine a una guerra in batter d’occhio, posso dirle che non funziona così».

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(Andrea Marinelli) Donald Trump ha confermato di voler dichiarare un’emergenza nazionale per i migranti irregolari, in modo da poter utilizzare l’esercito per i rimpatri forzati. «È vero», ha scritto all’alba di lunedì sul social network Truth, rispondendo a un vecchio post di Tom Fitton, leader del gruppo conservatore Judicial Watch, che dieci giorni fa sosteneva che la futura amministrazione avrebbe «dichiarato l’emergenza nazionale e utilizzato asset militari per gestire l’immigrazione irregolare con un programma di rimpatri di massa». Secondo il team di transizione, questi centri permetterebbero di accelerare il processo di espulsione evitando il cosiddetto «catch and release»: rilasciare i richiedenti asilo permettendogli di restare nel Paese in attesa delle udienze.

FILE - Former President Donald Trump gestures as he leaves after speaking at a news conference at Trump Tower, Friday, May 31, 2024, in New York. (AP Photo/Julia Nikhinson, File)

La frase, mutuata dalla pesca, è entrata nel gergo politico ai tempi dell’amministrazione Bush. Nei piani della futura amministrazione, invece, i centri sarebbero un deterrente: ritengono che molti più migranti irregolari — nel 2022 erano 11 milioni, secondo le stime del Pew Research Center — saranno disposti a lasciare volontariamente il Paese se costretti ad aspettare l’esito del processo di asilo in detenzione. Dichiarando emergenza nazionale, inoltre, Trump potrebbe aumentare i rimpatri forzati senza passare dal Congresso: in questi casi il parlamento americano garantisce infatti ampi poteri al presidente. È così, spiega il New York Times, che durante il suo primo mandato Trump aveva potuto spendere sul muro al confine più soldi di quanti ne aveva autorizzati il Congresso.

In campagna elettorale Trump ha più volte promesso di attuare già dal primo giorno «il più grande programma di rimpatri forzati della Storia americana», «indipendentemente dai costi», arrivando a far fallire l’accordo bipartisan sull’immigrazione per poterla utilizzare come arma politica. Il piano, secondo i leader democratici in Congresso che promettono battaglie legali, violerebbe tuttavia le leggi federali che impediscono di utilizzare l’esercito sul suolo americano. L’unico appiglio sarebbe l’Insurrection Act del 1807 che garantisce al presidente poteri di emergenza per affidarsi all’esercito nel caso ci sia una minaccia fondamentale all’ordine pubblico. Secondo i repubblicani, invece, non sarebbe molto diverso da quanto succede già, visto che spesso è la Guardia nazionale a occuparsi del trasporto dei migranti.

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Le spiagge dorate della città brasiliana, blindata dai carri armati dell’esercito per l’apertura del G20, sono affollate di gente che fa il bagno, gioca a footvolley e balla la samba sulla sabbia. Ma i chilometrici viali che Giorgia Meloni ha percorso per raggiungere il summit al Museo di arte moderna di Rio sono pieni di persone che dormono sui marciapiedi, come cose buttate su giacigli d’asfalto. Immagini che spiegano perché il presidente Luiz Inácio Lula da Silva abbia messo al centro del summit il tema della fame nel mondo.

TOPSHOT - US President Joe Biden (L) and Italy's Prime Minister Giorgia Meloni leave after the group photo at the end of the first session of the G20 Leaders' Meeting in Rio de Janeiro, Brazil, on November 18, 2024. (Photo by Mauro PIMENTEL / AFP)

L’Argentina si è messa di traverso. Il presidente ultraliberista Javier Milei, che domani riceverà la premier Meloni a Buenos Aires, è stato l’unico leader del G20 a opporsi all’alleanza globale «contro la fame, la povertà e la disuguaglianza» promossa da Lula. Finché, nella prima giornata di lavori, l’Argentina ha cambiato strategia in corsa e ha deciso di aderire alla coalizione trasversale.

Al momento della foto di famiglia Meloni e Joe Biden non c’erano, forse perché negli stessi minuti li hanno visti parlare fitto e ridere con Justine Trudeau e sono arrivati in ritardo.

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Delusione alla COP29 per la dichiarazione finale del G20 di Rio. Delegati e osservatori alla Conferenza sul clima di Baku aspettavano trepidanti una spinta dai Paesi che rappresentano l’85% dell’economia globale e l’80% delle emissioni di gas serra. Martedì mattina, però, dopo un primo momento di entusiasmo per la lunghezza del «capitolo» dedicato a «Sviluppo sostenibile, transizione energetica e azione climatica» e l’«appello per un solido risultato finanziario per il clima a Baku», è subentrata una sorta di crisi di nervi collettiva.

Il G20 delude la COP: «Nessun passo avanti sul clima». Occhi puntati su Ue e Cina

Nel testo non c’è alcun passo avanti rispetto ai precedenti impegni, semmai si è inserita la retromarcia, perché non viene citato il «transitioning away», ovvero l’impegno ad «una giusta, ordinata ed equa transizione dai combustibili fossili nei sistemi energetici». E da Rio non arriva neppure un impegno finanziario concreto. Due temi che delineano anche due fronti contrapposti: i Brics da un lato, l’Ue e gli Usa dall’altro.

 «Non è arrivato nessun input» da Rio sulla finanza climatica, conferma il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, giunto ieri sera a Baku, appena uscito da una riunione con la delegazione della Ue alla COP. «Anzi, in questo momento noi evitiamo di parlare di cifre. Abbiamo appena finito la riunione e l’impegno che abbiamo assunto è quello di non parlare di numeri, anche perché vogliamo legare i numeri alle misurazioni e alle mitigazioni».

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L’esercito israeliano ha catturato grandi quantità di armi nei depositi dell’Hezbollah nel Libano sud e ha sottolineato come molte siano di produzione russa (circa il 60 per cento). Ora il particolare è scontato fino ad un certo punto: secondo i militari si tratta anche di equipaggiamenti recenti, arrivati alla fazione dai depositi in Siria. C’è chi ha proposto di dirottare il materiale in Ucraina. Un gesto di solidarietà e di ritorsione per la mossa di Mosca.

Armi catturate dagli israeliani

Indiscreto. Non è escluso che gli Usa abbiano inviato degli uomini delle forze speciali ad assistere le forze governative nello Yemen. Un appoggio in risposta agli attacchi da parte dei militanti Houthi in Mar Rosso. Segnalato, a questo proposito, un volo di un aereo da trasporto statunitense.

Negoziati. Amos Hochstein, inviato speciale della Casa Bianca, è arrivato in Libano. Una missione legata alla trattativa per arrivare ad un cessate il fuoco. Le fonti ufficiose lasciano trasparire un moderato ottimismo sulla trattativa nonostante continui gli scambi di colpi. Ronen Bar, capo dello Shin Bet — l’intelligence interna israeliana — si è recato sabato in Turchia per discutere del dossier Gaza con Ibrahim Khalil, responsabile del Mit, i servizi segreti. È di ieri la notizia di un trasferimento dei dirigenti in esilio di Hamas dal Qatar al territorio turco.  L’Emirato ha precisato che la chiusura della rappresentanza palestinese è solo temporanea.

(Guido OlimpioIrwin Cotler, 84 anni, ministro della Giustizia canadese dal 2003 al 2006, è nel mirino degli iraniani. Secondo indiscrezioni trapelate sui media sarebbe stato sventato un piano per assassinarlo, operazione attribuita al regime degli ayatollah.

Di fede ebraica, molto impegnato nella difesa dei diritti umani, l’uomo politico ha aderito alla campagna per inserire i pasdaran nella lista dei gruppi terroristici e si è speso in appoggio alla protesta dei dissidenti. Un’attività che avrebbe spinto l’Iran a studiare una rappresaglia. Già nel 2022 erano emersi timori per la sua sicurezza dopo un’indagine negli Stati Uniti sulle minacce nei confronti di una giornalista iraniana esule a New York.

Le rivelazioni seguono altre inchieste su iniziative «coperte» di Teheran in Europa e negli Stati Uniti, missioni affidate dai guardiani a criminali comuni.

Scott Bessent? Il finanziere degli hedge fund era probabilmente la prima scelta di Donald Trump per la guida del ministero del Tesoro, ma Elon Musk l’ha silurato definendolo «la soluzione business as usual che porta l’America alla bancarotta». E chiedendo il «voto popolare» dei suoi follower a sostegno di questa tesi. Musk ha messo sulla rampa di lancio il capo di Cantor Fitzgerald, Howard Lutnick, altro grande sostenitore di Trump, presentandolo come «uno che rivoluzionerebbe Wall Street».

Howard Lutnick, Kevin Warsh, Scott Bessent, Marc Rowan e Robert Lighthizer

Ma a quel punto l’ultima grande nomina del presidente repubblicano è diventata una partita molto complicata, un po’ rebus, un po’ guerra di trincea: The Donald stima Lutnick ma, mentre in tutti gli altri settori, dalla Giustizia alla Difesa, vuole fare sfracelli per demolire quello che chiama il deep State, in campo finanziario si muove con più prudenza, non volendo creare turbolenze in Borsa, organismo che gode del suo massimo rispetto. Lutnick, poi, si è fatto del male da solo impegnandosi in prima persona in una rumorosa campagna elettorale condotta anche tra le palme di Mar-a-Lago quando ha avuto la sensazione che la bilancia pendesse a favore di Bessent. Il quale, vistosi sotto attacco, ha cominciato a tempestare di telefonate Musk e lo stesso Trump.

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(Andrea Marinelli) Donald Trump sta chiamando personalmente i senatori repubblicani per convincerli a votare per la conferma di Matt Gaetz come procuratore generale, il ministro di Giustizia degli Stati Uniti. La nomina dell’ex deputato della Florida, a lungo al centro di un’inchiesta per traffico sessuale di minorenni da parte dello stesso dipartimento di Giustizia che dovrebbe guidare e poi della commissione etica della Camera, è forse la più controversa fra le prime annunciate dal presidente eletto, al punto che numerosi repubblicani hanno espresso — più o meno apertamente, vista la presa che Trump ha sul partito — la propria sorpresa o opposizione. Alcuni hanno definito la nomina di Gaetz una prova di forza, che il presidente eletto vuole assolutamente vincere.

FILE - Rep. Matt Gaetz, R-Fla., speaks during the Conservative Political Action Conference, CPAC 2024, at the National Harbor, in Oxon Hill, Md., Feb. 23, 2024. (AP Photo/Alex Brandon, File)

«Vuole chiaramente Matt Gaetz», ha rivelato ad Axios il senatore repubblicano del North Dakota Kevin Cramer, confermando di aver ricevuto lui stesso una telefonata da Trump. «Crede che Gaetz avrà il coraggio e la ferocia, davvero, di fare quello che c’è bisogno di fare al dipartimento di Giustizia». Per poi aggiungere: «È una persona molto persuasiva». Un altro anonimo senatore ha confermato al sito, sempre informatissimo, di aver ricevuto la chiamata del presidente eletto. Anche la Cnn ha ottenuto conferma delle telefonate, pur senza scoprire i destinatari: le fonti sostengono però che Trump abbia chiarito la determinazione con cui vuole ottenere la conferma dell’ex deputato Gaetz, dimessosi non appena la sua nomina è diventata ufficiale.

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Bandiere con la svastica, slogan razzisti e antisemiti, una decina di neonazisti, completamente vestiti di nero, il volto coperto, hanno marciato per le strade del quartiere dello shopping a Columbus, capitale dell’Ohio, tra gli sguardi attoniti dei passanti. I video della marcia hanno fatto rapidamente il giro dei social media, provocando la condanna della Casa Bianca che ha definito la marcia una «nauseante esibizione».

Il presidente Joe Biden «aborre il veleno d’odio di nazismo, antisemitismo e razzismo» che definisce «ostile a tutto quello che gli Stati Uniti difendono, compresa la difesa della dignità di tutti i nostri cittadini e la libertà di culto» ha detto il portavoce Andrew Bates. Su X ha fatto sentire la sua voce Mike Devine, governatore dell’Ohio: «In questo Stato non c’e’ posto per odio, intolleranza, antisemitismo o violenza e dobbiamo denunciarle dovunque le vediamo».

L’Anti-Defamation League ha detto che i fatti di Columbus corrispondono ad eventi analoghi che, a centinaia, si sono registrati negli ultimi 18 mesi in tutti gli Stati Uniti. La strategia è di fare piccole dimostrazioni, senza preannuncio per evitare contro manifestazioni. «L’obiettivo è di creare paura nelle comunità ed essere fotografati e ripresi», ha spiegato Oren Segal, vice presidente del centro sugli estremisti della League che insieme al suo team segue le attività dei suprematisti bianchi.

La lettura delle condanne ha fatto calare il sipario sul processo «Hong Kong 47» e su quel che restava del sogno democratico. Decine di esponenti dell’opposizione anticomunista dovranno scontare fino a dieci anni di carcere per aver violato la Legge di sicurezza nazionale cinese imposta nel 2020.

FILE - Pro-democracy activist Joshua Wong stands outside the Legislative Council building in Hong Kong on Nov. 28, 2019. (AP Photo/Kin Cheung, File)

Dieci anni fa di questi giorni il professore di diritto Benny Lai e lo studente Joshua Wong erano in testa a cortei oceanici a Hong Kong. I loro volti erano sulle prime pagine della stampa mondiale che seguiva i 79 giorni della Rivoluzione degli Ombrelli, la sfida democratica lanciata nel 2014 nelle strade dell’ex colonia britannica alla Cina. Quegli ombrelli gialli aperti dai ragazzi di Hong Kong servivano inizialmente a ripararsi dagli idranti e dagli spray urticanti della polizia. Divennero rapidamente il simbolo di un territorio che reclamava elezioni a suffragio universale e piena democrazia, una richiesta che minava le fondamenta del Partito comunista cinese. Il potere vacillò a Hong Kong, ma Xi Jinping non ammise concessioni in quella ricca periferia dell’impero ancora sensibile ai valori occidentali. Nel 2019 il fronte democratico si mobilitò ancora, per l’ultima volta, con altre manifestazioni di massa e anche guerriglia urbana. 

Quel tempo è passato per sempre. Oggi i due alfieri del sogno infranto e decine di loro compagni di impegno politico hanno ascoltato la sentenza di condanna per «cospirazione al fine di sovvertire l’ordine costituzionale». Il professore Lai ha ricevuto 10 anni di carcere, il giovane Joshua Wong 4 anni e 8 mesi. Gli altri imputati e imputate dovranno scontare tra i quattro e i sette anni di detenzione.

Tutti sono in cella dal gennaio 2021, quando una retata all’alba rastrellò il gruppo dirigente del movimento di opposizione hongkonghese. In tutto, 47 uomini e donne del campo democratico furono chiusi in carcere per aver ordito un «malefico piano sovversivo» che infrangeva la nuova Legge di sicurezza nazionale cinese. Il piano «malvagio» consisteva nell’aver organizzato o partecipato nel 2020 alle primarie per selezionare i candidati di opposizione alle elezioni legislative. Nonostante le minacce delle autorità, a quell’ultima mobilitazione avevano partecipato 610 mila cittadini di Hong Kong, che si misero in fila per votare in seggi improvvisati dagli attivisti. L’obiettivo dichiarato del fronte di opposizione era conquistare la maggioranza dei seggi al Legislative Council e mettere il veto alle leggi proposte dall’esecutivo sottomesso a Pechino.

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Di nuovo un «incidente». A meno di una settimana dalla tragedia di Zhuhai, quando un Suv ha travolto decine di persone su una pista di atletica con un bilancio ufficiale di 35 morti e 43 feriti. Oggi un’auto ha travolto passanti e scolari davanti a una scuola di Changde, nella provincia dello Hunan, nella Cina centro-orientale. «Vari studenti sono rimasti feriti martedì mattina dopo essere stati colpiti da un’auto fuori da una scuola elementare a Changde», riferisce l’agenzia Xinhua (Nuova Cina).

«Il veicolo sospetto era un piccolo Suv bianco», ha riferito ancora la Xinhua. «Dopo l’incidente l’autista è stato fermato sul posto dai familiari degli studenti e dalla sicurezza della scuola. Alcuni feriti sono stati immediatamente trasportati in ospedale». In realtà, il guidatore è stato estratto a forza dall’auto e picchiato a sangue, anche con bastoni prima dell’arrivo della polizia. In Cina la tensione è altissima. Le autorità, in occasione del disastro di Zhuhai avevano ordinato un immediato blackout delle notizie, con il chiaro intento di evitare possibili «imitazioni» e conseguenti «vendette private».

Ma nell’era digitale le maglie della censura sono imperfette. E, pochi giorni dopo, ecco un episodio simile. Perché accade? La spiegazione più plausibile che si può dare è legata alla tradizione, che considera, in Cina, non il singolo ma il clan, il gruppo, come base della società. Di fatto, gli individui non «valgono» se non per le loro relazioni con la famiglia allargata, o il gruppo di lavoro, o magari il partito. La responsabilità individuale è tale soltanto se collegata a queste realtà. Quando qualcosa va per il verso sbagliato, quando qualcuno subisce quello che giudica un torto, è automatico (naturalmente parliamo di estremi nel comportamento) scaricare la colpa sugli «altri».