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giovedì 28 novembre 2024
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Kellogg e la pace, Netanyahu contro Haaretz, i soldi pubblici ai partiti |
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di Alessandro Trocino |
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Bentrovati. Ecco il menu della Rassegna di oggi.
L’inviato per la pace Mercoledì Donald Trump ha nominato Keith Kellogg come suo inviato per porre fine alla guerra tra Ucraina e Russia. Non una persona molto nota, ma con qualche idea già chiara, che ci racconta Massimo Nava.
Attacco a Haaretz Il governo israeliano ha deciso di boicottare il giornale bastione dell’opposizione, vietando agli enti statali di comunicare con i suoi giornalisti e di pubblicare annunci pubblicitari sulle sue pagine. Un’applicazione preoccupante, spiega Gianluca, del metodo con cui Viktor Orbán ha piegato le voci critiche in Ungheria. E non l’unico esempio della piega autoritaria della leadership di Benjamin Netanyahu.
Soldi e partiti Dopo il tentativo, fallito, di modificare il meccanismo del 2 per mille, torniamo sulla vicenda e proviamo a capire a cosa servono questi soldi per i partiti e chi glieli deve dare.
Paesi Bassi e algoritmi Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International, ci racconta una storia di algoritmi razzisti, ambientata nei Paesi Bassi.
La Cinebussola «Piccole cose come queste» è un film che alterna pathos e pietas, dominato da Cillian Murphy, reduce dal successo di Oppenheimer. Ce ne parla Paolo Baldini.
Buona lettura!
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Rassegna internazionale
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L’uomo di Trump che vuole far finire la guerra
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Ci perdoneranno la facile assonanza, ma se la pace nel Paese dei cereali è appesa a un ex generale che si chiama Kellogg qualche speranza c’è. Ironia fuori luogo in mezzo a tanti lutti e distruzioni, tuttavia è noto che multinazionali americane hanno messo già gli occhi sulle immense risorse agroalimentari dell’Ucraina da ricostruire. Ma stiamo ai fatti.
Mercoledì, il presidente eletto Donald Trump ha nominato Keith Kellogg come suo inviato per porre fine alla guerra tra Ucraina e Russia. Sconosciuto nella scena internazionale, l’ottuagenario ex generale è abbastanza noto nell’opinione pubblica americana per partecipazioni, come esperto di affari di difesa, sulle reti televisive. In passato, ha presieduto il Consiglio di sicurezza nazionale durante il primo mandato di Donald Trump. Non si è sbilanciato sui termini della sua azione futura, ma ha un chiodo fisso già ribadito. Gli aiuti che l’Ucraina continuerà a ricevere dagli Stati Uniti saranno condizionati alla disponibilità di Kiev a sedersi al tavolo con la Russia. Sempre che naturalmente questa disponibilità ci sia anche al Cremlino.
Donald Trump si è felicitato con un alto funzionario che ha lavorato con lui fin dall’inizio e intende «ottenere la pace con la forza e rendere il mondo e gli Usa più sicuri», ma non si capisce per ora che cosa questa affermazione voglia dire in concreto. Pressioni, ricatti, accordi alle spalle di Zelensky o onorevole compromesso? È chiaro comunque che se non si mette fra parentesi la violazione del diritto internazionale di cui la Russia è responsabile, qualsiasi altro argomento – cessione o recupero di territori occupati, sicurezza dell’Ucraina, ingresso di Kiev nella Ue e nella Nato, sanzioni contro la Russia – rimarrebbe sospeso.
In una nota recente, Keith Kellogg è stato esplicito su questi punti. Ha infatti sostenuto che «qualsiasi assistenza militare futura degli Stati Uniti richiederà all’Ucraina di partecipare ai colloqui di pace con la Russia». Ha anche chiesto di «rinviare l’adesione dell’Ucraina alla Nato per un periodo prolungato» per «convincere il presidente Putin a partecipare ai colloqui di pace».
L’ex generale è tuttavia consapevole che «il governo e il popolo ucraino avranno difficoltà ad accettare una pace negoziata che non restituisca loro tutto il territorio occupato dalla Russia, ma come ha detto Donald Trump (…) nel 2023, ‘voglio che tutti smettano di morire’. Questo è anche il nostro punto di vista. È un buon primo passo».
È noto che Trump è molto critico nei confronti del sostegno incondizionato da parte di Joe Biden all’Ucraina e ha promesso di risolvere la guerra già prima del giuramento di gennaio, senza spiegare come lo avrebbe fatto.
Kellogg «ha fatto una brillante carriera militare e imprenditoriale, anche in ruoli di sicurezza nazionale molto delicati durante la mia prima amministrazione», ha insistito il presidente sul social network Truth.
Subito dopo la vittoria elettorale, Trump ha avuto un colloquio telefonico con Volodymyr Zelensky, il quale ha fatto sapere di aver concordato con il presidente americano «di mantenere uno stretto dialogo e di far progredire la nostra cooperazione». Trump ha anche parlato con Putin invitandolo a non inasprire la guerra in Ucraina. Invito che stando alle ultime settimane di intensi bombardamenti sull’Ucraina è caduto nel vuoto. Putin si è congratulato con il presidente eletto, affermando che quanto detto da Trump «sul desiderio di ripristinare le relazioni con la Russia e contribuire a porre fine alla crisi ucraina merita almeno attenzione».
Sulla biografia ufficiale del generale si legge: Keith Kellogg è nato a Dayton, nell’Ohio, è cresciuto in California e, dopo 23 trasferimenti militari in tutto il mondo e negli Stati Uniti, si è stabilito in Virginia, dove ricopre il ruolo di co-presidente del Centro per la sicurezza americana dell’Afpi. Kellogg è un generale dell’esercito a tre stelle, altamente decorato e in pensione, e vanta una vasta esperienza nel settore militare e negli affari internazionali. Recentemente è stato consigliere per la sicurezza nazionale dell’ex vicepresidente Mike Pence. È stato anche capo dello staff e segretario esecutivo del Consiglio di sicurezza nazionale.
Kellogg ha un’ampia esperienza in Europa, nel Pacifico, in Medio Oriente e in Africa. È stato autore e collaboratore di Fox News e Cnn. Si è laureato in Scienze politiche alla Santa Clara University e ha poi conseguito un master in Studi internazionali alla Kansas University. Con sua moglie, Paige, hanno tre figli e quattro nipoti. In un’intervista a Fox News, Kellogg ha detto che la guerra in Ucraina sarebbe la «cosa più grande» che Trump dovrà risolvere nella sua seconda amministrazione.
In documento redatto dal think thank First Policy Institute, Kellogg ha ribadito alcune linee guida della sua azione per cercare una soluzione negoziata del conflitto. Ribadisce di voler condizionare gli aiuti americani all’Ucraina solo se Kiev accettasse di partecipare a un tavolo con i russi, ma ha anche aggiunto che Washington non farà mancare il sostegno al Paese aggredito nel caso in cui Mosca non fosse disposta al dialogo.
Scritto insieme a Fred Fleitz, che è stato capo dello staff del Consiglio di sicurezza nazionale di Trump durante la prima presidenza, il documento afferma che la Russia potrebbe essere convinta a negoziare se gli Stati Uniti promettessero di «rimandare» l’adesione dell’Ucraina alla Nato per un lungo periodo di tempo. Il documento afferma inoltre che i negoziati avrebbero dovuto includere la creazione di una «architettura di sicurezza a lungo termine» per la difesa dell’Ucraina.
In un’intervista alla Bbc, l’ex ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba (recentemente in contrasto con Zelensky) ha detto che Trump ha «adottato un approccio molto intelligente»: «Il Presidente Trump sarà indubbiamente guidato da un unico obiettivo: proiettare la sua forza, la sua leadership. E dimostrare che è in grado di risolvere i problemi che il suo predecessore non è riuscito a risolvere».
Gli Usa insistono sul fatto che la guerra con la Russia deve finire prima che l’Ucraina possa entrare nella Nato. «Sono fermamente convinto che un giorno l’Ucraina sarà un membro della Nato, e applaudirò quando quel giorno arriverà», ha dichiarato il Segretario generale della Nato Mark Rutte, di recente nomina, ma ha aggiunto: «Spetta agli alleati discutere tra loro come portare avanti la questione». Un modo per dire che per il momento non se ne fa nulla, nonostante puntuali annunci.
L’Ucraina nel frattempo moltiplica accordi con partner stranieri per reperire i fondi per la ricostruzione e attrarre investimenti, ma in questo modo, di fatto, svende al miglior offerente le risorse minerarie e agricole. Se il tavolo negoziale sarà presieduto dagli americani, non è difficile prevedere questa parte del piano di pace. Kellogg, un nome, una garanzia.
I propositi di Kellogg non sono condivisi da Kurt Volker, ex ambasciatore americano alla Nato ed ex rappresentante speciale di Trump per i negoziati sull’Ucraina. Secondo Volker, il problema non è convincere Kiev a trattare, ma portare al tavolo Mosca. Se il vero obiettivo di Putin è la conquista dell’Ucraina, è chiaro che nessuna proposta lo soddisferà. «Questo sarebbe il messaggio giusto da trasmettere a Putin: l’Ucraina e l’Occidente sono in una posizione di forza rispetto alla Russia e possono superarla. Ma Biden ha fatto il contrario. Ha sempre esitato, ha sempre ritardato, ha sempre posto dei limiti. Così si trasmette a Putin che non abbiamo la determinazione, la volontà o la capacità. Dobbiamo ribaltare la situazione e convincere Putin che abbiamo tutta la capacità di cui abbiamo bisogno, tutto il denaro di cui abbiamo bisogno e tutto il tempo di cui abbiamo bisogno, quindi vi farete solo del male – quindi fermatevi».
Anche Volker tuttavia ammette che una volta ottenute per l’Ucraina tutte le garanzie sulla sua sicurezza e collocazione futura nella Nato e nella Ue, resterà aperta la disputa sui territori occupati «come abbiamo avuto una disputa sugli Stati baltici per 40 anni, o sulla Germania orientale, o come c’è ancora una disputa su Cipro Nord all’interno dell’Unione Europea. Questi territori nell’Ucraina orientale sono in gran parte distrutti e spopolati e quindi c’è molto meno attaccamento ora rispetto al passato».
(mnava@corriere.it)
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Rassegna mediorientale
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L’attacco di Netanyahu a Haaretz e alla libertà di stampa
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La resa dei conti con la stampa libera e critica. La conferma della piega autoritaria che sta prendendo la leadership di Benjamin Netanyahu: una tendenza emersa ben prima della guerra, con il golpe giudiziario – la riforma che avrebbe asservito la Corte Suprema al potere esecutivo e azzerato i processi per corruzione del premier israeliano – sventato all’inizio del 2022 da una protesta di massa. Ma rafforzata dalle guerre innescate dal massacro del 7 ottobre, che hanno indotto la destra al potere al più tipico riflesso antidemocratico in chiave sciovinista: la denuncia di qualsiasi critica come intelligenza col nemico, in una parola tradimento.
Questo sembra esprimere l’ultimo capitolo dello scontro tra Netanyahu e Haaretz, il quotidiano della sinistra liberal che rappresenta da anni il bastione di quel che resta dell’opposizione israeliana, molto indebolita sul piano politico, soprattutto nelle sue voci più progressiste e favorevoli al riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi.
Domenica scorsa, il governo israeliano ha approvato una proposta del ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi che vieta a qualsiasi ente finanziato dallo Stato di comunicare con Haaretz e di pubblicare annunci pubblicitari sul giornale. Un autentico boicottaggio politico ed economico, che il governo presenta come reazione a «molti editoriali che hanno danneggiato la legittimità dello Stato di Israele e il suo diritto all’autodifesa, e in particolare alle osservazioni fatte a Londra dall’editore di Haaretz, Amos Schocken, che sostengono il terrorismo e chiedono di imporre sanzioni al governo».
Il mese scorso, Schocken aveva detto che «il governo Netanyahu non si preoccupa di imporre un crudele regime di apartheid alla popolazione palestinese. Non tiene conto dei costi sostenuti da entrambe le parti per difendere gli insediamenti e combattere i combattenti per la libertà palestinesi, che Israele chiama terroristi». Affermazioni controverse che, dopo ampie proteste, l’editore aveva corretto in parte, precisando di non riferirisi a Hamas: «Avrei dovuto dire: combattenti per la libertà, che ricorrono anche a tattiche di terrore – che devono essere combattute. L’uso del terrore non è legittimo. Per quanto riguarda Hamas, non sono combattenti per la libertà, poiché la loro ideologia afferma essenzialmente: “È tutto nostro, gli altri dovrebbero andarsene”».
Fatto sta che il caso suscitato dalle sue parole ha tolto gli ultimi freni al governo, che si è lanciato nell’iniziativa tipicamente orbaniana di prosciugare le fonti di finanziamento al giornale avverso, privandolo della pubblicità di enti statali: un modello, quello costruito dal premier ungherese, che gli ha consentito di ridurre al silenzio gran parte dei media critici, fino a farli finire in mano ai suoi amici. E che – come pure l’altro pilastro dell’orbanismo: la subordinazione della magistratura – è pericolosamente studiato da molte destre nel mondo, a cominciare da quella americana, ma non solo.
Quella israeliana, intanto, si sta portando avanti. Le sanzioni contro Haaretz non sono certo un caso isolato. Anat Saragusti, che guida il dipartimento libertà di stampa dell’Unione dei giornalisti israeliani, fa un lungo elenco degli attacchi della destra alla libera espressione. Come quello a Ilana Dayan, una delle più importanti giornaliste investigative del Paese, che dopo un’intervista alla Cnn in cui aveva detto che i media israeliani nascondono la crisi umanitaria a Gaza, è stata sommersa di minacce sui social e sul suo cellulare privato.
Ma quello messo in atto dal governo ha i contorni di un vero e proprio piano di delegittimazione delle voci critiche, fino al loro spegnimento. Fin dal suo insediamento, nel dicembre 2022, il ministro Karhi ha annunciato il proposito di privatizzare la tv pubblica Kan, che è sempre stata indipendente dal governo. Ora, nel rilanciare il disegno di legge al riguardo, Karhi ha usato parole da studiare bene, per come stanno diventando il mantra di tutte le destre del mondo: «Siamo stati eletti dal popolo e se vogliamo possiamo realizzare un cambio di regime». La classica concezione proprietaria delle istituzioni che tradisce un’insofferenza ormai classica rispetto agli organismi di controllo e al ruolo dell’informazione.
Coerentemente, altre iniziative legislative di matrice governativa mirano a dare alle autorità la possibilità di chiudere i media che «mettono in pericolo la sicurezza dello Stato di Israele», definizione così ampia, sottolinea Saragusti, da renderla estremamente pericolosa: «Se approvate, queste proposte di legge darebbero di fatto ai leader politici il diritto e la capacità di chiudere qualsiasi sito web o media che non sia totalmente allineato con il governo».
Internet, in particolare, sembra nel mirino di Netanyahu con modalità che, denuncia la giornalista, ricordano da vicino quelle russe e cinesi. Ha già chiuso gli uffici di Al Jazeera in Israele e nei Territori palestinesi con un ordine esecutivo, e già che c’era ne ha approfittato per spegnere «la diretta su Gaza trasmessa dalla più grande agenzia di stampa del mondo, l’Associated Press, perché Al Jazeera utilizzava le sue riprese».
L’altro pilastro del metodo Netanyahu è la punizione dei giornalisti dissenzienti con «campagne diffamatorie ben organizzate, orchestrate e talvolta finanziate dalla politica contro singoli giornalisti e organi di informazione. Già negli anni scorsi, quando l’accusa che i media indipendenti fossero impegnati in una “caccia alle streghe” contro Netanyahu cominciava a farsi sentire con più forza, il Likud (il partito del premier) fece affiggere cartelloni pubblicitari in tutto il Paese con i volti di quattro importanti giornalisti e lo slogan “Non decideranno loro”». Altre modalità ormai tipiche: «Riempire le posizioni cruciali dei media con nomine politiche; concedere ai magnati dei media favorevoli a Netanyahu benefici economici e normativi, danneggiando le prospettive commerciali dei media disobbedienti».
Il bollettino di Anat Saragusti ricorda tanto quelli sui regimi dittatoriali sparsi per il mondo che il portavoce italiano di Amnesty International Riccardo Noury pubblica ogni settimana sulla nostra newsletter. Per questo vale la pena di citarla con ampiezza:
«Netanyahu e i suoi sostenitori definiscono i canali televisivi israeliani ancora indipendenti “Al Jazeera” o “canali del veleno”, per insinuare che sono dediti al tradimento. Da anni Netanyahu non concede un’intervista in ebraico a nessuno dei media tradizionali in Israele. Ignorandoli, trasmette il sottotesto che non sono legittimi. Spesso li insulta, li ignora e non risponde secondo alcuna norma o standard di comportamento ragionevole quando gli viene chiesto un commento».
«Questo approccio è prontamente adottato da tutti i suoi sostenitori, e molti si spingono oltre. Di recente, giornalisti e troupe televisive sono stati brutalmente attaccati dalla folla mentre cercavano di riferire di un missile di Hezbollah che aveva colpito una casa nel nord di Israele, mentre riferivano di un attacco di espondenti di destra a una base militare in cui Israele detiene prigionieri palestinesi, mentre coprivano le manifestazioni degli ultraortodossi contro l’arruolamento nell’esercito e quando coprivano le manifestazioni antigovernative che chiedevano un cessate il fuoco a Gaza e un accordo sugli ostaggi».
«I giornalisti che coprono il processo penale di Netanyahu sono costantemente attaccati sui social media. I sostenitori della destra li accusano di parzialità, cercando di delegittimare i loro reportage; spesso minacciano i giornalisti, facendo di tutto per scoraggiarli dal fare il loro legittimo lavoro».
«Anche se le proposte che costituiscono l’ossatura legislativa del piano di Netanyahu non dovessero passare, il danno è già fatto. La minaccia ha già iniziato ad avere un effetto raggelante, sotto forma di autocensura, che è naturalmente difficile da quantificare».
La giornalista indulge al pessimismo, quando afferma che il Paese che «ama presentarsi come l’unica democrazia del Medio Oriente», tra non molto «sarà forse da definire più correttamente l’Ungheria, la Cina o la Russia del Medio Oriente». Lascia più speranza la certezza espressa da Aluf Benn, il direttore di Haaretz, in un intervento sul Guardian: «Il boicottaggio di Haaretz non ha una base legale, ma a Netanyahu non importa: se venisse annullato, si lancerebbe in una filippica contro “il Deep State legale” che minaccia il suo governo. E ha scommesso sui leader dell’opposizione che, aderendo al fervore nazionalista-militarista, si sono astenuti dal sostenere il giornale. Ma noi sconfiggeremo Netanyahu, così come abbiamo sconfitto la rabbia dei suoi predecessori. Haaretz manterrà la sua missione di riferire in modo critico sulla guerra e sulle sue terribili conseguenze per tutte le parti. La verità a volte è difficile da proteggere, ma non dovrebbe mai essere la vittima della guerra».
Haaretz è un giornale orgogliosamente sionista, fatto da discendenti di sopravvissuti alla Shoah. Accusarlo di tradimento perché critica il governo più estremista della storia di Israele, e perché sostiene la necessità di una Palestina indipendente, è un’autentica infamia, termine che qui usiamo nella sua accezione corretta. Haaretz esprime l’anima originaria e più pura dello Stato ebraico. È per questo spirito, lo spirito di Haaretz, che non si può non amare Israele.
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Rassegna politica
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Partiti, no a sotterfugi ma il finanziamento pubblico serve
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“A proposito di politica, grazie per aver riassunto la situazione sul tentato “colpo di mano” del 2 per mille. Sarebbe stato interessante spiegare perché i partiti hanno bisogno di più finanziamenti. Anche una domanda diretta a Fina: “Dal punto di vista del Pd, e considerando che lei stesso ammette che il partito è quello che in Italia riceve più donazioni, perché avete bisogno di più soldi? Qual è l’uso che prevedete di farne?”.
Alessandro Morandi
Non è stato un bello spettacolo, quello che abbiamo chiamato «colpo di mano», cioè il tentativo di resuscitare surrettiziamente il finanziamento pubblico, o quasi, dei partiti (ne abbiamo parlato qui). Un tentativo del governo, bloccato dal Quirinale, per questioni di forma ma non solo. Eppure il tema c’è.
I partiti possono non essere simpatici, ma sono una risorsa fondamentale o, se volete, un male necessario di una repubblica parlamentare. Bisogna che si finanzino in qualche modo. Ma come? All’ondata di populismo degli ultimi anni ha contribuito straordinariamente il Movimento 5 Stelle, ma è cominciata molto prima, con il referendum post Mani Pulite del ‘93 (90 per cento dei consensi) e poi con l’abolizione del finanziamento del 2013 (governo Letta e poi Renzi). Erano tempi difficili per la spesa pubblica, la crisi economica era pressante e alle elezioni politiche del 2013 il sistema dei partiti ricevette 170 milioni di euro di rimborsi elettorali. La politica voleva ripulirsi la coscienza, o darsi una mano di bianco, di fronte a un’opinione pubblica indignata e stanca.
L’ondata di populismo ha lasciato un panorama complicato. I partiti si sono finanziati con il 2 per mille volontario, con le erogazioni liberali di singoli e persone giuridiche, con i rimborsi ai gruppi parlamentari, con qualche contributo a giornali e radio e qualche agevolazione fiscale. Hanno tirato la cinghia ed è stata la fine del modello di partito pesante. Già nel ’94 Diego Masi – imprenditore che navigò in una serie di partitini, tra i quali il Patto Segni – scrisse un libro che si chiamava «Dal partito piovra al partito farfalla». Si teorizzava il dimagrimento delle strutture voraci e pletoriche dei partiti novecenteschi, peraltro già spazzati via dalle inchieste, e si finì per arrivare a organismi leggerissimi, evanescenti, diafani. Perfetti per essere manovrati o comandati da personalità carismatiche, che li hanno poi trasformati in partiti personali.
Chi paga e ha pagato questi partiti? Bettino Craxi invitava a uscire dall’ipocrisia, pur avendoci convissuto per parecchio, e il suo sfogo finale, tragico, aveva un fondamento. Il rischio ora è che il vuoto che si è aperto con la fine dei finanziamenti pubblici sia riempito non solo dalla corruzione ma da lobby e multinazionali. È una legge fisica: ogni vuoto viene colmato. Negli Stati Uniti sono più avanti: le campagne elettorali sono abnormi, i grandi imprenditori sono decisivi e si è visto come l’Elon Musk saltellante sul palco di Donald Trump abbia contribuito con la sua potenza economica (e immaginifica) alla vittoria del presidente, già tycoon di suo.
In Italia il portato di quella stagione populista è stato la scomparsa del dibattito pubblico sul tema. I partiti si vergognavano. O, peggio, avevano paura di irritare l’opinione pubblica. Di perdere consensi. Ce l’hanno ancora, anche se qualcosa si muove. Da destra si fa fatica a parlare apertamente del tema. E i 5 Stelle sono pronti a sparare a pallettoni appena se ne riparla, con il riflesso condizionato di sempre. Il Pd lo scorso anno ha presentato una proposta di legge, a firma Andrea Giorgis, che prevede un finanziamento di 45,1 milioni, trasformando il modello attuale del 2 per mille (dove si può optare per il partito) in quello dell’8 per mille delle confessioni religiose, dove c’è una cifra fissa, che viene distribuita in proporzione alle scelte.
La vicenda del decreto di ieri è però un passo falso. Perché è apparsa, ed era, un tentativo scorretto, sotterraneo, di far passare questo cambiamento.
Ieri abbiamo sentito il tesoriere del pd Michele Fina, che ha confermato la volontà del partito di procedere sulla strada di aumentare il finanziamento ai partiti, anche se ha riconosciuto come la forma scelta dal governo non fosse la migliore. Non vogliamo eludere la domanda del lettore ma la giriamo a Tino Magni, senatore di Lecco di Sinistra Italiana che ha presentato il primo emendamento per adeguare il fondo del 2 per mille.
Allora, senatore, il nostro lettore Alessandro Morandi ci chiede che cosa se ne fanno i partiti di tutti questi soldi. Cosa se ne fanno?
«Ma come cosa se ne fanno? Servono per il funzionamento della democrazia. Noi siamo un partito leggerissimo, fino a qualche tempo fa non avevamo neanche una sede. Il nostro segretario Nicola Fratoianni non aveva neppure un ufficio. Ora ce l’abbiamo la sede, piccola. I soldi servono per l’attività politica. Per i convegni, i dibattiti, l’affissione dei manifesti, i santini elettorali, i banner sui siti, gli spot in televisione. Le campagne elettorali hanno un costo, così come l’attività in generale di un partito».
Non riuscite a finanziarvi da soli?
«Guardi, noi siamo il partito che trattiene la quota più alta dagli stipendi dei parlamentari: 3500 euro. Senza questi non saremmo sopravvissuti. Ma non bastano no. Io che sono senatore, il treno non lo pago. Ma un qualunque rappresentante del partito come fa ad andare a Roma e tornare? Chi paga?».
Un esempio ce l’ha fatto anche Mimmo Caporusso, che è tesoriere di Sinistra italiana: «Se candidiamo un metalmeccanico in cassa integrazione a un consiglio comunale, come fa la campagna elettorale se non ha il sostegno del partito? E i soldi dove li trova il partito?».
Torniamo al senatore Magni. Non è stato un brutto spettacolo quello di ieri e l’altro ieri?
«Certo. Noi eravamo pronti a votare no alla riformulazione del governo, che stravolgeva il sistema e includeva l’inoptato nel finanziamento. Il metodo è stato sbagliato. Bisogna affrontare la questione a viso aperto, parlarne in modo chiaro».
Lei cosa pensa?
«Fosse per me tornerei al vecchio metodo: tanti voti, tanti soldi. Stabiliamo il quantum e torniamo a quello».
E il 2 per mille? Non andrebbe cambiato?
«Così com’è va bene. Anche se non manca qualche stortura. Per esempio. Gli elettori non sono tutti uguali. Quelli di Calenda sono molto più ricchi dei nostri e il loro Irpef pesa di più».
In effetti, quelli di Azione versano 26,4 euro ognuno, quelli di Sinistra italiana 11,31. Servirebbe però anche una legge sui partiti più complessiva, che manca. C’è nella proposta del Pd. Perché poi servono trasparenza e meccanismi democratici interni.
«Certo. Già adesso però siamo tenuti a presentare un bilancio certificato. Ma è giusto ripensare tutto il sistema, anche per sventare l’idea che chissà cosa nascondano i partiti. Sarebbe molto peggio se fossero finanziati da lobby o interessi particolari. Quelli i partiti se li comprano».
E i 5 Stelle? Sono pur sempre vostri potenziali alleati e sono sempre stati ferocemente contrari. Anche se hanno accettato il 2 per mille. E anche se lo scorso anno Stefano Patuanelli ha detto sì al finanziamento pubblico dei partiti. Ieri invece è tornato a indignarsi.
«I 5 Stelle, intanto, i soldi già li prendono anche loro. E poi il contratto di Grillo come lo pagavano? Bisogna smetterla di scandalizzarsi per i costi della politica. Ci sono e vanno sostenuti con trasparenza».
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Il Punto con Amnesty International
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Paesi Bassi, come un algoritmo ha discriminato per anni gli studenti fuorisede
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Una settimana fa il ministro dell’Istruzione dei Paesi Bassi ha preso una posizione che gli fa onore: ha annunciato che le decisioni basate su un algoritmo in vigore dal 2012 per scoprire frodi nell’uso dei contributi statali per studenti fuorisede, del quale Amnesty International aveva denunciato per lungo tempo il carattere discriminatorio, saranno annullate e verranno rimborsate le persone direttamente colpite. Il ministro si è scusato in particolare nei confronti dei gruppi razzializzati.
Nei Paesi Bassi tutti gli studenti iscritti nel sistema educativo terziario (università e corsi formativi) ricevono un contributo governativo per coprire parte dei costi della vita. Il contributo è più elevato per gli studenti che si trasferiscono lontano dall’abitazione familiare. Per scongiurare il rischio di imbrogli, il ministero dell’Istruzione ha introdotto un sistema di controlli, basati su un algoritmo, che prevedono visite domiciliari allo scopo di verificare se uno studente vive davvero dove ha dichiarato.
Amnesty International ha verificato che queste visite sono più frequenti nei confronti di studenti appartenenti a gruppi razzializzati o che seguono corsi di formazione piuttosto che universitari. Il motivo? Uno dei criteri assegnati all’algoritmo è proprio quello del tipo di percorso educativo scelto dallo studente: più basso il percorso, più alto il rischio di frode.
Usare il percorso educativo come fattore di rischio è particolarmente stigmatizzante in una società, come quella olandese, in cui il sistema dell’istruzione è estremamente stratificato. È come se alle aspettative professionali basse, spesso derivanti da fattori socio-economici penalizzanti o dall’origine etnica, corrispondesse una maggiore propensione alla frode nei confronti dello stato.
Nei Paesi Bassi sono già venuti alla luce numerosi scandali relativi a forme di profilazione del rischio di natura discriminatoria, ad esempio nell’ambito dei controlli di frontiera e delle politiche fiscali. Le scuse del ministro dell’Istruzione sono un buon inizio per cambiare tutte queste politiche.
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La Cinebussola |
«Piccole cose come queste», il dilemma morale di Cillian Murphy |
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Parliamoci chiaro: brucia ancora nel cuore cattolico dell’Irlanda la ferita delle Case Magdalene, gli istituti di suore in cui venivano ospitate «giovani sfortunate», o meglio, ritenute immorali, per lo più ragazze madri, costrette a un duro regime quotidiano di lavoro e privazioni e spesso private con la forza dei cosiddetti «figli della colpa». Le Case Magdalena furono attive tra il 1922 e il 1998. Accolsero migliaia di «giovani smarrite» con l’obiettivo di accompagnarle al pentimento. Il cinema se ne è occupato spesso: ricordiamo in primis Magdalene di Peter Mullan, che nel 2002 vinse il Leone d’oro alla Mostra di Venezia, e Philomena di Stephen Frears (2013).
La storia di Piccole cose come queste è ripresa dal romanzo della scrittrice irish Claire Keegan, edito in Italia da Einaudi (2021).
Cillian Murphy
Dirige il regista belga Tim Mielants, classe 1979, mentre nel cast dei produttori compare il divo americano Matt Damon. Tutto ruota intorno al personaggio di Bill Furlong, silenzioso commerciante di torba nel freddo inverno del 1985. Bill è un onesto lavoratore che ha dedicato tutta la vita alla moglie Eileen e alle cinque figlie. Si è rotto la schiena portando i sacchi di carbone a domicilio: è un brav’uomo, marito devoto e padre esemplare, che ha trovato un equilibrio facendosi i fatti suoi ma con un forte senso di solidarietà.
«Nella vita, se vuoi andare avanti ci sono cose che devi ignorare», dice la moglie Eileen. Si considera fortunato: non avrebbe potuto avere quella bella famiglia se un bel giorno, dopo il suicidio della madre, non si fosse occupata di lui la ricca signora Wilson. Da allora il carbonaio ha messo da parte i sogni: ogni sera si lava le mani dalla fuliggine e legge un libro. Siamo alla vigilia di Natale e Furlong stavolta chiede alla moglie David Copperfield di Charles Dickens. L’uomo avverte un sottile disagio, legato all’età che avanza e alle illusioni che si spengono.
Dorme poco, spesso è sopra pensiero, passa le serate guardando dalla finestra il viavai festivo nelle strade. Nel convento Magdalene assiste ai maltrattamenti subiti da Sara e alla sua fuga disperata. Sara è una delle ragazze rieducate dalle suore: gli ricorda la madre e si intenerisce ma nulla fa quando la giovane viene raggiunta e riportata nell’istituto. Arrivano giorni di riflessioni amare. Bill alla fine si convince ad intervenire, la coscienza glielo impone, e per questo decide di fare una visita a suor Mary, la Madre Superiora.
Con una fotografia bruna come l’ardere del carbone e un ritmo sospeso, Piccole cose come queste è una gallery di atmosfere sospese alternando pietas e pathos. Tutti, in quel Natale doloroso, aspirano a cambiare rotta, a trovare nuove motivazioni, magari lontano da quel paese di peccatori. Il film ideale per togliere di dosso a Cillian Murphy l’ingombrante, clamoroso successo di Oppenheimer.
Mielants usa uno stile naturalistico che nobilita il film e aiuta lo sviluppo della scandalosa vicenda. Il quasi cinquantenne Murphy, che è anche produttore, occupa tutto il film: il suo Bill, dilaniato dal dilemma morale, appare in tutte le scene, osserva, riflette, si commuove, s’indigna e per tre quarti di film gira le spalle. Il faccia a faccia con suor Mary / Emily Watson è il momento più incisivo della storia. Quei due si dicono poche parole, ma di fuoco.
PICCOLE COSE COME QUESTE di Tim Mielants
(Irlanda-Belgio, 2024, durata 98’, Teodora Film)
con Cillian Murphy, Emily Watson, Amy De Bruhn, Joanne Crawford, Eileen Walsh, Abby Fitz
Giudizio: 3 ½ su 5
Nelle sale
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