Lo storico Giuseppe Garofalo racconta in una “lectio magistralis”  la storia dei 211 anni  del tribunale sammaritano

 

 

I processi alla banda del Matese; le gesta dell’anarchico sammaritano Enrico Malatesta, con la banda dei fratelli La Gala, e  il processo alla mafia siciliana, per il delitto del sindacalista Salvatore Carnevale.

 Nell’ambito del programma dell’anno Accademico 2019 la “lectio magistralis” di Giuseppe Garofalo, penalista, storico e scrittore il quale parlerà della istituzione del Tribunale di  “Terra di Lavoro” e dei processi più clamorosi che si sono celebrati  nel corso dei 210 dieci anni di vita giudiziaria del Foro sammaritano.  L’interessante lezione si terrà nell’Aula Magna della Università della Terza Età,  a Santa Maria Capua Vetere (Via Tari, Palazzo Pezzella).

 

“L’istituzione del Tribunale della provincia di Terra di Lavoro con sede in Santa Maria Capua Vetere – ha esordito  Giuseppe Garofalo –  non fu un isolato atto amministrativo per soddisfare posizioni campanilistiche, elettorali o esigenze pratiche di gestione giudiziaria, né è sorto per caso. Fu la conclusione di un decennio di rivoluzioni e controrivoluzioni politiche, sociali, giudiziarie, rinchiuso nell’ambito della Legge del 30 Piovoso, seguita dal progetto di costituzione, rimasto inattuato, della Repubblica Napoletana di Giuseppe Bonaparte sul riordino dei Tribunali; e più tardi sull’organizzazione giudiziaria del Regno delle due Sicilie”.

Il decennio rivoluzionario che precedette l’istituzione del Tribunale, ebbe inizio nel gennaio 1799 con la Repubblica Napoletana che si trovò di fronte un mondo giudiziario che era “selva da nessun sentiero segnata”, come la definiva un alto magistrato. Era la somma di 500 anni di legislazione sveva, angioina, aragonese, spagnola, con l’aggiunta di prassi, usi, costumi, interpretazioni, responsi dei dottori. La foresta della legislazione era accompagnata da quella ancora più impenetrabile dell’ordinamento giudiziario.

“Nel Regno di Napoli, diviso in dodici province, – spiega ancora lo storico Giuseppe Garofalo –  vi erano tre grandi Tribunali, antichi e meno antichi, con sede in Napoli. La Regia Camera della Sommaria, la Gran Corte della Vicaria, il Regio Sacro Consiglio, a cui si era aggiunto il Supremo Magistrato del Commercio. Ne facevano parte anche i giudici “idioti”, così chiamati i componenti del Tribunale che non possedevano il dottorato in legge. Sulle questioni di diritto i giudici “idioti” non votavano.  Le decisioni della Sommaria erano chiamate ‘arresti’”.    

Il Commissario di Campagna. Era il braccio giudiziario del Giudice Generale contro i delinquenti, un organismo presieduto da un membro del governo, creato per combattere reati lesivi della sicurezza e incolumità collettiva. Per approssimazione su ragioni e finalità potrebbe dirsi un lontano antenato della D.D.A. Aveva competenza territoriale limitata alla sola Terra di Lavoro. Operava in forza di giustizia delegata, (delegata dal re tramite il viceré), cioè quasi senza regole, salvo quelle del diritto comune, quale la difesa dell’accusato. Aveva una struttura autosufficiente: un cancelliere, più scrivani, un usciere, soldati, il boia, più sedi distaccate provviste di carceri, un’amministrazione propria soggetta a rendiconto alla Camera della Sommaria.

“Tra le curiosità –  spiega Garofalo – c’era la Corte delle meretrici: Era il tribunale competente a giudicare tutti gli affari civili e i reati connessi alla prostituzione, compreso il lenocinio, ma non l’aborto. Riscuoteva la gabella delle meretrici, la tassa che abilitava all’esercizio della prostituzione.

Più volte nella sua storia sul Tribunale di Santa Maria, il più grande delle provincie meridionali, dopo Napoli, è caduta l’attenzione internazionale per processi, dai risvolti politici o di grande interesse collettivo, che vi si celebravano. Di questi mi limito a ricordarne solo alcuni. Quello ad una feroce banda, capeggiata da Giona La Gala, seminava terrore e morte tra Maddaloni e Arienzo. Un medico, ritenuto un delatore, convocato in montagna, era stato ucciso e fatto a pezzi che qualcuno aveva anche mangiato”. 

“Clamoroso fu anche – ha spiegato l’avvocato Giuseppe Garofalo – il processo alla Banda del Matese. Nella primavera del 1877 si concentrarono, in tutto una ventina di uomini, sul massiccio del Matese. Intercettati dalla polizia nei pressi di S. Lupo in provincia di Benevento aprirono il fuoco e uccisero un carabiniere e né ferirono un altro. Carlo Cafiero, di ricca famiglia pugliese, socialista e internazionalista e Enrico Malatesta di S. Maria C. V. discepolo di Bakunin, anarchico alla testa di un pugno di uomini tentarono di provocare una sollevazione delle popolazioni meridionali contro il governo. Nella primavera del 1877 si concentrarono, in tutto una ventina di uomini, sul massiccio del Matese. Intercettati dalla polizia resso S. Lupo in provincia di Benevento, aprirono il fuoco e uccisero un carabiniere e né ferirono un altro. Attraverso sentieri di montagna ripararono in provincia di Caserta dove, nei comuni di Gallo e Letino, dichiarato decaduto il Re, proclamarono la repubblica sociale. Accerchiati e arrestati tutti, furono rinchiusi nel carcere di S. Maria C. V.

 

“Il processo Carnevale – conclude l’illustre studioso – era stato rinviato dalla Corte di Cassazione da Palermo alla Corte di Assise di S. Maria C.V. –  Salvatore Carnevale, socialista, sindacalista, guidava il movimento popolare per l’occupazione delle terre. Fu ucciso una mattina mentre percorreva un “tratturo” per recarsi al lavoro. Furono arrestati quali autori dell’omicidio quattro “campieri”, indicati come mafiosi di un feudo della principessa Notarbartolo. L’istruttoria presso il tribunale di Palermo fu agitata da manovre sotterranee per scagionare gli imputati. Silenzio dei testimoni, falsi alibi, ritrattazioni di dichiarazioni già rese furono il terreno per invocare la legittima suspicione. Il processo davanti la Corte di Assise di Santa Maria fu lungo e a volte drammatico. Gli imputati furono condannati all’ergastolo e fu segnalato che quella era la prima sentenza che interrompeva l’abituale serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Vari furono i motivi che richiamarono a Santa Maria la stampa internazionale: 1) lo sfondo politico e mafioso del processo; 2) il libro di Carlo Levi “Le parole sono pietre”, riferito al linguaggio asciutto e di denunzia di Francesca Serio la madre dell’assassinato; 3) la presenza al processo dello stesso Levi, interessato anche a verificare se gli imputati corrispondevano ai connotati morali che la Serio gli aveva attribuito e a lui riferiti in lunghi colloqui. La serie di assoluzioni si interruppe solo per un momento per riprendere, con l’assoluzione degli imputati in appello, il suo corso”.

DOMANI  Lunedì, 29 aprile, alle ore 16,30 Aula Magna della Università della Terza Età   a Santa Maria Capua Vetere Via Tari, Palazzo Pezzella

 

 

A cura di Ferdinando Terlizzi, responsabile dell’ufficio comunicazioni della Università della Terza Età – mail ferdinandoterlizzi37@gmail.com – Contct – 388.4293828 – 81055 Santa  Maria Capua Vetere – Via Tari Palazzo Federico Pezzella –