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di Gianluca Mercuri |
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Buongiorno. Ieri era la Giornata della Memoria della Shoah. Era anche l’ottantesimo anniversario della liberazione dei superstiti, e nelle stesse ore in cui il mondo civile ricordava le vittime di quel crimine unico, la cronaca sfidava la Storia nella gerarchia delle notizie in tempo reale, con le immagini delle decine di migliaia di palestinesi che facevano ritorno nella loro terra, il nord della Striscia di Gaza, non nelle loro case perché sono distrutte.
In casi come questo, il rischio del cortocircuito pericoloso, della sovrapposizione scivolosa, dell’equivoco indesiderato o della strumentalizzazione voluta è sempre alto. Anche per questo la penna chiarificatrice di Ferruccio de Bortoli – Frammenti è la sua rubrica quotidiana sul nostro sito – è preziosa anche il giorno dopo – soprattutto il giorno dopo e in tutti i giorni in cui la Memoria non va dispersa:
«In un’epoca di amnesie storiche e di rivalutazioni autoritarie, sarebbe saggio coltivare la memoria senza piegarla agli stati d’animo dell’attualità. Perché in questo modo si finisce per annacquarla. Una memoria annacquata non è più un antidoto efficace alla degenerazione del potere e alla malapianta dell’antisemitismo. I fatti storici si allontanano ancora più velocemente nel tempo, le democrazie deperiscono.
Quella di oggi è la Giornata della Memoria della Shoah, durante la quale – a 80 anni esatti dalla liberazione sovietica di Auschwitz – ricordiamo i sei milioni di ebrei morti nei campi di concentramento nazisti, oltre ai tanti prigionieri politici, rom, omosessuali, disabili, vittime di un lucido, altro che folle, progetto di annientamento di un intero popolo. Senza dimenticare che le complicità furono numerose, anche se non mancarono le prove di coraggio dei nostri cittadini nel nascondere e proteggere gli ebrei. È un esame di coscienza nazionale ancora incompleto. La Giornata della Memoria fu istituita in Italia solo nel 2000. E già questo dovrebbe dirci qualcosa. Diventò legge grazie soprattutto alla sensibilità di Furio Colombo che ci ha lasciato da poco.
Quest’anno notiamo, con grande amarezza, la divisione fra l’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani, e la comunità ebraica soprattutto milanese. Il Memoriale della Shoah è sorto (chi scrive, è giusto dirlo, ne è il presidente onorario) in virtù della costruzione di una memoria comune che oggi non vorremmo vedere messa in discussione. Non è questa l’occasione per un processo a Israele per quello che è accaduto, assolutamente inaccettabile, nella Striscia di Gaza dopo il pogrom bestiale del 7 ottobre ad opera dei terroristi di Hamas.
Ognuno ha le sue posizioni, tutte legittime. Ma se ne discuterà in un’altra occasione. Oggi ricordiamo tutte quelle persone che hanno perso la vita – come dice la senatrice Liliana Segre – per la sola colpa di essere nate. Un modo per ridare loro giustizia e dignità. Se la memoria si annacqua ne avranno di meno, di giustizia e dignità, fino ad essere, non sia mai, completamente dimenticati».
Ad Auschwitz, ieri c’erano 56 bambini di 80 anni fa, gli ultimi sopravvissuti, a ricordare quel giorno e quegli anni davanti a presidenti, primi ministri e re. Tra gli statisti qualcuno però mancava, un altro dispetto della cronaca alla Storia sottolineato così da Mara Gergolet:
«Mancava Putin, e mancava Netanyahu. Entrambi inseguiti da mandati d’arresto. Il leader russo ha inviato un messaggio (“Ricorderemo sempre che fu il soldato sovietico a schiacciare questo male totale e a portare la vittoria, la cui grandezza rimarrà per sempre nella storia mondiale”), l’israeliano si è fatto sostituire da un ministro. Eppure dice qualcosa dell’oggi, se il presidente del Paese liberatore di Auschwitz (la Russia), e il leader dello Stato nato dalla speranza e dalla resilienza del “settimo milione”, per parafrasare lo storico Tom Segev – dopo che gli altri sei milioni di ebrei sono stati sterminati dai nazisti -, non hanno potuto partecipare alla cerimonia».
In Italia, le parole da annotarsi sono arrivate ancora una volta da Liliana Segre, 94 anni:
«Si chiamava marcia della morte, perché chi non ce la faceva veniva ucciso. E spesso gli “scheletri” non ce la facevano a camminare. Io ero così abituata a quella visione che non mi voltavo, mettevo una gamba davanti all’altra e andavo avanti. Volevo vivere». Quel ricordo oggi le serve a schivare minacce e insulti che continuano a perseguitarla, nell’Italia del 2025: «Sono passati 80 anni e oggi sono una vecchia ma sono sempre quella Liliana d’allora, con una gamba davanti all’altra. E così vado tra minacce, parolacce in grande quantità che mi vengono riferite e riportate tutti i giorni in grande abbondanza. Io depressa? No, non lo sono. Una gamba davanti all’altra. Non ho paura».
Parole assai significative, sul piano politico, le ha dette Giorgia Meloni. Sono queste: «Un piano, quello condotto dal regime hitleriano, che in Italia trovò anche la complicità di quello fascista, attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni». Un passo ulteriore nel percorso della destra italiana e della sua leader (ecco perché si può prevedere che prima o poi, nella sua sagacia, la presidente del Consiglio metterà «all’ordine del giorno» la questione del simbolo di Fratelli d’Italia, di cui ha negato l’urgenza nella recente intervista a Fiorenza Sarzanini per Sette: perché quella fiamma fu scelta nell’immediato dopoguerra dai reduci del fascismo accolti dalla democrazia. Quelli che avevano appena smesso di rastrellare, deportare eccetera).
E poi, in questa newsletter: Gaza, i nodi politici di maggioranza e opposizione, Jovanotti, Sinner e altre cose che vale forse la pena sapere e leggere oggi.
Benvenuti alla Prima Ora di martedì 28 gennaio.
Bambini in festa durante il tragitto verso il nord di Gaza (Ap)
Il controesodo dei profughi, lo stato della tregua, le sue prospettive: punto per punto.
- I numeri Circa 200 mila palestinesi hanno varcato ieri il corridoio di Netzarim, che divide in due la Striscia di Gaza: provenivano dal Sud, dove in tutto un milione e 300 mila persone sono state costrette a sfollare in 15 mesi di guerra. Un gigantesco controesodo, una fiumana di persone che ha scelto di fare ritorno nei propri luoghi di provenienza, a Nord, anche se le loro case sono state rase al suolo.
- I termini della tregua Il passaggio a Nord è stato consentito dagli israeliani perché è previsto dall’accordo sul cessate il fuoco con Hamas, mediato per mesi da Qatar, Egitto e Stati Uniti e siglato con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Sabato l’accordo sembrava a rischio perché Hamas non dava garanzie di rispettarne i termini esatti.
- La donna al centro della trattativaArbel Yehoud, 29 anni, civile, doveva essere liberata nei giorni scorsi. Si è scoperto che è in mano alla Jihad islamica, non a Hamas. La liberazione è stata rinviata, l’intesa ha traballato. Ieri un video ha dato la prova che è viva. Sarà liberata giovedì insieme alla soldata Agam Berger.
- La situazione degli ostaggi La tregua è divisa in tre fasi. La prima è iniziata il 19 gennaio e dovrebbe durare 6 settimane (42 giorni): prevede il rilascio di 33 ostaggi – donne, bambini e civili ultra 50enni rapiti nel maxi attacco terroristico del 7 ottobre 2023 – in cambio di mille palestinesi detenuti in Israele. Di questi 33, quelli vivi sono 25, di cui 7 sono stati già rilasciati.
- Le fasi successive I termini precisi della seconda fase devono essere negoziati durante la prima. Se la tregua reggerà, nella fase 2 Hamas rilascerà tutti i prigionieri ancora in vita, per lo più soldati maschi, in cambio della liberazione di altri palestinesi detenuti nel sistema carcerario israeliano. Inoltre, stando al testo sottoscritto, Israele inizierebbe il «ritiro completo» da Gaza. Nella terza fase, se tutto funzionasse, ci sarebbero la consegna dei corpi degli ostaggi morti e l’avvio di un piano di ricostruzione di tre-cinque anni sotto la supervisione internazionale.
- Le incognite sulla tregua «Dopo mesi di proclami propagandistici, sta succedendo quello che Netanyahu aveva sempre sconfessato: gli abitanti tornano nel Nord che i suoi alleati oltranzisti e messianici vorrebbero tenersi spopolato per ricostruire le colonie», nota Davide Frattini. L’ultradestra dice di avere ottenuto dal premier la garanzia che la guerra a Hamas riprenderà dopo la prima fase della tregua, altrimenti lascerebbe il governo (una parte, quella guidata da Itamar Ben-Gvir, l’ha già fatto). E poi c’è l’incognita Usa.
- La «pulizia» di Trump La sortita del presidente americano, domenica, ha seminato il panico tra le cancellerie arabe ed europee, ed eccitato la destra israeliana. Trump ha detto che Gaza andrebbe «ripulita» spostando un milione e mezzo di persone in Giordania e in Egitto (pochi giorni prima aveva parlato dell’Indonesia), e si è detto indifferente all’ipotesi che il «trasferimento» sia breve o duraturo.
- Perché sono parole esplosive? Perché in questo modo si rievoca lo spettro della Nakba, la catatrosfe palestinese che dopo la guerra del 1948 portò centinaia di migliaia di profughi – e milioni di loro discendenti – lontano dalle loro terre. Il presidente Biden e prima di lui lo stesso Trump, come tutti i loro predecessori, avevano sostenuto, almeno a parole, la necessità di uno Stato palestinese a Gaza e in Cisgirdania, accanto a Israele. Ora l’apparente, clamoroso dietrofront.
- Tra Kushner e Witcoff Chi sono? Uno, Jared Kushner, è il genero di Trump. Sulla nostra Rassegna, Massimo Nava racconta che è lui a coltivare il progetto di una Gaza de-palestinizzata e trasformata in un maxi resort. Steve Witkoff è l’inviato di Trump per il Medio Oriente, si è rivelato decisivo per spingere Israele alla tregua finora negata a Biden ed è l’uomo chiave per le speranze della diplomazia. Lo conferma a Greta Privitera il portavoce del premier del Qatar: «Siamo in comunicazione quasi quotidiana con Witkoff, al fine di mantenere l’attuazione dell’accordo. La loro collaborazione è stata determinante per questa tregua».
- Ma che farà Trump? Decifrarlo è difficile: seguire Kushner vuol dire perseguire una pulizia etnica inaccettabile per il mondo civile, che poi saremmo noi, e incoraggiare i coloni israeliani a praticarla anche anche in Cisgiordania; seguire Witkoff vuol dire porre le basi per un processo di pace serio, con normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita e una mini-Palestina. La prossima settimana Netanyahu sarà da Trump. Forse capiremo qualcosa di più.
- E l’Italia che fa? Nota Marco Galluzzo, al seguito della premier in Arabia Saudita: «Non dice che Trump sbaglia, ma le parole del presidente americano su Gaza lasciano un pizzico di perplessità anche in Giorgia Meloni». Ecco il commento della presidente del Consiglio: «Trump dice una cosa molto giusta quando pensa che la ricostruzione sia fondamentale, dopodichè sui rifugiati non penso siamo di fronte ad un piano definito, ci sono piuttosto delle interlocuzioni».
- Cosa vuol dire? È un primo test di come Meloni manterrà intelligentemente il «rapporto privilegiato» con Trump senza condividerne tutte le bestialità. Da premier, Meloni ha capito che l’interesse nazionale primario dell’Italia è dato da un Medio Oriente pacificato, un Mediterraneo stabilizzato e buoni rapporti con tutti, non certo da altri milioni di profughi, altra disperazione, altra rabbia araba contro l’Occidente, altri flussi migratori incontrollati. Tutti disastri che la «pulizia» di Gaza – ovvero una vergognosa deportazione di massa – non farebbe che incentivare. Per dirla alla Meloni: «Anche no».
Un caso sempre più scomodo da una parte, un nodo politico dall’altra. Si tratta di Daniela Santanchè e di Elly Schlein.
Centrodestra: il caso Santanchè
- La resistenza della ministra Rinviata a giudizio per false comunicazioni sociali nell’ambito dell’inchiesta su Visibilia, una delle società del gruppo da lei fondato, la ministra del Turismo resiste al suo posto nonostante le pressioni insistenti da Fratelli d’Italia e l’imbarazzo evidente della premier. In Arabia Saudita, Marco Galluzzo ha sentito anche Santanchè: «Un pezzo del partito mi vuole fuori? Chissenefrega! Pazienza. Ho pochi amici, ma ho sempre contato solo su me stessa». E sembra sfidare apertamente la premier: «Meloni dice che ci può essere impatto sul mio lavoro? Magari l’impatto sul mio lavoro lo valuto io! Non mi dimetto, vado avanti, il mio ministero ha già portato avanti tutto il programma di governo».
- Perché Palazzo Chigi è in imbarazzo? Lo spiega Massimo Franco: «A colpire, a questo punto, non è tanto la sicurezza con la quale Santanchè ribadisce che non si dimetterà e andrà avanti. Stupisce di più l’ammissione della premier di non avere “le idee chiare” in merito. Meloni è nota per il suo piglio decisionista. E in passato si è sempre mossa in modo rapido, quando si trattava di sbrogliare matasse che si stavano ingarbugliando e mettevano in imbarazzo lei e il suo governo. Eppure, stavolta l’impressione è che sia indecisa e quasi frenata». «Tutto questo va al di là dei sondaggi che parlano di un’oggettiva stabilità dei consensi a favore della premier. Riguarda semmai le capacità di controllo che Meloni ha sulla maggioranza e lo stesso FdI. Chi sostiene che l’epilogo sia scontato e la ministra dovrà gettare la spugna, forse conosce le vere intenzioni della premier. Si tratterebbe di un’uscita di scena al rallentatore, alla fine chiesta da Meloni e accettata da Santanchè. Ma più questa presunta agonia si allunga, più aumenta l’alone di mistero e di confusione».
Centrosinistra: il nodo Schlein
- L’assedio alla segretaria Elly Schlein ha riconquistato consensi, ha rivitalizzato il Pd, non fa mai polemiche con alleati veri o presunti, ignora il fuoco amico, attacca solo il governo, evita il chiacchiericcio politico, parla di lavoro e sanità. Ma la sua leadership sembra (sembra) non attecchire. Elodie, la cantante, dice che non ha carisma. Corrado Augias, il giornalista, evita di rispondere su di lei. Soprattutto, i maggiorenti non la ritengono capace di vincere. Scrive Roberto Gressi: «Come leader del principale e rinato partito di opposizione, chiede, magari pretende, una cosa sola: poter stare dritta in piedi nell’arena e sfidare l’imperatrice, Giorgia Meloni. Ma cresce la fronda, quasi un esercito, che si oppone, la prega di ripensarci, la sconsiglia, la avverte, quando addirittura non la minaccia. E il ritornello è sempre lo stesso: per battere il centrodestra il posto di candidata premier non può essere tuo».
- Chi lo dice? Il padre nobile, Romano Prodi: «Schlein ha recuperato una valanga di consensi, ma non potrà mai vincere da sola. Il problema partito è risolto, il problema governo no». Il possibile candidato alternativo, Paolo Gentiloni: «C’è una gran voglia di pluralismo interno, trasformarlo in una fronda contro Schlein sarebbe un errore. Quello che però è in discussione è: abbiamo uno schieramento sufficiente? Abbiamo un profilo di governo sufficiente?».
- Poi c’è Franceschini L’ex segretario del Pd, che sostenne Schlein, ricorda a tutti che il primo problema è una non-coalizione, con partiti divisi e odii personali. Propone dunque di «marciare divisi per colpire uniti», presentandosi insieme solo nei collegi uninominali (esattamente come fa il centrodestra: avessero fatto così anche gli altri nel 2022, Meloni non avrebbe vinto). Scrive Alessandro Trocino sulla nostra Rassegna: «Nel frattempo Schlein procede silenziosamente, con una sua coerenza apparentemente inscalfibile, i sondaggi dalla sua parte e un piano B, il lodo Franceschini, che potrebbe diventare A senza sconfessarla».
E poi c’è il caso Almasri
Un caso in cui né a destra né a sinistra si dice tutta la verità. Vediamo perché.
- L’attesa per Nordio Domani sarà il ministro della Giustizia Carlo Nordio, e non quello dell’Interno Piantedosi, a rispondere in Parlamento sul caso del direttore del carcere libico di Mittiga Osama Njeem Almasri, ricercato dalla Corte penale internazionale dell’Aia per crimini di guerra e contro l’umanità, arrestato a Torino il 19 gennaio ma poi rilasciato e rimpatriato a Tripoli.
- Cosa (non) dice il governo La presidente del Consiglio ha spiegato così le sue scelte: «Almasri è stato liberato su disposizione della Corte d’appello di Roma, non su disposizione del governo. Non è una scelta del governo. Quello che il governo sceglie di fare, invece, di fronte a un soggetto pericoloso per la nostra sicurezza, è espellerlo immediatamente dal territorio nazionale. In tutti i casi di detenuti da rimpatriare di soggetti pericolosi non si usano voli di linea anche per la sicurezza dei passeggeri».
- È vero? Non proprio Ha spiegato Giovanni Bianconi: «Qualunque “irritualità” dell’arresto del generale libico poteva essere sanata dal Guardasigilli, ma Carlo Nordio non ha ritenuto di farlo. Una decisione politica, evidentemente concordata con Palazzo Chigi che prima ha deciso di non convalidare l’arresto di Almasri e poi l’ha riportato in Libia». Una decisione politica dovuta al timore di una rappresaglia libica, proprio mentre a gennaio gli sbarchi di clandestini sono aumentati del 136% rispetto al gennaio ’24.
- Cosa (non) dice l’opposizione Tutte le forze avverse a Meloni hanno attaccato il governo perché ha ignorato la Corte dell’Aja e liberato il presunto criminale. Quello che non dicono è che lo schema dell’accordo con i libici per trattenere i migranti non l’ha inventato Meloni. Lo ricorda Goffredo Buccini: «Noi abbiamo con la Libia un Memorandum che risale al 2017. Tale accordo fu siglato dal ministro Pd Minniti quando si andava verso la proiezione-choc di 250 mila sbarchi in un anno: il Memorandum, con cui facevamo patti con le tribù locali e la guardia costiera tripolina, impedì che l’Italia subisse un devastante tsunami di migrazioni e in un anno gli sbarchi calarono del 77%. Era discutibile sul piano etico? Lo era. Servì a evitare che esplodesse da noi un conflitto sociale? Certamente. Da allora il Memorandum non è mai stato contraddetto e, anzi, è stato rinnovato nel 2020 e nel 2023, quindi sotto governi di diverso segno. Il torturatore di Mitiga è probabilmente depositario di scomodi dettagli su quegli accordi oltre che controllore di un rubinetto umano non a caso riattivatosi nelle 48 ore della sua detenzione con mille sbarchi in un colpo solo. Destra e sinistra, che per ragioni opposte ma convergenti sorvolano sul punto impancandosi in dispute morali o giuridiche, trattano gli italiani come fanciulli».
- La AI cinese low cost Il chatbot della startup cinese DeepSeek, chiamato DeepSeek V3, è diventato l’applicazione gratuita più scaricata sull’App Store negli Stati Uniti, superando ChatGpt. La prima cosa importante che ha generato è il panico, il timore che la stombazzata superiorità americana nel settore sia a rischio. Così ieri i titoli di Big Tech in Borsa sono affondati. Spiega Paolo Ottolina: «Il modello di punta dell’azienda, DeepSeek-V3, è stato rilasciato a gennaio 2024 ed è rapidamente diventato uno dei più avanzati nel settore open-source, con prestazioni paragonabili a quelle dei modelli chiusi delle Big Tech americane. Ma di recente DeepSeek ha sorpreso tutti presentando R1, un modello specializzato nel problem-solving avanzato e nel cosiddetto reasoning (la capacità di sviluppare ragionamenti avanzati), che ha stupito persino esperti della Silicon Valley come Marc Andreessen, il più celebre esponente del venture capital californiano (e fondatore, all’alba del web, di Netscape). La preoccupazione principale per le aziende americane non è solo la qualità del chatbot, ma il costo estremamente basso con cui DeepSeek è riuscita a svilupparlo. Secondo un report dell’azienda, il modello DeepSeek-V3 è stato addestrato con soli 6 milioni di dollari».
- L’arresto di Nainggolan L’ex stella di Cagliari, Roma e Inter è accusato in Belgio di traffico di cocaina: la cronaca di Salvatore Riggio e il ritratto del calciatore firmato da Luca Valdiserri.
- Archistar sotto accusa La Procura di Milano ha chiesto gli arresti domiciliari per gli architetti Stefano Boeri e Cino Zucchi, indagati per turbativa d’asta nell’inchiesta sul concorso di progettazione internazionale per la realizzazione della nuova Beic, la Biblioteca Europea di Informazione e Cultura che dovrebbe sorgere entro il 2026 a Milano nella zona di Porta Vittoria. La richiesta riguarda anche una terza persona e sarà valutata il 4 febbraio dal gip nell’interrogatorio preventivo.
- Ancora caos sui treni Ieri disagi sull’alta velocità Roma-Napoli: ritardi fino a 90 minuti, stazione Termini in tilt (Maria Rita Graziani).
- L’analisi di Viviana Mazza sul «metodo Donald»: la (sua) logica diplomatica dietro minacce e vendette.
- L’anticipazione del libro di Beppe Severgnini «Socrate, Agata e il futuro. L’arte di invecchiare con filosofia».
- L’intervista di Gaia Piccardi a Jannik Sinner: «Posso fare ancora meglio e crescere su terra ed erba».
- Le interviste di Andrea Laffranchi a Umberto Tozzi – «Ti amo? Pensavo alla mamma ma le femministe mi distrussero» – e a Jovanotti, che torna dopo l’incidente in bici con un nuovo album e un tour di 50 date.
- L’editoriale di Walter Veltroni: «La penna di Trump».
- Il commento di Paolo Di Stefano: «Lasciare i social per salvare i libri».
Dispiace per gli odiatori che le auguravano di non guarire, ma Asia sta meglio. Il suo tumore al rene è in remissione. Lo ha annunciato lei stessa sui social, preparandosi alla prossima ondata di critiche. È curioso come in un mondo che esalta chi ostenta lusso e volgarità, passi invece per esibizionista una ragazzina che suona il piano con la bandana in testa per nascondere la perdita dei capelli. Quel video commosse persino il presidente della Repubblica. Gli haters no. «Sta pelata», scrissero i più incoraggianti. «Le persone ti sono amiche solo perché sei malata», ed è un pensiero abbastanza pazzesco, perché da almeno trent’anni votiamo per dei politici che hanno fatto del vittimismo la loro cifra stilistica, e poi siamo infastiditi da un’adolescente che si limita a mandarci una richiesta di tenerezza, esponendo senza filtri la sua malattia.
Nessun odiatore ha provato a mettersi nei panni di Asia: aggredita da un tumore a 14 anni, costretta a lasciare la scuola e a trascorrere le giornate in ospedale, senza neanche un coetaneo con cui distrarsi. Chi al suo posto non si sarebbe aggrappato al telefonino? Era l’unico canale rimasto aperto con il mondo di prima. E invece: «Spero che ci rimani, in ospedale», le aveva scritto un altro animo sensibile. Caro odiatore, ti è andata male: Asia dall’ospedale ci è uscita. Per ora e, le auguriamo, per sempre. Ma non disperare. Magari anche tu, prima o poi, riuscirai a uscire dalla versione peggiore di te stesso.
Grazie per aver letto Prima Ora, e buon martedì.
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