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3° Lancio – Il Punto del Corriere della Sera a cura dell’Agenzia “Cronache”, direttore Ferdinando Terlizzi

 

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sabato 01 marzo 2025
I dieci minuti che sconvolsero il mondo

TOPSHOT - US President Donald Trump and Ukraine's President Volodymyr Zelensky meet in the Oval Office of the White House in Washington, DC, February 28, 2025. Zelensky on February 28 told Trump there should be "no compromises" with Russian President Vladimir Putin as the parties negotiate to end the war after Moscow's invasion. (Photo by SAUL LOEB / AFP)Volodymyr Zelensky e Donald Trump nello Studio Ovale

editorialista

di   Luca Angelini

Buongiorno.

 

 

Già pochi minuti dopo che tutto era finito, più di un commentatore ha parlato di un giorno che finirà nei libri di storia. Non si era mai visto un presidente americano aggredire con tanta ripetuta veemenza un ospite alla Casa Bianca davanti alle telecamere (qui il video integrale). Non si era mai visto un vice presidente americano spalleggiarlo – se non addirittura istigarlo – nell’aggressione. Né un ospite in visita ufficiale messo alla porta e cacciato come uno sgradito scocciatore («Torni quando è pronto per la pace»). Men che meno lo si era visto nei confronti del presidente di un Paese europeo invaso dalla Russia e che ha chiesto aiuto all’Occidente e alla sua nazione-guida.

«Quanto è successo ieri alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky ha solo pochi precedenti – scrive Ernesto Galli della Loggia nel suo editoriale -. Sono precedenti scolpiti nella memoria di coloro che ancora ricordano qualcosa dei grandi drammi vissuti dalla democrazia europea. Ieri, nello Studio Ovale è andata in scena una sorta di replica delle chiamate a rapporto da parte di Adolf Hitler nella sua villa tra le alpi bavaresi una volta di un cancelliere austriaco (si chiamava Klaus von Schuschnigg), un’altra volta del capo di Stato ungherese Horthy, per essere entrambi sottoposti a una furia di insulti e di minacce e sentirsi intimare di cedere alla volontà del Fuhrer quanto rimaneva della libertà dei loro Paesi. Trent’anni dopo sarebbe toccata più o meno la stessa sorte al leader cecoslovacco Alexander Dubcek convocato da Breznev a Mosca nell’estate del 1968 con l’invito a fare poche storie e accettare senza fiatare l’occupazione del suo Paese da parte dell’Armata Rossa. Quando si arriva al dunque sono sempre tentati di agire così, evidentemente, i despoti, neri o rossi che siano; e oggi dobbiamo dire con la morte nel cuore anche quelli a stelle e strisce».

 

 

Anche il politologo americano Ian Bremmerintervistato da Giuseppe Sarcina, parla di passaggio storico: «Trump non sta solo cercando di chiudere un accordo di pace in l’Ucraina: vuole costruire un solido rapporto di collaborazione con la Russia. Siamo, quindi, davanti a più strappi. È una rottura che può diventare decisiva tra Stati Uniti e Ucraina; è una rottura tra Usa ed Europa ed è anche una rottura interna all’America, visto che i parlamentari democratici e repubblicani sono favorevoli a sostenere Zelensky e a mantenere vitale l’Alleanza Atlantica».

Sulla stessa linea, sul New York Times, sia Thomas Friedman («Ciò che è accaduto venerdì nello Studio Ovale – l’agguato ovviamente pianificato al presidente ucraino Volodymyr Zelensky da parte del presidente Trump e del vicepresidente JD Vance – è qualcosa che non era mai accaduto nei quasi 250 anni di storia di questo Paese: in una grande guerra in Europa, il nostro presidente si è chiaramente schierato con l’aggressore, il dittatore e l’invasore contro il democratico, il combattente per la libertà e l’invaso») che il commentatore conservatore  Bret Stephens («Se Roosevelt avesse detto a Churchill di chiedere una pace a qualsiasi condizione con Adolf Hitler e di cedere le riserve di carbone della Gran Bretagna agli Stati Uniti in cambio di nessuna garanzia di sicurezza americana, si sarebbe avvicinato a ciò che Trump ha fatto a Zelensky. Qualunque cosa si possa dire su come Zelensky abbia giocato male le sue carte – non riuscendo a comportarsi con il grado di servilismo a quattro zampe che Trump pretende o a mantenere la sua compostezza di fronte alle provocazioni in malafede di JD Vance – questo è stato un giorno di infamia americana» (…) Roosevelt e Reagan si staranno rigirando nella tomba, così come Churchill e Thatcher. Spetta a noi altri reclamare indietro l’onore dell’America dai gangster che lo hanno infangato alla Casa Bianca»).

 

 

E il Wall Street Journal annota: «Verso la fine della rissa davanti alle telecamere nello Studio Ovale con l’ucraino Volodymyr Zelensky, il presidente Trump ha detto che è stata “grande televisione”. Su questo ha ragione. Ma lo scopo dell’incontro doveva essere il progresso verso una pace onorevole per l’Ucraina, e alla fine il vincitore è stato il russo Vladimir Putin».

Qualche commentatore ha insistito sul «suicidio assistito» di Volodymyr Zelensky (copyright di Lucio Caracciolo di Limes, da Lilli Gruber su La7), colpevole di aver sbagliato modi e toni, di essersi prestato a un incontro affrettato – che nelle intenzioni avrebbe dovuto portare alla firma di un accordo sullo sfruttamento americano dei giacimenti ucraini di minerali critici – e di aver osato contraddire anziché blandire e riverire Donald Trump e il suo vice. Si sarà anche fatto un po’ trascinare, il presidente ucraino (Elon Musk è stato, al solito, impietoso: «Zelensky si è distrutto da solo davanti agli occhi degli americani»). Ma non dev’essere facile, per il leader di un Paese invaso, bombardato e in guerra da tre anni – e già apostrofato dal suo interlocutore come «dittatore non eletto» e «comico di modesto successo» – sentire che il leader della «più potente democrazia del mondo» vuole adesso tenersi «equidistante» tra aggressore ed aggredito, fra invasore ed invaso, senza dare «vantaggi» al secondo rispetto al primo (e, del resto, «la guerra è stata provocata e non significa che sia stata necessariamente provocata dalla Russia», Donald dixit). O farsi fare la paternale da uno che in Ucraina non c’è mai stato e non ha mai nascosto di curarsene assai poco (il vicepresidente J.D. Vance). O, ancora, sentirsi rispondere, quando fa notare che una vittoria della Russia di Putin potrebbe avere conseguenze anche per gli Usa, «non ti permettere di dire che cosa accadrà. Non sei nella condizione di dirci che cosa faremo e sentiremo noi. (…) Non hai le carte in regola con noi in questo momento. Stai giocando d’azzardo con la vita di milioni di persone. Stai giocando d’azzardo con la terza guerra mondiale». («Se qualcuno gioca alla terza guerra mondiale, il suo nome è Vladimir Putin» ricorderà ore dopo il presidente francese Emmanuel Macron)

 

 

Qualche altro passaggio? «Il problema è che ti ho dato il potere di essere un duro, e non credo che saresti un duro senza gli Stati Uniti» (Trump). «Pensi che sia rispettoso venire nello Studio Ovale degli Stati Uniti d’America e attaccare l’amministrazione che sta cercando di impedire la distruzione del tuo Paese?» (Vance). «Senza le armi Usa avresti perso la guerra in 15 giorni» (ancora Trump).

Il presidente Usa, a una domanda sulla possibile violazione di una eventuale tregua da parte di Putin, ha risposto «l’hanno violata con Biden, perché con Biden, si sa, non lo rispettavano. Non rispettavano nemmeno Obama. Invece rispettano me. Lasciate che ve lo dica, Putin se l’è vista brutta con me». Zelensky, pur precisando che all’epoca gli Usa non erano coinvolti nei negoziati, si è permesso di ricordare che i russi violarono 25 volte i cessate il fuoco in Donbass e dintorni, negli anni della prima presidenza Trump.

 

 

«Ho avuto l’impressione che Zelensky voglia lottare, lottare, lottare. Io e Putin vogliamo la pace» ha detto Trump, qualche ora dopo, prima di partire per Mar-a-Lago. Gli ucraini sono «pronti per la pace» ed è «il motivo per cui oggi sono venuto in visita alla Casa Bianca» ha spiegato Zelensky in un’intervista a Fox News. Ma ha aggiunto che il suo Paese ha bisogno di «garanzie di sicurezza. Non posso soltanto dire stop. Vogliamo una pace giusta e che duri (…). I russi sono venuti nel nostro territorio, nelle nostre case, hanno ucciso così tante persone. Semplicemente dimenticarlo, dire semplicemente che Putin è una gran persona, no». Zelensky si è però detto convinto che il rapporto con Trump si ricucirà, perché le relazioni fra i due Paesi «vanno al di là di due presidenti». Si è detto dispiaciuto per quanto accaduto nello Studio Ovale, ha ribadito di rispettare il presidente e il popolo americano ma non pensa di dovere delle scuse (come invece ritiene il segretario di Stato Usa, Marco Rubio): «Penso che dobbiamo essere molto aperti e molto onesti, e non sono sicuro che abbiamo fatto qualcosa di male». (Qui l’analisi di Massimo Gaggi sulle vecchie ruggini di Trump verso Zelensky e qui le reazioni in Ucraina allo scontro nello Studio Ovale, raccolte dall’inviato Lorenzo Cremonesi)

La vera domanda, però, è: cosa può succedere adesso? Le risposte di Bremmer non sono confortanti. Né per Zelensky («Sarà sottoposto a una pressione enorme. Ed è probabile che Trump lo escluda dalle trattative e raggiunga da solo un’intesa con Putin. Del resto è il metodo che ha usato in Afghanistan, quando ha raggiunto un’intesa con i Talebani senza coinvolgere gli alleati che avevano combattuto per 20 anni a fianco dell’America. Per Zelensky sarà molto difficile continuare la lotta»), né per gli europei: «Anche per loro la pressione è enorme. Diversi leader europei hanno dichiarato la volontà di continuare a sostenere l’Ucraina. Ma è un dato di fatto che negli ultimi tre anni si è capito che hanno una limitata capacità di sostituire gli americani. Ora dovranno affrontare un drastico cambiamento negli equilibri mondiali».

 

 

Donald Trump è convinto che quel cambiamento renderà l’America di nuovo grande. Galli della Loggia ne è molto meno convinto: «Ciò che alla fine più colpisce è il carattere suicida che il nuovo Presidente sta imprimendo alla politica estera del suo Paese. Oggi vi sono tre grandi centri di potenza geopolitica sulla scena del mondo — Stati Uniti, Russia, Cina — ma esiste, sia pure molto a mala pena, un solo impero mondiale, quello americano. E l’impero americano è tale, però, solamente perché di esso fa parte l’Europa, tutta l’Europa che vuole essere libera. Solo chi domina l’Europa, infatti, può aspirare a dominare il mondo. (…) L’impero americano o è democratico o non è. Non può essere».

Anche Federico Rampini ammette che, nella ricerca dei veri o presunti vantaggi di una «nuova Yalta», alla fine Trump «forse si farà raggirare da Putin, come Roosevelt da Stalin nella prima Yalta (1945); e l’abbandono dell’Ucraina diventerà la sua Kabul al multiplo, come fu per Biden la disastrosa ritirata dall’Afghanistan».

 

 

E Jeremy Bowen, della Bbc, sottolinea: «La rottura pubblica segnala anche l’incombere di una grave crisi tra i membri europei della Nato e gli Stati Uniti. Ci saranno molti altri dubbi e domande sull’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza europea al di fuori dell’Ucraina. Il più grande è se il presidente Trump manterrà la promessa fatta dal suo predecessore Harry Truman nel 1949 di trattare un attacco a un alleato della Nato come un attacco all’America. Queste preoccupazioni si basano su quella che sembra essere la determinazione di Trump a ripristinare una forte relazione con il presidente russo Vladimir Putin».

 

 

(Qui l’approfondimento di Federico Fubini su come Putin influenza gli Usa sulle scelte negoziali)

La posizione italiana

Domani, a Londra, l’Europa proverà ad articolare una risposta comune («Si riparte – scrive Giuseppe Sarcina – con due iniziative. La prima è promossa da Regno Unito e Francia: mettere insieme 30 mila soldati da inviare in Ucraina, anche se lontano dal fronte. Alla seconda ci sta lavorando da qualche settimana Kaja Kallas, Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza della Ue. Kallas chiede ai 27 partner di aderire a una super colletta per raccogliere almeno 6 miliardi di aiuti destinati all’esercito di Kiev»).

 

 

Intanto, mentre il vicepremier Matteo Salvini esultava per il trattamento riservato da Trump a Zelensky e l’altro vicepremier, Antonio Tajani, predicava «la cosa più importante è che l’Europa resti unita e parli con una voce sola», da Palazzo Chigi è arrivato, in tarda serata, un comunicato:

«Ogni divisione dell’Occidente ci rende tutti più deboli e favorisce chi vorrebbe vedere il declino della nostra civiltà. Non del suo potere o della sua influenza, ma dei principi che l’hanno fondata, primo fra tutti la libertà. Una divisione non converrebbe a nessuno. È necessario un immediato vertice tra Stati Uniti, Stati europei e alleati per parlare in modo franco di come intendiamo affrontare le grandi sfide di oggi, a partire dall’Ucraina, che insieme abbiamo difeso in questi anni, e di quelle che saremo chiamati ad affrontare in futuro. È la proposta che l’Italia intende fare ai suoi partner nelle prossime ore».

 

La salute del Papa

Nuove preoccupazioni per lo stato di salute del Papa. Francesco ha avuto una crisi di broncospasmo isolata, nel primo pomeriggio di ieri, che ha provocato un episodio di vomito «con inalazione e repentino peggioramento del quadro respiratorio». Il Pontefice, informa il policlinico Gemelli nell’ultimo bollettino, è stato «broncoaspirato e ha iniziato la ventilazione meccanica non invasiva» con una buona risposta sugli scambi gassosi. Questo non significa – spiegano dal Vaticano – che il Papa sia intubato: «Ha solo una maschera che lo aiuta nella respirazione»; e i livelli di ossigeno sono già «tornati a quelli precedenti la crisi».

 

 

Bergoglio è sempre rimasto vigile e orientato e ha collaborato alle manovre terapeutiche. La prognosi resta riservata. Dal Vaticano aggiungono che saranno necessarie tra le 24 e le 48 ore per valutare l’effettivo peggioramento del delicato quadro clinico del Papa.

Le misure sul caro bollette

Approvato il decreto contro il caro-bollette. «Il governo ha stanziato 3 miliardi di euro, 1,6 per le famiglie e 1,4 per le imprese», ha annunciato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. La misura, per affrontare i rincari di gas e luce, vedrà l’aumento del tetto Isee entro il quale si avrà diritto al bonus sociale, fino a 500 euro a famiglia. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti: «L’intervento principale è l’estensione del contributo ai 25 mila euro di Isee» (dagli attuali 9.530 euro). Taglio degli oneri fiscali per piccole e medie imprese. Le opposizioni attaccano: «Sono soltanto annunci vuoti».

 

Le altre notizie

  • Scrive da Gerusalemme il corrispondente Davide Frattini che il premier israeliano Benjamin Netanyahu manovra e cerca di «ottenere quel che voleva fin dall’accettazione dell’accordo per la tregua con Hamas e lo scambio ostaggi/detenuti palestinesi. Ovvero che non si passasse mai alla seconda fase, piuttosto si trascinasse per altri 42 giorni la prima più o meno con lo stesso meccanismo: 3 sequestrati rimandati a casa ogni settimana con il rilascio contemporaneo dei carcerati arabi. Così potrebbe dire ai partiti oltranzisti nel governo israeliano di aver mantenuto la promessa (nessun passaggio alla fase due), così potrebbe giustificare il dispiegamento delle truppe nelle fasce attorno al perimetro dei 363 chilometri quadrati (la Striscia di Gaza, ndr), così potrebbe evitare il ritiro dei carrarmati dal corridoio Filadelfia al confine con l’Egitto. Così soprattutto potrebbe riprendere la guerra quando vuole, fino alla propagandata “vittoria totale” su Hamas».

  • Il governo punta sul ritorno all’energia atomica e approva la legge delega sul nuovo nucleare sostenibile. L’atto formale è il via libera di ieri del Consiglio dei ministri al provvedimento di quattro articoli per «intervenire in forma organica sulla materia della produzione di energia da fonte nucleare sostenibile e da fusione». Il governo ricorda il balzo tecnologico sia dei reattori di terza generazione avanzata sia di quarta generazione che «ha assicurato un salto di qualità in termini di sicurezza e di efficienza. Ciò vale anche per i piccoli reattori modulari, sui quali è in atto un impegno europeo e mondiale per avviarne la commercializzazione nei primi anni 2030».

  • Il periodico sondaggio di Nando Pagnoncelli sulle intenzioni di voto degli italiani segnala il calo di Fratelli d’Italia (oggi al 27%, con una riduzione dello 0,8%). In piccolo calo anche Lega e Forza Italia, entrambe appena sopra l’8%. Nell’opposizione si segnala un rafforzamento, anch’esso contenuto ma apprezzabile, del Movimento 5 Stelle, oggi stimato al 13,2%, in crescita dello 0,7% rispetto allo scorso mese. Per il resto solo variazioni non significative, di pochi decimali, con il Pd che scende al 22,6%, registrando un leggero calo (-0,2%) e Avs che risale al 6 per cento. «Cresce invece in maniera significativa l’area dell’incertezza e dell’astensione, oggi al 46,5%, il dato più alto registrato negli anni recenti. E segnale di un distacco che sembra divenire sempre più preoccupante».

  • Per la polizia di Santa Fe, l’attore Gene Hackman è morto il 17 febbraio, una settimana e mezza prima che il suo corpo senza vita e quello della moglie fossero scoperti mercoledì 26 febbraio da un custode della villa dove la coppia abitava da circa 20 anni. Un medico legale ha escluso l’avvelenamento da monossido di carbonio come causa della morte della coppia, ma non sono state ancora stabilite né la causa né le modalità.

  • Le condizioni fisiche di Zdenek Zeman, il 77enne ex allenatore boemo, colpito due giorni fa da una ischemia cerebrale, permangono gravi. Dal Policlinico Gemelli di Roma, dove è ricoverato da 48 ore in terapia intensiva, arrivano notizie poco confortanti: «Non sappiamo se tornerà a parlare, ce lo dirà il tempo, dipende quanto è stato in sofferenza il tessuto cerebrale».

  • La scienza dà ragione ai genitori. Iscriversi ai social troppo presto può avere effetti negativi sul rendimento scolastico

    . Gli studenti che creano un account prima dei quattordici anni — cioè l’età minima stabilita dalla legge italiana per registrare un profilo — mostrano risultati peggiori ai test Invalsi. È quello che emerge da un progetto di ricerca chiamato Eyes Up (EarlY Exposure to Screens and Unequal Performance) condotto dall’Università di Milano-Bicocca e dall’Università di Brescia, insieme all’associazione Sloworking e al Centro Studi Socialis.

  • Federica Brignone ha allungato su Lara Gut-Behrami in vetta alla classifica generale della Coppa del Mondo, avendo ora 213 punti di vantaggio. La prima delle due discese di Kvitfjell ha però regalato all’Italia il classico giorno in cui le cose sono andate un po’ di traverso. Il risultato complessivo c’è — quarta Sofia Goggia, quinta Federica Brignone, sesta Laura Pirovano —, ma è mancato il podio.

  • Oggi alle 18 si gioca Napoli-Inter, che potrebbe risultare decisiva per la corsa allo scudetto.

 

Da leggere

 

Il retroscena di Francesco Verderami sul piano riservato del governo per agevolare la conversione di una parte almeno delle aziende italiane dal settore automobilistico alla componentistica bellica.

 

La versione di Walter Veltroni sulla surreale polemica, a proposito dell’eroe antimafia Pio La Torre, che l’ha coinvolto.

 

Grazie per aver letto Prima Ora e buon fine settimana (qui il meteo)

 

(Questa newsletter è stata chiusa alle 3.15)

 

 

 

 

 

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venerdì 28 febbraio 2025
L’umanità di Velázquez, Dieci capodanni e Zero Day, Lee Miller, Israele contro l’Ucraina, poesia e polis
Rassegna venerdì L'umanità di Velázquez, l'utopia europea, Dieci capodanni, poesia e fotografia
editorialista
di   Alessandro Trocino

 

Bentrovati. Oggi nella consueta ricca rassegna del venerdì, svariamo tra temi culturali e politici.

 

L’umanità di Velázquez Si comincia con l’arte e il sivigliano Diego Velázquez, raccontato da Roberta Scorranese con alcune parole chiave: umanità, verità, pathos.

Dieci Capodanni e Zero Day Due grandi serie, una commedia intimista spagnola e un thriller politico americano. Ma anche una riflessione su cosa manca al cinema italiano.

Lee Miller Paolo Baldini ci parla del film «Lee Miller», che racconta la vita e le fotografie della newyorkese Elizabeth Miller, detta Lee, interpretata da Kate Winslet.

Israele contro l’Ucraina È successo pochi giorni fa all’Onu, ed è stato brutto. Ma purtroppo, spiega Gianluca, non è affatto una sorpresa: tra Netanyahu, Putin e Trump c’è una vera affinità. E il parallelo giusto è quello tra gli sconfitti di questa era, ucraini e palestinesi.

L’utopia europea Massimo Nava prova a leggere le mosse – lente, troppo lente – dell’Europa con altri filtri, veleggiando tra Musil, Zweig e Tommaso Moro.

Poesia e polis «Mi strazia, come la mia, la vostra sorte», dice un poeta, Alessandro Bianchi. Daniele Piccini ci introduce al «mese della poesia» e alla nuova copertina della «Lettura», in edicola nel weekend.

La playlist della settimana Tre novità nell’aggiornamento settimanale della nostra Playlist della settimana, con le nuove uscite da scoprire nel mercato discografico. Oggi Jesse Welles, Brian D’Addario e John Glacier.

 

Buona lettura.

 

Se vi va, scriveteci.

Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it
Luca Angelini langelini@rcs.it
Elena Tebano etebano@rcs.it
Alessandro Trocino atrocino@rcs.it

Capolavoro!
Diego Velázquez: i tradimenti di Venere, le corna di Vulcano e la pittura come celebrazione del «restare umani»
editorialista
Roberta Scorranese
27 feb 2025«Apollo nella fucina di Vulcano», 1630

 

Un gruppo di uomini. È la prima cosa che si nota in questo dipinto, oggi conservato del Museo del Prado, a Madrid e opera del sivigliano Diego VelázquezUn gruppo di uomini e una tensione che si percepisce a un metro di distanza: c’è un ragazzo giovane e splendente, sulla sinistra, impettito e dall’aria grave. Quello che sta comunicando, evidentemente, non piace affatto agli altri uomini della compagnia a torso nudo, in particolare alla seconda figura da sinistra, il fabbro con la barba, la testa protetta da un fazzoletto e l’espressione oscillante tra rabbia, sorpresa, incredulità e disperazione.

 

Diego Velázquez: i tradimenti di Venere, le corna di Vulcano e la pittura come strepitosa celebrazione della realtà

 

Autoritratto, circa del 1640

 

Ma nemmeno gli altri operai della fucina — il calore dell’ambiente si coglie dalle tinte ambrate, dalla nudità degli uomini sudaticci e dall’incandescenza dei metalli che stanno lavorando — sembrano da meno: stupore e indignazione deformano i loro visi accaldati. Infatti, la rappresentazione scelta dal più importante pittore spagnolo del cosiddetto Siglo de Oro, periodo compreso tra il 1492 e il 1659, riporta un episodio celebre del mito greco: Apollo, il messaggero splendente, è sceso nella fucina di Vulcano (il fabbro con la barba) per fare la spia. Come racconta Ovidio delle Metamorfosi, Ermes è stato «il primo» ad accorgersi che Venere, sposa di Vulcano secondo una versione del mito, tradisce ripetutamente il marito con l’aitante e virile Marte, muscoloso dio della guerra (Tintoretto ne ha dato una versione esemplare in pittura). «Questo dio vede tutto per primo — scrive Ovidio —. Si indignò, e a Vulcano, figlio di Giunone e marito di Venere, rivelò quei segreti convegni, e il luogo di quei convegni». Se dovessimo sintetizzare la scena con parole più triviali, potremmo dire che stiamo parlando di corna. Anche se di corna mitologiche e quindi sacre.

 

Diego Velázquez: i tradimenti di Venere, le corna di Vulcano e la pittura come strepitosa celebrazione della realtà

 

Tintoretto, «Venere, Vulcano e Marte», 1551 circa

 

Questo non è certamente il dipinto più famoso di Velázquez, perché si conoscono di più la Venere allo specchio (oggi nella National Gallery di Londra) o il ritratto di Innocenzo X, quello che ha ispirato Francis Bacon. Eppure questa tela ci racconta il pittore da un’angolazione particolare. A cominciare dalla data di esecuzione, il 1630: l’anno in cui l’artista fece il primo viaggio in Italia, «sponsorizzato» da Rubens, mentore presso la corte madrilena di Filippo IV, prima di diventare un suo (rispettato) rivale.

 

Diego Velázquez, Ritratto di Innocenzo X, 1650

 

Diego Velázquez, «Ritratto di Innocenzo X», 1650

 

Ma l’influenza italiana per lui fu fondamentale: lo studio delle opere di Tiziano e Raffaello gli trasmise un gusto per le figure consistenti, definite, una qualità terragna che poi Velázquez instillerà nella sua Venere più famosa. E soprattutto il secondo viaggio in Italia, circa quasi vent’anni dopo, fu cruciale, perché questa volta si trattò di un incarico ufficiale: il re, infatti, gli diede il compito di raccogliere capolavori italiani per le stanze del nuovo palazzo dell’Alcazar. Diego arrivò a Genova e da qui si mosse per Venezia, Ferrara, Bologna, arrivò a Napoli e poi si fermò per quasi due anni a Roma. Fu nella capitale che eseguì il ritratto del Papa, il quale, vedendolo per la prima volta, esclamò: «Troppo vero!».

 

Diego Velázquez: i tradimenti di Venere, le «corna» di Vulcano e la pittura come strepitosa celebrazione della realtà

 

«Venere allo specchio», 1648

 

Era proprio così: è «verità» la parola chiave per capire Velázquez, per inscriverlo nel periodo storico nel quale si è trovato a vivere. Il Siglo de Oro spagnolo si apre con la scoperta dell’America e l’artista (nato nel 1599 e morto nel 1660) ne coglie l’estrema propaggine, quella delle scoperte scientifiche e tecnologiche. Ma coglie anche il declino degli Asburgo, con un re ormai ripiegato sui fasti del passato e sui ricordi di splendori perduti.  Eppure, si ritrova a interpretare forse il ruolo più difficile: per Filippo IV l’arte era uno strumento politico e ai «suoi» artisti richiedeva missioni diplomatiche. Non solo quali «procacciatori di opere» per abbellire le sue residenze: Velázquez doveva essere veicolo di una politica di ampi orizzonti, assorbire la cultura degli altri Paesi e, al tempo stesso, diffondere e valorizzare la sensibilità spagnola. Diego, allora, spinge la pittura fino a farla diventare un linguaggio internazionale, che prende le mosse da diverse sponde del Mediterraneo per arrivare a qualcosa di completamente «altro».

 

Diego Velázquez: i tradimenti di Venere, le «corna» di Vulcano e la pittura come strepitosa celebrazione della realtà

 

«La vecchia friggitrice di uova», 1618

 

Per esempio, reinventando il concetto di «pathos». Se in Tiziano e in Tintoretto questa idea si nutriva di tensioni spirituali e in certi casi anche di grandiosità, Velázquez sposta l’asse su territori più umanizzanti: i ritratti dove non si nascondono le segrete vulnerabilità dei potenti, le raffigurazioni dei poveri e dei giullari di corte, delle friggitrici di uova che si guadagnano da vivere in una strada dove all’epoca poteva accadere di tutto. Persino la sua Venere allo specchio ha una straordinaria bellezza disadorna, trionfo della nudità essenziale, forma pura.

 

 

Ecco perché Innocenzo X non trovò parole più adatte dell’espressione «Troppo vero!» quando si vide immortalato in una dimensione poco ultraterrena, con uno sguardo vagamente ammiccante, il sorriso somigliante a un’allusione. Velázquez sdrammatizza laddove altri caricano le figure di allegorie e di tragico. Lavorò a lungo per affilare la qualità anti-retorica della sua pittura: se andate al Prado e osservate la galleria dei suoi ritratti, vedrete che su fondo scuro spiccano persone, mai semplici caricature. Ciascuna con il proprio fardello umano.

 

 

E arriviamo così alle «corna» di Vulcano. Misurarsi con gli episodi del mito era un passaggio quasi obbligato nel Barocco. E ciascun artista lo ha fatto a modo proprio: Rubens ha insistito sulla carica sensuale, Bernini ha messo l’accento sulle passioni. A mio parere, Velázquez ha trovato uno dei passaggi più originali, oscillante tra l’umanità e l’amore per la realtà. Apollo, nel suo dipinto, perde ogni senso tragico: impettito e con il ditino alzato, assomiglia a una lavandaia maligna (che cosa c’è di peggio di un dio pettegolo?), fa la spia denunciando una donna che non è presente e che non può difendersi. Vulcano si spoglia della sua carica di «fabbricatore di cose perfette» e sembra un marito inacidito e geloso, accecato da passioni misere. E anche i Ciclopi, emblemi di un racconto mitologico grandioso, d’un tratto paiono a tanti «compari di bevute», sudati e pronti a menare le mani. Non ci sono dèi in questa raffigurazione, ma solo esseri umani, ciascuno alle prese con le proprie piccolezze ma, in fondo, non siamo tutti così? Davanti al dolore, alle tragedie, alle ingiustizie o alle malignità, non diventiamo tutti piccoli protagonisti di un dramma scritto male? Io amo Velázquez perché sa riportarci con i piedi per terra, per citare un detto piemontese: «Pissa pi’ curt», cioè «piscia più vicino».

 

Diego Velázquez: i tradimenti di Venere, le corna di Vulcano e la pittura come celebrazione del «restare umani»

 

«Trionfo di Bacco», 1628

 

E lo fa anche in un altro meraviglioso quadro, anche questo conservato nel Museo del Prado, con un doppio titolo: «Il trionfo di Bacco» o, più propriamente, «I Bevitori». L’iconografia è famosa: il dio del vino, abbigliato con drappi succinti e ornato con grappoli e foglie di vite, che presiede a una festa orgiastica, tra bevute, danze e risate. Ma la cosa interessante, qui, è il Bacco stesso: siede al centro della scena ma guarda altrove, come se non fosse pienamente convinto. Non sta «recitando», come sarebbe avvenuto in quello straordinario teatro della pittura che è Caravaggio. Lo spagnolo coglie la sua distrazione, la sua assenza. Bacco è altrove: non sappiamo dove, ma di certo non sta partecipando alla sua festa. Bacco non è più un dio, ma – come Apollo – è tra di noi. Resta umano. Ecco il cuore di Velázquez.
rscorranese@corriere.it

 

Rassegna cinematografica
Dieci Capodanni, Zero day e il cinema italiano
editorialista
Alessandro Trocino

 

Si sfogava l’altro giorno un amico che di cinema ne sa molto, e diceva che «non esiste un cinema che mi rappresenti meno di quello italiano, in termini di identificazione, condivisione di sentimenti, di personaggi». Si potrà dire che è la solita geremiade contro il cinema italiano, e che invece i numeri stanno a dimostrare che il 2024 è stato un’annata felice, che è riuscita ad eguagliare il 2023 d’oro di «C’è ancora domani», di Paola Cortellesi. «Diamanti», di Ozpetek, ha incassato oltre 15 milioni di euro, molto bene anche Angelo Duro: il suo «Io sono la fine del mondo» è a quota 8,1 milioni di euro. «Il ragazzo dai pantaloni rosa» ha incassato 9 milioni di euro, «Parthenope» 7,5 milioni, «Un mondo a parte» 7,4. Perfino «L’Abbaglio» ha raggranellato 2,6 milioni di euro in 2 settimane.

 

 

I numeri sembrano dire che gli italiani apprezzano il nostro cinema, che ora ha una quota sul totale del 25 per cento. E anche le serie – «M», «L’Arte della gioia» e prossimamente «Portobello» – segnerebbero un buon momento di pubblico ma anche di critica.

 

Eppure, come dare torto all’amico? Non parlava di numeri, di gradimento e neanche di qualità, parlava di come il cinema italiano ci racconta: «Le tende che svolazzano, Parthenope bella e indecifrabile come la città. Ma basta. Trovi spesso un film norvegese, uno francese, una serie spagnola che ti rappresenta. Io non trovo mai un film italiano che mi fa dire: ecco, questo lo sento pure io, questa è la vita attorno a me che vorrei vedere». L’amico citava il film norvegese che ha vinto Berlino, «Drommer» (Dreams): «Una diciassettenne che si innamora dell’insegnante e ci scrive un libro, il dolore del sentirsi rifiutate, le insidie del rapporto di forza in una relazione fra una adulta e una ragazza. Bello? Bello. Ma che ci importa, noi abbiamo gli inside out che in Follemente s’accapigliano su come deve far sesso Edoardo Leo con la Fogliati».

 

Al cinema italiano, in effetti, da molti anni – diciamo dalla commedia all’italiana – mancano due elementi: la capacità di raccontare la nostra vita quotidiana senza artifici, senza manierismi, senza patetismi, e la capacità di pensare in grande, l’ambizione, il coraggio di raccontare qualcosa che non sia il tinello piccolo borghese. Ci sono due serie in questi giorni che ci fanno misurare la differenza. La prima è la spagnola «Dieci capodanni», la seconda è «Zero day».

 

«Dieci capodanni»

«Dieci capodanni» è una serie miracolosa, senza troppi precedenti a cui paragonarla. Racconta una storia d’amore divisa in dieci puntate, che seguono i protagonisti per dieci anni: ogni puntata si concentra in una sola giornata, un ultimo dell’anno (una tecnica simile viene usata in «One day» e nel bel «Dieci inverni» di Valerio Mieli). Una delle forze della serie è proprio l’ellisse: non sappiamo cosa è successo in quei 364 giorni che ci separano dal prossimo Capodanno e – se la scrittura, come diceva Hemingway, deve mostrare solo la punta dell’iceberg -, questa serie dimostra come l’omissione, il non detto, il non raccontato siano una forza d’attrazione straordinaria.

 

Ma il prodigio della serie è un altro, è quello di raccontare due ragazzi normali, con i loro sentimenti, le debolezze, la vigliaccheria, la mancanza di prospettive, gli slanci, la rabbia, le illusioni, le delusioni. Non c’è un secondo della serie che risulti non credibile. Non ci sono frasi a effetto, né acrobazie tecniche. Oscar e Ana sono lì, davanti a noi, cambiano, crescono, bevono, ridono, ballano, invecchiano, flirtano, si tradiscono, si ritrovano, si perdono. Contano i dialoghi – perfetti, mai retorici, mai fuori tono, mai posticci – e conta il fuori campo, quello che non vediamo, quello che non sappiamo. Quei frammenti temporali riescono a creare empatia e identificazione, ci raccontano di noi più di quanto abbiano fatto in dieci anni i film italiani. Oscar e Ana sono credibili, umani, naturali. Rodrigo Sorogoyen – l’autore anche di As Bestas – ce li serve così, nudi e vulnerabili, fragili e veri. Molto fanno le altre due autrici – Sara Cano e Paula Fabra – e molto fanno gli attori, Iria del Río e Francesco Carril, facce belle, vere, credibili.

 

 

Sorogoyen, come sottolinea Paola Casella su Mymovie, «inserisce anche i tempi morti, i non sequitur, il chiacchiericcio incessante e a volte estenuante». Se un film, diceva Alfred Hitchcock, è la vita senza le parti noiose, qui ci sono anche quelle e non annoiano per nulla. I due parlano, a volte di niente, si arrabbiano senza motivo e la storia gira a vuoto, meravigliosamente a vuoto. Non ci sono clamorosi colpi di scena, anche se una trama c’è e succedono molte cose. Ma quello che conta sono gli sguardi, i silenzi, le intenzioni, i fraintendimenti, le ipocrisie, i sentimenti.
Marco Albanese, su Stanze di Cinema, mette in exergo una citazione di John Cassavetes: «Non c’è location migliore del volto umano, per ambientarci una storia». E davvero Cassavetes è stato un maestro insuperabile nel cercare e restituire emozioni e cinema dalle facce, dai silenzi, dalle smorfie. I suoi attori – Jena Rowlands, Seymour Cassel, Peter Falk – sono straordinariamente veri e il cinema di Cassavetes è stato un picco insuperato.

 

 

Non ci sono molti contatti tra Cassavetes e il cinema di Sorogoyen, se non quella sensazione di verità che solo l’artificio meglio riuscito, la messa in scena più sofisticata e intelligente riescono a creare. La sensazione è che, come dice l’amico, questa serie parli davvero di noi, delle nostre esistenze confuse e del tentativo, spesso fallimentare, di capirci qualcosa.

 

Zero Day

 

Poi c’è Zero day. Una miniserie americana in sei puntate, che si fa guardare tutta d’un fiato anche se non ha niente di rivoluzionario. In più ha anche parecchi difetti, sia nella credibilità della trama, sia nella psicologia e nello sviluppo dei personaggi. Eppure spacca. Perché è un meraviglioso trattato di filosofia politica sotto le mentite spoglie di thriller apocalittico.

 

L’hanno creata Eric Newman, Noah Oppenheim, ex presidente della Nbc News, e Michael S. Schmidt, giornalista politico investigativo del New York Times. La storia è quella di un ex Presidente richiamato in servizio dopo che un terribile e misterioso cyber attacco di hacker ha messo in ginocchio gli Stati Uniti, bloccando ospedali, dirottando treni e aerei, mettendo fuori uso ogni dispositivo elettronico. Il risultato sono 4 mila morti, il panico e la sensazione diffusa di non essere più al sicuro.

 

Ma chi è stato? La Russia, si direbbe oggi. E si dice anche nella serie, che ha un numero elevato di consonanze con il presente: la presidente in camera sembra Kamala Harris, l’ex presidente Joe Biden, la figlia Alexandra rimanda a Alexandria Ocasio-Cortez e via elencando. Ma la questione è più complicata di così. Purtroppo tocca leggermente spoilerare, quindi chi non l’ha vista e voglia mantenere la sorpresa si astenga da qui in poi (anche se non raccontiamo i molti colpi di scena).

 

Tecnicamente, l’idea è quella di descrivere uno scenario da incubo, in cui gli Stati Uniti sono attaccati e per difendersi ricorrono a una persona che ha grande autorevolezza, ma anche qualche sospetto problema mentale e a un certo punto decide di usare le maniere forti. C’è un aspetto tecnico da mettere in evidenza, come spiega il New York Times: «La cospirazione e la paranoia hanno una loro estetica progettata per far sentire lo spettatore impotente, come se un occhio onniveggente fosse sempre al lavoro. Il produttore esecutivo Lesli Linka Glatter, che ha diretto tutti gli episodi di “Zero Day”, ha cercato di creare un senso di ansia all’interno delle scene alternando punti di vista oggettivi e soggettivi e diverse modalità di ripresa, come Steadicam e dolly shot».

 

 

I paralleli più frequenti sono con capolavori del cinema americano di cospirazione degli anni ’70: «I tre giorni del Condor», «The Parallax View» («Perché un assassinio»), «Chinatown», «La conversazione».

 

 

Ci sono molte cose che colpiscono nella serie. La prima è un gigantesco Robert De Niro, che alla veneranda età di 81 anni è più fresco di Biden e Trump messi insieme e fa qui una delle sue interpretazioni migliori. La seconda è la fragilità delle democrazie. Concetto che stiamo purtroppo imparando a maneggiare. Però, di solito, temiamo che siano i cattivi – i Proud Boys, i neonazisti, gli squinternati – a mettere in pericolo le fondamenta delle nostre certezze, a suon di complotti, rivolte armate, colpi di mano e forzature istituzionali. Qui sono i buoni. Ed è una lezione splendida. 

 

 

Nell’ultima puntata, il presunto buono dice al presidente (De Niro): «Io e te stiamo dalla stessa parte. Io ho fatto quello che ho fatto per lealtà verso ciò a cui dici di tenere così tanto». Quando De Niro gli rinfaccia le migliaia di morti e l’alto tradimento, il «buono» replica: «Quanti anni credi che ci restino? Metà del Paese vive un sogno febbrile di bugie e complotti e l’altra metà si scalda sul gender e parla solo dei torti subiti». Per lui – e per gli altri «buoni» che lo hanno aiutato – la democrazia si salva solo così, facendo fuori i nemici: «La chemio non uccide le persone ma il cancro. E sappiamo bene chi è il cancro in questo Paese: nazionalisti bianchi che temono di essere rimpiazzati, anarchici che odiano la polizia, pazzi che pensano che i risultati di un’elezione si possano interpretare, clown che avvelenano le masse online e in tv per fare due soldi».

 

Il finale è incongruamente ottimistico, ma siamo pur sempre a Hollywood e dalle parti del cinema democratico, che mantiene ancora un buon grado di speranza, totalmente fuori luogo visti i tempi che corrono. Dice Oppenheim. «Speriamo di indicare una strada da seguire per le persone. Per quanto un sistema possa essere corrotto, ognuno di noi ha ancora una bussola morale dentro di sé e possiamo ancora scegliere di fare le cose giuste».

La Cinebussola
Gli orrori del 900 nelle fotografie di Lee Miller: il tormentato kolossal femminista con Kate Winslet
editorialista
Paolo Baldini

Gli orrori del 900 nelle fotografie di Lee Miller: il tormentato kolossal femminista con Kate WinsletKate Winslet

Primo sfoglio, 1) vita avventurosa di una fotoreporter al fronte, testimone delle atrocità naziste, dell’odio e della crudeltà dell’Olocausto, delle bombe e del dolore. Secondo sfoglio, 2) l’importanza della buona informazione, onesta e appassionata. Terzo sfoglio, 3)l’emancipazione di una donna che non accetta di aspettare, che vuole conoscersi e migliorare, che esce dalla comfort zone della moda e dell’arte e s’impone in un mondo maschile rompendo i muri del pregiudizio. Quarto sfoglio, 4) il valore dell’immagine di fronte a eventi estremi. Le fotografie della newyorkese Elizabeth Miller, detta Lee (1907-1977) sono un punto di riferimento per documentare orrori e devastazioni della Seconda guerra mondiale. E sono anche la base del biopic che la debuttante Ellen Kuras, 65 anni, ha dedicato a Lee e che sarà al cinema dal 13 marzo con la distribuzione di Vertice360. L’interprete è Kate Winslet, che ha più volte ricordato di considerare Lee Miller come il film più importante della sua carriera.

La cronaca diventa storia in un’opera dalla gestazione tormentata. L’idea nasce dalla biografia di Antony Penrose, figlio di Lee Miller, intitolata The Lives of Lee Miller. Ellen Kuras e Kate Winslet, che si erano conosciute sul set di Se mi lasci ti cancello (2004), hanno faticato per coprire i costi. Winslet, che è anche nel cast dei produttori, ha personalmente coperto gli stipendi della troupe per due settimane e si è scontrata per reperire fondi con un alto muro maschilista, ostile al film. In proposito ha ricordato nelle interviste: «Quando gli uomini pensano che tu abbia bisogno del loro aiuto diventano scandalosi».Lee Miller ripercorre le tappe dell’impegno professionale di Lee (e del coinvolgimento emotivo che portò nei suoi scatti) attraverso l’espediente dell’intervista-bilancio realizzata poco prima della scomparsa. È un film rapsodico, un racconto di formazione e di maturazione.

Storia di una ragazza di talento, modella a New York, trasferitasi a Parigi nel 1929, durante la Grande Depressione, frequentatrice del bel mondo della Costa Azzurra negli Anni Trenta, affermatasi come fotografa d’arte e di moda, famosa per i ritratti di Picasso, Fred Astaire, Colette, Maurice Chevalier, Max Ernst, Marlene Dietrich, corrispondente di guerra dal 1941 per Vogue, testimone dello sbarco in Normandia e della liberazione di Parigi, della battaglia di Saint Malo dell’umiliazione pubblica delle collaborazioniste francesi, oltre che degli orrori di Buchenwald e Dachau. Miller fu l’amante di Man Ray, che la introdusse nei circoli bohémien, nonché la moglie di Roland Penrose (1900-1984), pittore surrealista, poeta e collezionista britannico.

Kuras ben conosce il valore della fotografia rispetto alle cose del mondo avendo partecipato ai set di Spike Lee e Michel Gondry. Qui riflette sull’importanza della memoria, della sensibilità e del punto di vista femminile. «Fotografare significa inquadrare, cogliere il momento giusto, trovare un significato all’immagine, includere qualcosa ed escludere qualcos’altro». Kate Winslet è carnale, commossa, intensa nell’interpretare Lee Miller in tutte le età della sua vita. Quando è una disinvolta farfalla con le amiche del cuore, la giornalista Solange d’Ayen (Marion Cotillard) e Nusch Eluard (Noémie Merlant), moglie del poeta Paul Eluard. Quando è al lavoro con il collega David Sherman (Andy Samberg). Quando incontra, poi sposa e si trasferisce a Londra con Roland Penrose (Alexander Skarsgård). Quando racconta la sua storia all’intervistatore che scopriremo essere il figlio Antony (Josh O’Connor) da cui affiora il disagio di confrontarsi con una madre così presa dalla sua missione, affetta da disturbo post traumatico, con problemi di alcolismo. Sherman invece fu colui che fotografò Lee nella vasca da bagno di Hitler con il pavimento sporco del fango di Dachau. Il film s’accende a tratti, ma regala pagine importanti, legate ai clic di Lee, ma anche ai suoi turbamenti di donna del Novecento.

Rassegna delle guerre
Israele con la Russia e contro l’Ucraina, triste storia di una non-sorpresa
editorialista
Gianluca mercuri

 

Lunedì scorso, l’Assemblea generale della Nazioni Unite ha celebrato il terzo anniversario dell’aggressione russa all’Ucraina, schierandosi compattamente con il Paese aggredito. Gli schieramenti, per quanto netti, sono stati però clamorosamente e tristemente inediti. Contro la risoluzione presentata da Kiev e dall’Unione europea, che difendeva l’integrità territoriale dell’Ucraina, hanno votato gli Stati Uniti – segnando il loro clamoroso cambio di alleanze: da Zelensky a Putin – ma anche altri Paesi: ovviamente la Russia, e poi la Bielorussia, l’Ungheria, la Corea del Nord e Israele.

 

 

Il Foglio ha commentato così quel voto apparentemente singolare:

 

 

«Della lista, oltre agli americani, imbarazza la presenza non soltanto dell’Ungheria, ma soprattutto di Israele. Probabilmente gli israeliani avranno scelto di sostenere Washington per lo stretto bisogno che hanno dell’alleato americano. Non conosciamo il retroscena di questo voto e sappiamo bene quanto la situazione di Israele sia fragile e quindi è complicato per lo Stato ebraico arrecare anche il minimo sgarbo a Trump, ma il voto contrario da parte di un paese che lotta ogni giorno per affermare il suo diritto a esistere, che dalla sua nascita ha dovuto lottare contro Stati e organizzazioni terroristiche che volevano distruggerlo e privarlo di territorio è illogico. Israele avrebbe potuto astenersi per non turbare l’alleato americano, invece si è infilato in una lista di regimi, proprio ieri che al Muro del pianto a Gerusalemme è stata spiegata una bandiera dell’Ucraina. Per ragioni di sicurezza Israele non mostra apertamente il suo sostegno all’Ucraina, dietro le quinte avviene più di quello che vediamo, ma il nome del Paese che combatte per i valori democratici e per la libertà messo nello stesso elenco di regimi sanguinari che vogliono distruggere tutto quello in cui Israele crede è un brutto segnale che genera confusione».

 

 

L’amarezza del Foglio è naturalmente del tutto comprensibile e condivisibile. Si tratta però di un autoinganno dalle radici antiche, di una delusione priva di basi razionali, quella di un tifoso che vorrebbe il gemellaggio tra le sue squadre preferite e si rifiuta di vedere quanto siano in realtà incompatibili. La scelta di Israele di schierarsi con la Russia e contro l’Ucraina è senz’altro un brutto segnale, ma non genera alcuna confusione. Semmai, fa ulteriore e definitiva chiarezza: immaginare che lo Stato ebraico, nel momento in cui è guidato dal governo più a destra della sua storia e tra i più reazionari del pianeta, sia insieme all’Ucraina la punta di lancia nella lotta tra il bene e il male, tra democrazia e autocrazie, è stato ed è un puro esercizio di wishful thinking (dando per scontata l’onestà intellettuale di chi si ostini a crederci, ma allora diventa una questione di perspicacia).

 

 

La verità è un’altra, e nell’era terribile del Trump bis è ancora più chiara: Israele – questo Israele, guidato da Netanyahu e dai suoi alleati fanatici – si trova perfettamente a suo agio in compagnia di Donald e Putin, due gangster del tutto affini – e non da ora – a «Bibi» per vocazione autoritaria e imperiale. Fa le cose che fanno loro e ne condivide metodi e obiettivi sul piano del controllo interno e dell’espansionismo territoriale. A questo Israele, dell’Ucraina non può importare di meno e mai è importato.

 

 

Non a caso, Paolo Mieli ne prese atto già due anni fa, dolendosi del mancato sostegno israeliano al popolo aggredito e delle conseguenze che avrebbe comportato «sul piano internazionale e sul piano etico». Il Foglio, anche nel constatare che il drammatico voto all’Onu non è difendibile, sente invece il bisogno di dirsi che solo «per ragioni di sicurezza Israele non mostra apertamente il suo sostegno all’Ucraina, dietro le quinte avviene più di quello che vediamo».

 

Sono trappole autorassicuranti che chiunque ami Israele può evitare agevolmente: basta leggere Haaretz, che di Israele è una delle cose più belle, ne rappresenta l’anima antica, quella del sionismo progressista e umanista, non sciovinista, non razzista, non suprematista, non espansionista. Soprattutto, Haaretz fa un giornalismo eccezionale sul piano della qualità delle analisi e della accuratezza delle notizie, con commentatori impareggiabili per competenza e fonti straordinarie nell’apparato militare e nell’establishment anche di destra. Coniugato tutto questo con un inscalfibile apparato etico – con basi piuttosto semplici in teoria: basta considerare i palestinesi esseri umani con pari diritti – ne viene fuori un tipo di lettura in cui chi si presume amico di Israele dovrebbe esercitarsi quotidianamente.

 

Questa pippa pro-Haaretz serve a spiegare come sia poi facile ripescare articoli che spiegano tutto. Un anno fa preciso, 27 febbraio 2024, analisi di Yossi MelmanWhy Israel Isn’t Sorry It Never Stood by Ukraine Against Russia, «Perché Israele non si pente di non essere mai stato al fianco dell’Ucraina contro la Russia». Vediamolo, il perché:

 

 

«Fino al 7 ottobre (2023, la data del pogrom di Hamas che ha scatenato una delle fasi più cruente del conflitto israelo-palestinese, ndr), il governo del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy non ha nascosto la sua rabbia nei confronti dei governi di Naftali Bennett, Yair Lapid e Benjamin Netanyahu, che hanno rifiutato di unirsi ai Paesi occidentali e di aiutarli nella guerra contro l’aggressione russa. Il rifiuto israeliano è stato moralmente vergognoso».

 

 

«In modo imbarazzante, Bennett e il ministro della Difesa Benny Gantz si sono abbassati ulteriormente quando hanno rifiutato di vendere giubbotti antiproiettile ed elmetti alle squadre di soccorso medico ucraine all’inizio della guerra. Solo circa un mese dopo, su pressione di Lapid, all’epoca ministro degli Esteri, Israele ha accettato di fornire i giubbotti antiproiettile e gli elmetti, oltre a ulteriore assistenza umanitaria, e di allestire un ospedale da campo al confine tra Polonia e Ucraina».

 

 

Devono essere queste elargizioni a far batter il cuore al Foglio quando parla di «aiuti dietro le quinte». Ma per fortuna, una delle specialità di Paolo Mieli è spazzare via l’ipocrisia: «L’ambasciatore ucraino (a Tel Aviv) Yevgen Korniychuk si presentò in una conferenza stampa con un elmetto in testa e chiese agli astanti: “Per favore ditemi come si può uccidere qualcuno con questo affare sul capo?“». E aggiunse che “non si vince una guerra con bende e antibiotici».

 

 

Ma riprendiamo Yossi Melman:

 

 

«Nelle prime settimane di guerra, Israele rifiutò anche di assorbire i rifugiati ucraini a meno che non fossero ebrei. Questa decisione fu poi cambiata in seguito alle pressioni dell’opinione pubblica israeliana e alle proteste del mondo intero».

 

 

«In sintesi, Israele ha fatto meno del minimo che ci si aspetta da uno Stato ebraico che è stato fondato sulla scia dell’Olocausto e che per tutti gli anni della sua esistenza si è lamentato di essere vittima di un’aggressione e ha aspirato alla simpatia del mondo. Le richieste del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha invitato Israele a fornire all’Ucraina almeno armi difensive, sono state inutili. L’Ucraina ha implorato Israele di fornire un sistema Iron Dome per proteggere i suoi cittadini dai bombardamenti dell’aviazione russa e dai missili che la Russia ha lanciato sulla capitale Kyiv e su altre città, uccidendo e ferendo centinaia di migliaia di civili. Ma è stato invano. Israele si ostinava a rifiutare, continuava a rimanere in disparte e temeva l’ira di Putin, nonostante la sua guarnigione in Siria fosse stata notevolmente ridotta. Quando Netanyahu si rivolse a Zelenskyy chiedendo il suo aiuto per garantire la sicurezza degli israeliani – discepoli del rabbino Nahman di Bratslav – che si recano in pellegrinaggio alla tomba del rabbino nella città ucraina di Uman, il presidente ucraino gli rispose con rabbia: “E che dire dell’Iron Dome che vi stiamo chiedendo?”».

 

 

D’altronde Zelensky, che pure è ebreo, non ha mai avuto il piacere di un invito a Gerusalemme. Al Parlamento israeliano intervenne giusto con un video collegamento, un mese dopo l’invasione russa, ma neanche quella volta, ricorda ancora Mieli, gli andò bene: «Nel corso di quell’allocuzione il presidente ex attore aveva in qualche modo paragonato alla Shoah gli effetti dell’invasione russa del 24 febbraio 2022. I vertici dello Yad Vashem definirono tale comparazione “oltraggiosa”. E tra i due Paesi scese il gelo».

 

 

Melman racconta poi che «anche quando si è scoperto che la Russia era diventata un alleato strategico dell’Iran, Israele non ha cambiato atteggiamento». L’Ucraina mandò a Tel Aviv droni Shahed iraniani, di quelli forniti alla Russia (a migliaia) da Teheran. Il che aiutò gli israeliani «a conoscere e comprendere meglio le capacità tecnologiche dell’Iran, permettendo loro di trarre conclusioni sulle aree vicine al confine di Israele con il Libano e la Siria, da cui Hezbollah lancia armi simili». Gli ucraini si aspettavano riconoscenza, ma ottennero solo qualche aiuto dal Mossad. «Troppo poco, e tardi».

 

 

Ma la parte più importante dell’analisi dell’esperto israeliano è quella che oggi è superata dagli avvenimenti. Va letta attentamente:

 

 

«È importante che Israele capisca che il sostegno dell’Occidente all’Ucraina non deriva solo dall’interesse strategico di proteggere l’Europa dal pericolo che Putin continui la sua aggressione contro gli Stati baltici e la Polonia. È anche motivato da sentimenti di solidarietà e valori condivisi. E questa è la lezione più importante che Israele dovrebbe imparare dalla guerra in Ucraina: un Paese che combatte per la propria libertà, che conduce una guerra giusta e che opera secondo valori democratici ed etici, un Paese che è disposto a scendere a compromessi e ad ascoltare gli altri quando è necessario, e che è anche rispettoso dei propri vicini e non si limita a comportarsi in modo moralistico e a sostenere di essere una vittima, otterrà l’empatia e l’assistenza degli Stati Uniti e delle democrazie occidentali».

 

Manifesti elettorali israeliani del 2019: c’è scritto «Netanyahu nel suo campionato»

 

Sono parole rivelatrici, proprio ora che il ritorno di Trump ne ha fatto carta straccia. Per Netanyahu, il Trump-bis è la tempesta perfetta, l’allineamento siderale che sognava: non deve più neanche fingere che ci sia un parallelo tra la guerra di Israele – che è stata giusta dopo il 7 ottobre ma inaccettabile nelle forme e nelle conseguenze – e quella dell’Ucraina. I «valori democratici ed etici» si confermano ai suoi occhi, più che mai, vaccate propagandistiche nemmeno più necessarie. Con Trump e Putin, il premier israeliano è tornato a giocare «nel suo campionato», come recitava lo slogan delle gigantografie che campeggiavano sui palazzi nelle campagne elettorali israeliane di fine anni 10, quelle in cui stringeva la mano agli amici Donald e Wlad. Amici con cui ha interessi elettorali comuni – i cristiani evangelici che osannano Trump e sono «turbosionisti», i 700 mila elettori russofoni di Israele che sono iperdestrorsi e iperputiniani, ipernazionalisti in termini sia russi sia israeliani – e affinità culturali e «valoriali» profonde: l’avversione per l’Islam, l’interesse a rappresentarlo interamente come una minaccia e a identificarlo con il terrorismo; la tendenza a fare tabula rasa dei controlli democratici interni, a demoinizzare le opposizioni e la stampa libera, a mettere sotto controllo il sistema giudiziariol’odio per qualsiasi tipo di sinistra, da quella «woke» così adatta ad aizzare il voto reazionario a quella che semplicemente frena gli impeti sciovinisti. Sono tre della stessa pasta, tre che vogliono le stesse cose, e ora si trovano nella situazione ideale: ognuno caverà vantaggi territoriali dalle guerre in corso, e Wlad è ben felice di vedere Donald prendersi i minerali preziosi di Kiev mentre lui si pappa come minimo un quarto dell’Ucraina, mentre Bibi è incantato dall’idea che Donald gli risolva la grana di Gaza con la pulizia etnica dei palestinesi mentre lui si appresta a fare della Cisgiordania la nuova Gaza, e a prendersela tutta.
Quindi è del tutto fuorviante dire che l’Israele di Benjamin Netanyahu si schiera con Putin e Trump per paura e necessità: lo fa anzitutto per totale sintonia sul piano degli interessi e degli obiettivi.

 

 

Resta quindi l’ultima verità dolorosa: il parallelo corretto è quello tra ucraini e palestinesi, gli sconfitti di questa era. Due popoli alle prese con un nemico che ne contesta la stessa esistenza in quanto nazione e soggetto di diritti, e che intende prendersi tutta la terra contesa. Due popoli le cui fazioni peggiori, Hamas soprattutto ma anche Azov, hanno commesso crimini imperdonabili ma che non smarriscono per questo la giustezza di fondo della loro causa. Perché tutti, israeliani, ucraini e palestinesi, hanno diritto a vivere in pace in un proprio Stato e in confini sicuri. E l’errore è porsi nei loro confronti con sguardo strabico, indignarsi in modo intermittente, considerare alcuni di loro più umani e meritevoli degli altri. Non difenderli tutti e tre.

 

 

Intanto Trump sta distruggendo Zelensky nello Studio ovale. Il deportatore di massa di Gaza e il predatore di risorse ucraine ha una loro coerenza. Wlad e Bibi applaudono.

 

Rassegna internazionale
Europa, fra utopia e proposte
editorialista
Massimo Nava

La velocità dei cambiamenti provocati dalle mosse, dalle parole e dalle spacconate di Donald Trump confligge drammaticamente con la lentezza delle risposte che l‘Europa e i singoli governi in ordine sparso stanno cercando. Fra annunci di aumento della spesa militare, propositi di invio di truppe in Ucraina e ritorsioni economiche per difendersi dalla nuova dottrina di Washington, l‘impressione è quella di una navigazione a vista, con un occhio ai problemi elettorali e politici di casa propria e un‘oggettiva difficoltà di coordinare un piano, un progetto, un‘idea guida per le sfide del presente e del domani.

 

Come ha detto in una lunga intervista l’ex presidente francese François Hollande: «Bisogna dire la verità: Trump ci infliggerà un serio rallentamento della crescita. Se ci saranno più dazi doganali e più protezionismo, ci saranno più disoccupazione e inflazione. E Trump ci costringerà a sforzi di bilancio ancora maggiori per finanziare la nostra sicurezza. Ma piuttosto che di sacrificio, preferisco parlare della nostra futura indipendenza e della nostra democrazia. L’offensiva di Trump non è solo commerciale e mercantile, è anche ideologica e imperiale. Sono in gioco la salvaguardia dei nostri valori, lo Stato di diritto, la democrazia».

 

 

Stiamo vivendo un momento buio che ricorda pagine dei grandi scrittori austriaci del secolo scorso – Robert Musil e Stephan Zweig – straordinari interpreti del declino del Continente lacerato dalla guerra e dal nazismo e di quella collettiva nostalgia di valori e qualità che gli europei non furono in grado di difendere e, al contrario, contribuirono ad annullare.
Musil, nel suo «Uomo senza qualità» descrive la Cacania, luogo immaginario, ma con implicito riferimento a uno «Stato incompreso, che ormai non esiste più e che in tante cose fu un modello ingiustamente sottovalutato…..Non si ambiva al dominio del mondo, né dal punto di vista economico né da quello politico; si era al centro dell’Europa, dove si intersecano gli antichi assi del mondo…E l’amministrazione di questo paese, illuminata, discreta, volta a smussare prudentemente tutti gli spigoli, era nelle mani della migliore burocrazia d’Europa….Capitava che un genio passasse per uno sciocco, ma a differenza di quel che capitava dalle altre parti, non succedeva mai che uno sciocco passasse per un genio».

 

 

Alla luce della nuova ondata di nazionalismi che spazza l’Europa, la voce di Zweig suona ancora oggi da monito: «Il grande monumento dell’unità spirituale d’Europa è andato in rovina, i costruttori si sono smarriti, esistono ancora i suoi merli, ancora si ergono sopra il mondo confuso i suoi codici invisibili, tuttavia senza lo sforzo comune, manutentore e perseverante, essa cadrà nell’oblio». Ne «Il mondo di ieri» racconta come l’Europa abbia sconfitto la ragione lasciando trionfare la brutalità selvaggia: «La vera patria che il mio cuore si era eletto, l’Europa, è perduta».

 

 

Eppure ci sarebbe ancora spazio e tempo per uno slancio vitale, per un sussulto di idee – basti citare la recente pubblicazione del rapporto Draghi sulla competitività, citato da molti, letto da pochi – se soltanto la coscienza del pericolo si traducesse in volontà politica che, nell’emergenza attuale, dovrebbe unire le forze migliori e trapassare logiche di partito e interessi nazionali. Basterebbe ricordare la visione di Charles de Gaulle che concepiva l’Europa dall’Atlantico agli Urali, libera, democratica, ma autonoma dagli Stati Uniti. O rievocare le strette di mano dei cancellieri tedeschi e dei presidenti francesi nei momenti storicamente più decisivi della storia europea. O rivalutare quel sussulto di orgoglio e intelligenza politica con cui Jacques Chirac e Gerard Schroeder si opposero alla guerra americana in Iraq, scatenata – è bene ricordarlo oggi – sulla base di una colossale bugia, il possesso di armi di distruzione di massa denunciato all’Onu dal segretario di Stato Colin Powell. Bugia che fa impallidire quelle di Trump.

 

 

Come dimenticare oggi le parole pronunciate allora dal ministro degli Esteri francese, Dominique de Villepin: «In questo tempio delle Nazioni Unite, siamo i custodi di un ideale, siamo i custodi di una coscienza. La pesante responsabilità e l’immensa onore devono portarci a dare priorità al disarmo nella pace. E ve lo dice oggi la Francia, un vecchio Paese di un vecchio continente come il mio, l’Europa, che ha conosciuto guerre, occupazioni, barbarie. Un paese che non dimentica e che sa tutto ciò di cui è debitore ai combattenti per la libertà venuti dall’America e da altre parti. E che tuttavia non ha mai smesso di tenere testa alla Storia e agli uomini. Fedele ai suoi valori, vuole agire con determinazione insieme a tutti i membri della comunità internazionale. La Francia crede nella capacità di costruire insieme un mondo migliore».

 

 

E infine rifarsi alla lezione di un grande europeo, quel Tommaso Moro secondo il quale l’Utopia non è altro che la forza e la virtù di coloro che non cedono alle difficoltà del tempo e continuare a immaginare il progresso della comunità.
Al di là delle suggestioni letterarie, è il momento di discutere proposte e idee che tengano insieme valori e ideali dell’Europa con interessi vitali e bisogni delle società europee. La difesa europea è sicuramente una priorità, ma come molti esperti hanno sottolineato in questi giorni, non si tratta soltanto di aumentare la spesa dei singoli Stati, bensì di coordinare le industrie, i comandi, i criteri organizzativi, gli appalti, le forniture, anche per costruire una forte autonomia dal mercato americano. E di mettere il bavaglio alle lobby e alle pressioni dell’apparato militare.

 

 

In secondo luogo, è un’evidenza che l’aumento delle spese militari non può andare a discapito della spesa sociale, degli investimenti nella cultura, nell’istruzione, nella ricerca, nella sanità. Una deriva del genere porterebbe inevitabilmente a una crescita esponenziale dei movimenti populisti e delle estreme, mettendo a rischio la governabilità di tutto il Continente affondando definitivamente il modello europeo. Stati Uniti, Russia e Cina non aspettano altro.

 

 

L’equazione spesa militare/spesa sociale comporta quindi una radicale revisione del patto di stabilità e una coraggiosa iniezione di capitali, sul modello degli interventi per la pandemia e del « bazooka » messo in campo da Mario Draghi al tempo della sua presidenza della Bce.

 

 

Ci sono infine due potenti opzioni che l’Europa dovrebbe valutare nel suo insieme. Gran Bretagna e Francia dispongono dell’arma atomica e occupano due seggi su cinque al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sono carte non trascurabili per far pesare la voce del Vecchio Continente nel momento in cui Russia, Stati Uniti e Cina vorrebbero tenerlo nell’angolo, forse smembrarlo e comunque condannarlo alla marginalità nel grande gioco geopolitico.

 

 

Ci sarebbe infine l’arma letale, quella che potrebbe suggerire alla Casa Bianca qualche correzione di rotta su dazi e «vendette» finanziarie: aumentare il più possibili le transazioni internazionali in euro, farne sempre più una moneta di scambio e riferimento, in particolare nei rapporti con le monarchie petrolifere, i Paesi africani e asiatici. Inoltre si potrebbe imporre una tassa sugli investimenti finanziari all’esterno della Ue, dato che alcune centinaia di miliardi di euro finiscono ogni anni nei fondi americani.

 

 

Immaginiamo la portata di una svolta del genere se ad essa seguisse anche un riavvicinamento alla Russia dopo il raggiungimento di una pace giusta in Ucraina. La bolletta del gas e del petrolio tornerebbe a valori pre-guerra. Sarebbe come versare acqua gelata sul fuoco dei populismi e forse tornare a sognare la «Cacania» europea.

 

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Daniele Piccini

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