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giovedì 06 marzo 2025
Riarmo europeo, il governo è diviso
Riarmo europeo, il governo frena
editorialista
di   Alessandro trocino

 

Buongiorno,

 

 

Da una parte gli Stati Uniti di Donald Trump, che si produce in un interminabile show incontrastato al Congresso. Dall’altra l’Europa, che con il Consiglio europeo straordinario di oggi prova a ritrovare compattezza. Due mondi prima vicinissimi e alleati e ora sempre più distanti.

Il vertice di Bruxelles è stato convocato proprio per dare una risposta alle mosse di Trump sull’Ucraina, allo stop all’invio di armi a Kiev e al piano della presidente della commissione Ursula von der Leyen, che prevede un riarmo europeo da 800 miliardi. I dettagli si sapranno oggi, ma sembra chiara la direzione verso cui sta andando l’Europa, con mille difficoltà e ostacoli: cioè il sostegno anche militare all’Ucraina e in prospettiva il riarmo continentale, anche se non è ancora chiaro in che forma.

E l’Italia? Giorgia Meloni resta ancora cauta, in quella situazione di equilibrio, e un po’ anche di equilibrismo, che vorrebbe tenere insieme l’appartenenza europea ma anche il legame con Donald Trump, con il quale ha un rapporto privilegiato. Dietro di lei, intanto, si allarga la spaccatura politica interna al governo, con una Forza Italia più propensa all’idea di un riarmo e di un passo in avanti dell’Europa e una Lega sempre più allineata al trumpismo e quindi contraria alla spinta della Francia di Emmanuel Macron e al piano di Ursula von der Leyen.

Le domande di questi giorni sono sempre più inquietanti e di difficile risposta.

– La Russia è una minaccia reale per l’Europa?
– Gli Stati Uniti hanno abbandonato definitivamente il nostro Continente oppure la posizione di Trump è temporanea e tattica?
– I Paesi europei devono aumentare le spese per gli armamenti come richiesto dalla Nato (e da Trump) oppure devono cominciare a mettere in piedi un esercito, un’industria militare comune?
– E prima non devono cambiare passo, cercando un’unità anche politica, abolendo la regola dell’unanimità?
– Può farlo questa Europa, oppure devono essere alcuni Paesi più forti e volenterosi a portarsi avanti?
– L’Ucraina va difesa senza e senza ma oppure è possibile e opportuno un compromesso, che comporterà inevitabilmente una cessione di territori?

Domande che saranno sempre più incalzanti nelle prossime settimane e alle quali certo non riusciremo qui a dare una risposta. Ma proviamo intanto a fare un punto della situazione attuale, con le forze in campo, gli schieramenti e le mosse dei Paesi e dei partiti.

Cominciamo, dunque: oggi è giovedì 6 marzo e questa è la Prima Ora del Corriere della Sera.

Qui America

Un’ora e quaranta di discorso al Congresso, nel quale – a 43 giorni dall’incoronazione a presidente, Donald Trump ha detto che «America is back» (lo stesso slogan usato da Joe Biden contro di lui nel 2020), e ha parlato di Ucraina, dazi, immigrazione, gender, tirannia woke, Groenlandia, Panama, uova e del «fallimento» di Biden.

  • La guerra Trump ha detto di aver ricevuto da Zelensky una lettera in cui si dice pronto a negoziare per la pace. Si torna a trattare per l’accordo sui minerali saltato dopo lo scontro nello Studio Ovale. Trump ha ripetuto che sta lavorando «instancabilmente» per porre fine al «selvaggio conflitto in Ucraina» e ha affermato che mentre gli Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari per appoggiarne la difesa, «l’Europa ha tristemente speso più soldi comprando il petrolio e gas russo di quanti ne abbia spesi per difendere l’Ucraina». Sull’Ucraina, in realtà, gli Stati Uniti hanno messo a segno un doppio colpo: hanno sospeso gli aiuti militari e ora è arrivato anche lo stop alla condivisione di dati di intelligence con Kiev annunciato dal capo della Cia John Ratcliffe. Un’ulteriore pressione per costringere l’Ucraina a un negoziato senza precondizioni.

  • L’economia Trump ha detto di voler «salvare la nostra economia e fornire sollievo immediato alle famiglie che lavorano». Ha dato la colpa al suo predecessore per «la catastrofe economica e l’incubo dell’inflazione». Ha aggiunto che «Joe Biden ha lasciato che il prezzo delle uova andasse fuori controllo». Ma ha riconosciuto che i dazi possono avere alcune ripercussioni: ha chiesto agli americani di portare pazienza se «saranno necessari degli aggiustamenti».

  • Immigrazione Sull’immigrazione, ha chiesto al Congresso di approvare i fondi per portare a termine «la più grande operazione di espulsione nella storia americana».

  • Fact checking Come spesso accade, molte delle cose dette da Trump erano fattualmente false o esagerate o fuori contesto. Per questo è molto utile dare un’occhiata al fact checking di Alessandra Muglia.

  • L’opposizione dem I democratici sono restati seduti in silenzio, sollevando cartelli che dicevano «falso». Un deputato texano, Al Green, lo ha interrotto più volte affermando che «non ha il mandato» per tagliare Medicaid (l’assistenza sanitaria per poveri e disabili) ed è stato espulso. Tutto sommato, una prova opaca di un’opposizione che è sembrata confusa e non all’altezza della situazione eccezionale, come ha rilevato anche The Atlantic.

  • La Corte suprema contro Trump L’amministrazione Trump ha in gran parte smantellato il lavoro dell’agenzia per lo sviluppo internazionale Usaid, con gravi conseguenze a cascata per molte organizzazioni internazionali di volontariato. Il suo quartier generale è stato chiuso, il nome rimosso dall’edificio e quasi tutto lo staff in congedo retribuito. Ma ieri la Corte suprema ha rifiutato di sospendere la decisione di un tribunale federale che richiedeva che il governo, che ha congelato gli aiuti all’estero, paghi comunque quasi 2 miliardi per il lavoro che i dipendenti hanno già svolto. La Corte suprema si è spaccata: 5 contro 4.

Qui Europa

  • L’appello di Macron ai francesi Emmanuel Macron si è rivolto alla nazione con un messaggio di 15 minuti dai toni solenni. Un appello per sostenere la patria, un richiamo alla «forza d’animo della nazione». Che introduce una mossa concreta: l’annuncio che la settimana prossima a Parigi si riuniranno «i Capi di stato maggiore dei Paesi che desiderano assumersi le proprie responsabilità» e cioè mandare truppe europee in Ucraina. Non ora, non sul fronte, ma «una volta firmato il trattato di pace per garantirne la piena attuazione». Macron ha aggiunto che «siamo entrati in una nuova era» e che «la Russia è una minaccia per la Francia e per l’Europa: chi può pensare che la Russia di oggi si fermerà all’Ucraina? Di fronte a questo mondo di pericoli, rimanere spettatori sarebbe una follia». Macron annuncia un aumento delle spese militari, ma «senza aumentare le tasse». Poi una postilla importante: la Francia possiede una «forza di deterrenza nucleare», ed è pronta a discutere con gli europei sul modo di mettere questa protezione nucleare a disposizione degli altri Paesi.

  • La posizione di Meloni La linea ufficiale dell’Italia sarà esposta solo oggi da Giorgia Meloni. Ma la posizione nota è quella di un sì allo scorporo delle spese militari dal Patto di Stabilità e quindi di una valutazione positiva del piano von Der Leyen. Marco Galluzzo rivela che Meloni ha chiesto una scheda e proiezioni al Mef sui vari scenari di un’accelerazione sulle spese militari. Le cifre – scrive – «dicono che Roma potrebbe arrivare ad avere risorse fresche sino a 50 miliardi di euro, nei prossimi mesi, per una serie di investimenti produttivi molto ampi, dalla ricostituzione degli stock di armi prosciugati dagli aiuti all’Ucraina all’acquisto diretto sul mercato di capacità militari che possono essere girate a Kiev, sino all’opzione di rafforzare il nostro sistema di difesa, con la possibilità di progettare consorzi industriali (con almeno altri due Stati europei) per colmare i gap strategici (in termini di intelligence, sorveglianza aerea, logistica, artiglieria e mezzi terrestri e marini) che il nostro esercito ha accumulato negli anni. Restano però al momento dei dubbi sui perimetri, sulla cornice finanziaria e sugli obiettivi reali consentiti da Bruxelles». La cautela di Meloni si spiega non solo politicamente ma anche con rilievi economici. Scrive Galluzzo dei dubbi della premier: «Trattandosi di prestiti, capacità finanziarie che andranno comunque restituite per non gravare sul debito pubblico italiano, in quanti anni il piano di rientro sarà definito? Cosa possiamo fare con tutto questo denaro? Cosa possiamo comprare? Il via libera di Bruxelles riguarda quali spese? Sembra che si tratti solo di investimenti produttivi, dunque per creare valore, acquistare armi o colmare dei gap industriali è un conto, ma pagare gli stipendi per farlo potrebbe essere escluso».

  • La Lega dice no Ieri hanno parlato sia il leader di Forza Italia sia quello della Lega, con posizioni opposte, come ormai capita spesso. Matteo Salvini, parlando alla riunione dei gruppi, è stato netto: «Credo che nessuno si aspettasse 800 miliardi di investimenti militari. Fino all’altro giorno non si poteva investire un euro in più per la sanità e per le pensioni, ora invece si può fare senza indebitarsi? Una scelta sbagliata a partire dal nome: riarmo». Salvini dice no anche anche alla difesa europea: «Francia e Germania ci avrebbero portato in guerra». Ma interviene anche Giancarlo Giorgetti, che frena: gli aiuti all’Ucraina non sono in discussione, ma «altra cosa è la difesa e sicurezza europea che implica un programma ragionato meditato di investimenti in infrastrutture militari che abbiano un senso, e non fatto in fretta e furia senza una logica. Ricordo che per comprare un drone o un missile supersonico, non si va al supermercato, ci vogliono investimenti pluriennali

    ».

 

 

  • Tajani con Zelensky e De Gasperi Antonio Tajani, leader degli azzurri, replica indirettamente: «Noi siamo a favore dell’unità dell’Ue, che deve lavorare per l’unità dell’Occidente. Le tifoserie servono a poco». Questa è la linea di Forza Italia, ma non solo. Perché «la linea in politica estera è quella che traccia il presidente del Consiglio con il ministro degli Esteri». Sottinteso: la linea la tracciamo noi, io e Meloni, non il ministro dei Trasporti, Salvini. Tajani lo definisce «piano di sicurezza» e ricorda che la difesa comune europea era «il sogno di De Gasperi e di Berlusconi». Poi avverte: «Io sono convintamente europeista e se questo fosse un governo anti-europeo non ne farei parte».

  • Schlein vicina a Conte, Pd diviso La linea scelta da Elly Schlein, che si è avvicinata a quella di Giuseppe Conte pur senza combaciare, si discosta da quella degli altri partiti progressisti europei. Anche per questo oggi la segretaria incontrerà a Bruxelles gli esponenti dell’eurogruppo S&D, che sostiene il piano di riarmo come «un punto di partenza». La segretaria dice che «all’Unione europea serve la difesa comune, non il riarmo nazionale». La posizione critica di Schlein non piace ad alcuni nel partito. Come Paolo Gentiloni, che apprezza il piano von Der Leyen: «Può essere migliorato, ma è un segnale nella direzione giusta». Conte, che spara contro «la furia bellicista» (non quella di Putin), ne approfitta per fare quello che fa da mesi, cioè attaccare il Pd: «Si mettessero d’accordo. Comunque, non permetteremo che il governo spenda 30 miliardi in più in armi». Con Schlein sono Andrea Orlando e anche Dario Franceschini, che dice: «Condivido Schlein, il piano di von der Leyen va profondamente rivisto».

Mattarella contro i dazi

Il capo dello Stato vorrebbe «un ordine internazionale basato sulle regole, libero, aperto, inclusivo, pacifico. Con norme certe, applicabili a tutti i Paesi, a prescindere da ogni considerazione di potenza economica o militare. Queste norme certe, chiare, che valgano per tutti, costituiscono l’unico possibile presidio per la stabilità mondiale». Sono cose che dice da tempo – scrive Marzio Breda – «ma, ripetute adesso, suonano come la proposta di un antidoto, data la crisi del multilateralismo, la delegittimazione dei fori di confronto (come l’Onu) e l’incognita aperta dalle barriere tariffarie imposte da Trump». Mattarella – in visita a Tokyo – parla di mercati aperti, contesta i «protezionismi di ritorno» e spiega: «L’alternativa è tra cooperazione e pretese di dominio».

Magistrati-governo, dialogo tra sordi

A rigore, è una di quelle notizie che non è una notizia. Gli esponenti dell’Associazione nazionale magistrati hanno incontrato a Palazzo Chigi la premier Giorgia Meloni. Incontro che doveva servire a provare a ricucire dopo lo scontro nato dalla riforma della giustizia (separazione delle carriere) e conseguente sciopero delle toghe. Risultato: ognuno sulle sue posizioni. Nessun passo avanti. Anzi, «un dialogo tra sordi», come lo definisce Giovanni Bianconi. L’unico risultato, potrebbe dirsi, il fatto che l’Anm sia riuscita a mantenere un’unità, e non era scontato.

Un indagato per corruzione e il Salva Milano naufraga

La notizia rischia di essere un pericoloso salto di qualità. Già, perché finora la polemica sui grattacieli di Milano, sulla speculazione edilizia, sullo strapotere degli immobiliaristi era tutta politica, con il sindaco Giuseppe Sala costretto in difesa, che chiedeva una copertura legislativa del pregresso, per evitare guai e la delegittimazione della sua attività. Ma ora esce la parola più insidiosacorruzioneFranco Oggioni, 68 anni, già direttore dello Sportello unico edilizio del Comune di Milano, poi pensionato, dal 2021 fino a due mesi fa vice della Commissione per il Paesaggio di Palazzo Marino, è ai domiciliari per ipotesi di «frode processuale e depistaggio», «corruzione» e «falso». Un altro componente della Commissione Paesaggio del Comune, l’architetto Emilio Marco Cerri, è indagato per «traffico di influenze», e bersaglio di una richiesta di misura interdittiva coi funzionari comunali Andrea Viaroli e Carla Barone per falso.

La vicenda è complicata, ma la sostanza è che c’è un intreccio incredibile di ruoli e responsabilità, la festa dei conflitti di interesse, e c’è un’attività sospetta di interlocuzione con la politica per influenzare e addirittura scrivere sotto dettatura il testo della legge «salva Milano», passato alla Camera e ora fermo in Senato. I politici in questione sono, peraltro, esponenti di destra: Tommaso Foti (Fdi), Maurizio Lupi (Noi moderati) e Alessandro Morelli (Lega). Loro dicono che si trattasse di «normale interlocuzione».

Il sindaco, che è di centrosinistra, dopo aver difeso a spada tratta il Salva Milano, minacciando fuoco e fulmini, e accusando il Pd (diviso, naturalmente), ora rinuncia a sostenere il disegno di legge congelato in Senato da un paio di mesi. «Gli elementi di novità, e purtroppo di maggiore gravità, descritti negli atti di accusa — scrive in una nota Palazzo Marino — inducono questa amministrazione a non sostenere più la necessità di proseguire nell’iter di approvazione della proposta di legge cosiddetta Salva Milano». Se il centrosinistra molla il Salva Milano, che farà la destra? Da una parte voleva mettere in difficoltà il Pd, dall’altra faceva il gioco dei costruttori. Li abbandonerà al loro destino? E la giunta? Probabile, a questo punto, un rimpasto, con l’addio dell’assessore alla Casa Guido Bardelli (che, intercettato, dice: «Dobbiamo far cadere questa giunta») e forse anche di altri.

Addio a Bruno Pizzul

Chi ha una certa età, ha impressa nel ricordo la sua inconfondibile voce che ora, scrive in uno splendido pezzo Giorgio Terruzzi, «risuona nella memoria come una musica struggente». Se n’è andato a 86 anni Bruno Pizzul, storico telecronista di calcio e della nazionale. Terruzzi: «Darsi importanza, mai e poi mai. Piuttosto, un’ironia, quel tocco che possiedono le persone incapaci di prendersi sul serio. Sì, un uomo buono, “l’uomo più buono del mondo” come diceva Beppe Viola con il quale condivise affetto e lavoro; stanze e corridoi della Rai a Milano».

Le opinioni

«La democrazia archiviata», di Carlo Verdelli.

«Mélenchon e la moralità alternata», di Stefano Montefiori.

«Scuola, l’occasione demografica», di Francesco Billari e Cecilia Tommasini.

«Quando i populisti erano democratici», di Aldo Cazzullo.

«È il debito basso a rilanciare Berlino», di Danilo Taino.

Da ascoltare

Nel podcast «Giorno per giorno», Paolo Salom parla dei lavori del Congresso del Popolo a Pechino, in cui il primo ministro Li Qiang ha promesso una maggiore apertura economica e commerciale al mondo. Luigi Ferrarella spiega l’operazione che ha portato all’arresto di un ex dirigente dell’Urbanistica del Comune di Milano. Aldo Grasso ricorda Bruno Pizzul, spiegando che cosa di lui è rimasto (e cosa no) nel racconto del calcio di oggi.

Il Caffè di Massimo Gramellini

«Elio sì, Elio no»

«”La musica di oggi non è peggiore di quella di prima: la musica di oggi non esiste”. Così parlò Elio delle Storie Tese, e nel leggere la sua intervista al Giorno mi sono sentito finalmente compreso (o vendicato?) da uno che di musica ne capisce molto più di me. Perché coi vecchi amici con cui ho bazzicato stadi e palazzetti al seguito dei vari Genesis, Bowie, Ramones, Dalla-De Gregori e Police si finisce spesso per manifestare sgomento di fronte ai testi impoetici e alle sonorità mollicce del Ventunesimo secolo. E per chiedersi, proprio come fa Elio, quale curiosa mutazione abbia prodotto una gioventù (vincitore di Sanremo compreso) che ai ruggiti lirici del rock preferisce i miagolii deprimenti dell’autotune.
Poi mi è venuto in mente che un analogo discorso di decadenza avrebbe potuto riguardare la letteratura, la pittura, il cinema, il calcio, il giornalismo… Per non sprofondare nella disperazione e trasformarmi in un autotune vivente, mi sono persuaso che, in fondo, ogni epoca ha l’arte che si merita e che più le corrisponde. Se oggi i cantanti non vogliono più spaccare il mondo è perché nessuno crede più di poterlo spaccare (forse perché è già spaccato di suo). L’unica certezza è che tra trent’anni Olly rilascerà un’intervista per lamentarsi di quanto sarà caduta in basso la musica rispetto a quand’era giovane lui, e i suoi coetanei gli daranno amaramente ragione. Penseranno di averla inventata loro, la “balorda nostalgia”, mentre i primi a soffrirne sono stati Adamo ed Eva».

 

Grazie per aver letto Prima Ora.

(in sottofondo «Fear is the mind killer», di Jesse Welles. La trovate nella nostra Playlist, aggiornata ogni venerdì con le nuove uscite di musica pop, rock e indie). 

Se volete scriverci questi sono i nostri indirizzi:

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mercoledì 05 marzo 2025
La stupidità dei dazi, boicottare Trump, il costo del riarmo, le vittime ideali, Hugh Grant horror
La stupidità dei dazi, boicottare Trump, il costo del riarmo, le vittime ideali
editorialista
di   Elena Tebano

 

Bentrovati. Nella Rassegna di oggi:

 

Boom o boomerang? Donald Trump continua a essere convinto che i dazi aiuteranno l’America a tornare grande («Una nuova età dell’oro»). Economisti ed editorialisti, continuano a essere convinti del contrario. Ma, al di là di chi abbia ragione, che fare di fronte a un presidente americano che si autoproclama Tariff Man? Ce ne parla Luca.

Boicottaggi antiamericani Le scelte del presidente americano Donald Trump, che in pochi giorni ha distrutto decenni di politica internazionale, hanno risvegliato forme di resistenza civile e democrazia diretta dall’Europa al Canada, all’America Latina. La prima, racconta Massimo Nava, sono i boicottaggi.

Il costo della difesa In Italia c’è un’«opposizione Ursula», uno schieramento trasversale che si oppone al piano di riarmo proposto dalla presidente della Commissione Ue. È fondamentale se si vuole una difesa europea, ma è un’ipocrisia, nota Ferruccio de Bortoli, pensare che maggiori investimenti negli armamenti non finiscano per avere un costo in termini di minori spese sociali.

La vittima ideale Nelle scorse settimane l’ex capo del calcio spagnolo Luis Rubiales è stato condannato per violenza sessuale per il bacio non consensuale dato alla giocatrice Jenni Hermoso. La pena è stata lieve (solo una multa), ma la sentenza spagnola è importante, perché aiuta a fare piazza pulita di molti luoghi comuni. Compresi quelli sulle vittime di violenza.

La Cinebussola In Heretic di Scott Beck e Bryan Woods, l’attore da commedia romantica Hugh Grant si dà all’horror. Ma, spiega Paolo Baldini, nonostante faccia del suo meglio, la regia e la sceneggiatura non lo aiutano neanche un po’.

Buona lettura!

Se vi va, scriveteci.

Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it
Luca Angelini langelini@rcs.it
Elena Tebano etebano@rcs.it
Alessandro Trocino atrocino@rcs.it

Rassegna economica

La «stupidità» dei dazi che Trump non vuole ammettere

editorialista

Luca Angelini

Da quando li ha definiti «i più stupidi della storia», il Wall Street Journal – che pure è il più conservatore e meno antitrumpiano dei grandi quotidiani statunitensi – non si stanca di tentare di convincere Donald Trump, a suon di articoli ed editoriali, del perché i dazi, in particolare quelli contro Canada e Messico, saranno controproducenti per l’economia statunitense e, soprattutto, per i consumatori americani. «Le tariffe sono tasse – si legge in un editoriale di questa mattina – e le ultime tariffe di Trump si stimano pari a un aumento delle tasse di circa 150 miliardi di dollari all’anno. Le tasse sono contro la crescita. Questo è il messaggio che gli investitori stanno inviando questa settimana, da quando Trump ha fatto entrare in vigore le tariffe del 25% contro Canada e Messico. (…) Le tasse alla frontiera, e l’incertezza che comportano, stanno pesando sulla crescita e sulla fiducia dei consumatori». Dopo numerosi esempi di effetti indesiderati e controproducenti alle porte (dal rincaro di elettricità, carburanti e fertilizzanti agricoli a quelli della birra più venduta negli Usa, messicana), il Journal conclude: «L’euforia tariffaria di Trump è il trionfo dell’ideologia sul buon senso. Speriamo che il Presidente torni presto in sé».

Il New York Times, da parte sua, ha provato a spiegare, con casi concreti, quanto sia difficile definire, ad esempio, cosa sia «un’auto importata»: una Toyota Rav4 importata dal Canada ha una gran parte dei componenti prodotti negli Stati Uniti, mentre in una Nissan Rogue assemblata negli Stati Uniti prevalgono quelli giapponesi (che, se colpiti dai dazi, faranno salire il prezzo). D’altra parte, come fa notare Sam Fiorani, vicepresidente della società di ricerca AutoForecast Solutions «i veicoli avrebbero prezzi ancora meno accessibili se tutte le parti fossero prodotte nello stesso Paese».

Sarà un caso, ma pochi minuti fa è arrivata, dalla portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt, la notizia che gli Stati Uniti fanno slittare di un mese i dazi sulle auto per Canada e Messico.

Su Avvenire prova a illustrare più o meno gli stessi concetti, in un editoriale, anche l’economista Leonardo Becchetti: «Viviamo in un mondo profondamente interdipendente, dove in ogni filiera si arriva al prodotto finito venduto ai consumatori dopo un gran numero di passaggi di frontiera di materie prime o semilavorati. Nel caso specifico la divisione del lavoro è tale che le auto americane sono assemblate in gran parte in Messico, mentre il petrolio americano è raffinato in Canada. I dazi americani danneggeranno pertanto gli stessi Stati Uniti, aumentando i prezzi di prodotti realizzati in filiere solo in parte modificabili e sostituibili. (…) Gli effetti dei dazi sono molteplici e complessi. Per prodotti di alta qualità consumati da fasce medio-alte di reddito (come formaggi e vini italiani) la domanda è piuttosto inelastica, e dunque i dazi si risolvono in aumento dei prezzi di prodotti che gli americani comunque compreranno, generando così tensioni inflazionistiche. Solo nel medio termine, se mantenuti in vigore, i dazi producono una ristrutturazione delle filiere. È il caso di quelli sulle auto cinesi. Ma come nel caso dell’analoga imposizione sulle vetture giapponesi negli anni Ottanta, in questo caso i dazi fanno nascere le “fabbriche cacciavite” in Europa, dove si assemblano le stesse auto cinesi per aggirare il pagamento. Un altro effetto di medio termine è la ricomposizione dei flussi commerciali, che rinforza le relazioni tra Paesi colpiti riducendo invece export e import del Paese che applica le tariffe. I dazi sono dunque un pessimo affare sia per chi li impone sia per chi li subisce: riducono gli scambi e fanno aumentare i prezzi dei prodotti».

 

 

L’Economist, in proposito, fa notare che «dato che l’aumento dei prezzi pesa sui consumi e sull’industria manifatturiera, i dazi, secondo gli analisti della banca Morgan Stanley, potrebbero togliere un punto percentuale al tasso di crescita dell’America. Le misure dell’incertezza riguardo la politica commerciale hanno anch’esse fatto segnare un’impennata, il che significa che le imprese potrebbero trattenersi dall’investire».

 

Visto però che, avvertimenti degli economisti o no, Trump è decisissimo ad andare avanti per la sua strada (in sintesi «se vendi i tuoi prodotti all’America ti metto i dazi, se invece vieni a produrli qui ti taglio le tasse», come ribadito più volte nel discorso davanti al Congresso), come si può reagire? Nell’intervista con Cesare Zapperi, il presidente della Regione Veneto (grande esportatrice verso gli Usa) Luca Zaia ha parlato dei dazi come di un «flagello», ma ha aggiunto: «Se [Trump] ipotizza dazi al 25% probabilmente il punto di caduta vero è un altro. Del resto, lo ha detto lui stesso alla Casa Bianca a Zelensky: “Non ho mai fatto un affare senza un compromesso”. Quindi, l’Europa, che con i suoi 450 milioni di abitanti rappresenta il mercato più florido al mondo per gli Stati Uniti, deve essere consapevole che ha le sue carte da giocare. A una condizione. Deve presentarsi unita di fronte a Trump. Non ha senso che i singoli capi di governo o di Stato si presentino da lui per condurre trattative singole. Nessuno da solo ha la forza di trattare da pari a pari».

 

Becchetti aggiunge qualche altro suggerimento: «I dazi di Trump possono e devono risolversi in prospettiva in un nulla di fatto se eviteremo l’approccio accondiscendente (pessima ad esempio l’idea di ipotizzare acquisti di gas liquido e armi solo per placare il partner americano) e adotteremo invece quello fermo come nel caso della risposta di Macron, che si allinea a quella di Trudeau. Esiste una terza strategia, quella cinese: rispondere con contro-dazi di entità molto inferiore per dissuadere gli Stati Uniti dal proseguire, cercando di mantenere un contesto di armonia e di buone relazioni (una risposta in stile Confuciano). L’appello canadese al “non comprare americano” è un esempio di come anche la società civile può dissuadere Trump dai suoi propositi» (ne parla qui sotto Massimo Nava).

 

Rassegna americana
Boicottare Trump, lezioni di democrazia
editorialista
Massimo Nava

 

C’è un altro modo di «riarmarsi». Ed è quello di  riscoprire il valore della resistenza civile, della mobilitazione popolare, del risveglio delle coscienze. In una parola, della democrazia partecipata. L’Europa potrà spendere per la difesa, ma se lo farà a discapito della spesa sociale indebolirà ancora di più il tessuto democratico e si consegnerà alle estreme destre e al populismo, suicidandosi. Un sussulto di resistenza alle manovre di Trump si sta già avvertendo proprio nei Paesi di più solida tradizione democratica, ma anche in tanti angoli del mondo. Improvvisamente, The Donald ha fatto riscoprire anche alle vecchie generazioni i movimenti pacifisti e l’«antiamericanismo» civile, non come posizione ideologica, ma come mobilitazione critica di un modello di società e di «iper-potenza» condizionante della vita del mondo. La scintilla è stata l’imposizione dei dazi, una misura che – come scrive il Wall Street Journal – si sta rivelando un boomerang anche per gli interessi americani.

 

 

In Danimarca, un gruppo Facebook intitolato «Boykot varer fra Usa» («Boicotta i prodotti degli Stati Uniti») ha superato in meno di un mese i 54.000 membri. In Svezia, una simile iniziativa ne conta 38.000. In rete, si comunicano i marchi di prodotti e servizi da evitare e le alternative: «Scegli [il ketchup austriaco] Felix invece di Heinz, Volvo invece di Tesla, Puma invece di Nike». Uno dei membri del gruppo svedese, l’imprenditore Niklas Liljendahl, è il capofila di coloro che hanno abbandonato il network X e disdetto l’ordine di una Tesla. Proprio l’auto di Elon Musk sta pagando un prezzo altissimo, con un calo esponenziale di vendite e di ordini in tutto il mondo. In Svezia sono diminuite del 43 per cento.

 

 

L’amministratore del gruppo Facebook danese, Bo Albertus, assicura di non bere più Pepsi e di aver cancellato l’iscrizione ad alcuni servizi di streaming. «Sto cercando di evitare di sostenere l’apparato produttivo nordamericano», spiega a TV2, canale danese. Anche se gli appelli al boicottaggio navigano sulle piattaforme di Meta.

 

 

Secondo un sondaggio, il 78% degli svedesi intervistati sta pensando di aderire alla campagna. Un’altra forma di boicottaggio sarebbe di colpire gli Stati Uniti come destinazione turistica. Secondo il direttore del sito di comparazione prezzi Travelmarket.dk, le ricerche relative a questo Paese sono diminuite del 30% tra il 20 gennaio (data dell’insediamento di Donald Trump) e il 20 febbraio. «Raramente si è visto un tale crollo, a meno che non ci sia una guerra o un attacco terroristico», osserva il sito Politiken.

 

 

Per quanto riguarda le aziende scandinave, una società norvegese che fornisce carburante, Haltbakk Bunkers, si è distinta rifiutandosi, dal 1° marzo, di rifornire le forze armate statunitensi presenti nel regno, così come le navi della Marina statunitense ormeggiate nei suoi porti, riferisce il sito della radiotelevisione pubblica NRK. L’azienda invita altre società a seguirne l’esempio, mostrando al contempo il sostegno all’Ucraina.

 

 

Il boicottaggio per motivi politici «non è una novità» in Svezia, ricorda Svenska Dagbladet. I suoi abitanti avevano già preso di mira in questo modo i prodotti sudafricani ai tempi dell’apartheid. Poi i vini, i formaggi e altre specialità francesi per denunciare la ripresa dei test nucleari nella Polinesia francese, decisa nel 1995 dal presidente Jacques Chirac.

 

 

La politica anti-immigrazione e l’espulsione dei lavoratori immigrati hanno innescato una campagna di boicottaggio dei più grandi marchi americani da parte della comunità latinoamericana. Denominata «Latino Freeze Movement», l’iniziativa prende di mira in primo luogo la Coca-Cola, ultra-popolare in America Latina. Il quotidiano Diario El Norte riferisce che si vogliono denunciare i finanziamenti concessi dal famoso marchio alla campagna di Trump. El Pais America ricorda che Coca-Cola ha versato quasi 250.000 dollari a questo scopo. Allo stesso tempo, riporta il media messicano NVI Noticias, diversi utenti di piattaforme come X e TikTok hanno esortato la popolazione latinoamericana a cambiare le proprie abitudini di consumo, privilegiando in particolare le marche messicane di bevande gassate come Jarritos, Boing o Red Cola. Oltre alla Coca-Cola, i latinoamericani hanno anche invitato a non consumare prodotti di altre marche americane come il gigante della grande distribuzione Walmart o il leader della ristorazione McDonald’s.

 

 

Gira in rete una toccante e coraggiosa la lettera che la presidente del Messico, Claudia Sheinbaum avrebbe inviato a Trump e Musk in seguito ai progetti di costruzione di muri alla frontiera con gli Stati Uniti. La lettera non è autentica, ma nello spirito della battagliera presidente messicana. Vale la pena di citarla lo stesso, anche per comprendere il possibile effetto boomerang delle misure proposte da Trump e come esempio del potenziale «democratico» della rete. «Bene, miei cari americani, anche se voi non capite molto di geografia, è importante che prima di mettere i primi mattoni sappiate cosa state lasciando fuori da questo muro. Fuori ci sono 7 miliardi di persone; ma visto che non vi suona molto questa cosa delle persone, li chiameremo consumatori. Ci sono 7 miliardi di consumatori disposti a sostituire l’iPhone con il Samsung o l’Huawei in meno di 42 ore. Inoltre possono sostituire le Levi ‘s con Zara o Massimo Duti. Tranquillamente, in meno di sei mesi, possiamo smettere di comprare veicoli Ford o Chevrolet e sostituirli con una Toyota, Kia, Mazda, Honda, Hyundai, Volvo, Subaru, Renault o Bmw, che tecnicamente superano di gran lunga le auto che producete. Questi 7 miliardi possono anche smettere di abbonarsi a Direct Tv e di guardare film di Hollywood e iniziare a guardare più produzioni latinoamericane o europee che hanno qualità, messaggi, tecniche cinematografiche e contenuti superiori. Anche se vi sembra incredibile, possiamo smettere di andare a Disney e andare al parco Xcaret a Cancún, Messico, Canada o Europa: ci sono altre destinazioni eccellenti in Sud America, Oriente e Europa. E che ci crediate o no, anche in Messico ci sono hamburger migliori di quelli di McDonald’s e con un contenuto nutrizionale migliore. Qualcuno ha visto delle piramidi negli Stati Uniti? In Egitto, Messico, Perù, Guatemala, Sudan e altri paesi ci sono piramidi con culture incredibili. Cercate dove sono le meraviglie del mondo antico e moderno… Nessuna è negli Stati Uniti… Che peccato per Trump, beh, l’avrebbe comprata e rivenduta! Sappiamo che esiste l’Adidas e non solo la Nike e possiamo iniziare a consumare scarpe da tennis messicane come i Panam. Sappiamo molto più di quanto crediate; sappiamo, per esempio, che se questi 7 miliardi di consumatori non comprano i vostri prodotti, ci sarà disoccupazione e la loro economia (all’interno del muro) crollerà al punto che ci pregheranno di abbatterlo. Cordialmente, Il resto del Mondo».

 

 

La presidente messicana recentemente ha dichiarato :  «Non c’è alcuna ragione, logica o giustificazione per appoggiare questa decisione che colpirà il nostro popolo e le nostre nazioni… Nessuno vince con questa decisioneNon è imponendo dazi doganali che troviamo soluzioni ai problemi, ma parlando e dialogando come abbiamo fatto in queste settimane con il Dipartimento di Stato per affrontare il fenomeno delle migrazioni; nel nostro caso, nel rispetto dei diritti umani». Sheinbaum punta il dito contro i produttori di armi degli Stati Uniti accusati di fare affari con «gruppi criminali» in Messico. «Messico Stati Uniti e Canada lottano contro la criminalità organizzata come tutti i paesi del mondo ma cosa dire delle fabbriche d’armi americane che foraggiano le gang criminali?». «Il Messico ha un senso patriottico, che deriva dalla nostra storia e dal sentimento civico di amore per la patria. Sta a me difenderlo prima di ogni altra cosa; la sovranità non è negoziabile».

 

 

Anche in Canada, i media riportano che si sta organizzando la risposta. Non appena ha avuto notizia delle minacce di Trump, la 67enne Sand Northrup, di Vancouver, ha lanciato un appello alla Cbs a boicottare i vini californiani per privilegiare i vini della British Columbia. L’agenzia di viaggi per golfisti Myrtle Beach Golf, nel South Carolina, ha dichiarato al Journal de Montréal di aver già perso decine di migliaia di dollari a causa delle cancellazioni dei soggiorni dei giocatori del Quebec per la prossima estate. «Non ho mai visto una solidarietà del genere. […] Se fossi al loro posto, farei lo stesso!» ha risposto il proprietario, Jean-Thomas Kobelt. Sono così tanti i canadesi che quest’anno hanno annullato i loro piani di viaggio negli Stati Uniti che la Us Travel Association prevede perdite per 2,1 miliardi di dollaririporta Forbes. Sembrano aver risposto in gran parte all’appello lanciato il 1° febbraio dal primo ministro Justin Trudeau di «scegliere il Canada», arrivando persino a boicottare servizi come Netflix e prodotti alimentari.

 

 

I media, come il National Post e il canale Global News, stanno dando consigli su come sostituire i prodotti americani con quelli canadesi. Un consumatore del New Brunswick, Jean-Claude Robichaud, ha stilato una lista di una quarantina di prodotti americani e dei loro equivalenti canadesi. «L’ho lanciata su Facebook», dice. La sua pagina è stata condivisa «più di 5.000 volte», riferisce l’emittente pubblica nazionale. Il direttore del laboratorio di scienze analitiche agroalimentari dell’Università Dalhousie, in Nuova Scozia, Sylvain Charlebois, sostiene che il boicottaggio incoraggia i clienti a informarsi meglio sulla provenienza degli alimenti. D’altra parte si temono conseguenze per l’occupazione, dato che diverse aziende americane fabbricano o producono parte dei loro beni sul suolo canadese. La deputata liberale Chrystia Freeland, in lizza per sostituire il primo ministro dimissionario Justin Trudeau, ha dichiarato: «Siamo feriti, questo è certo, perché siamo vostri amici e vicini, ma soprattutto siamo arrabbiati, uniti e determinati».

 

Frammenti
La differenza (che non c’è) tra riarmo e difesa comune
editorialista
Ferruccio de Bortoli

 

C’era una volta la maggioranza Ursula, che vide per esempio anche i Cinque Stelle votare per la prima Commissione guidata dalla tedesca von der Leyen. E oggi scopriamo che esiste anche un’opposizione Ursula. Uno schieramento trasversale nella politica italiana che rimette i Cinque Stelle accanto alla Lega (certi amori non finiscono mai) nel dire no al piano di riarmo presentato ieri dalla presidente della Commissione europea. Anche la segretaria del Pd, Elly Schlein, pur di non perdere consensi a sinistra, è su una posizione contraria che divide ancora il suo partito e i socialisti europei.

 

Suscita perplessità il fatto che parte dei fondi occorrenti siano presi dai fondi di coesione. In linea teorica si potrebbe essere d’accordo, ma è una grande ipocrisia pensare che maggiori investimenti nella difesa non finiscano per avere un costo in termini di minori spese sociali (l’alternativa classica tra burro e cannoni). La realtà piaccia o no è questa. E mettere la testa sotto la sabbia di un pacifismo di comodo, in maggioranza o all’opposizione, è dimostrazione di infantilismo politico e di scarsa consapevolezza di come sia cambiata la situazione geopolitica internazionale. Una difesa comune richiede necessariamente un riarmo. Non è la semplice sommatoria delle strutture esistenti. Non è una mera questione di sinergie.

 

Certo era più comodo, soprattutto nella seconda parte del Novecento, stare sotto l’ombrello Nato, salvo manifestare contro l’imperialismo Usa («yankee go home»). Enrico Berlinguer, in una celebre intervista a Giampaolo Pansa sul Corriere nel 1976, disse che si sentiva più sicuro, lui comunista, nel patto Atlantico. Oggi gli americani se ne vogliono andare veramente. E forse, anche tra chi li voleva mandare via allora, c’è una certa nostalgia. Ci si sente tutti più giovani. Lettura consigliata Scacco alla pace (Neri Pozza) dell’ambasciatore Maurizio Serra, accademico di Francia. Una rivisitazione (scritta in francese e tradotta in italiano, chissà perché?) di quello che accade nel 1938, anche e soprattutto per le tendenze isolazioniste americane.

 

Rassegna dei diritti
La «vittima ideale» e la lezione del processo Rubiales
editorialista
Elena Tebano

 

Come spesso succede, la condanna dell’ex capo del calcio spagnolo Luis Rubiales per violenza sessuale per il bacio non consensuale dato alla capocannoniera spagnola Jenni Hermoso ha fatto molto meno scalpore del bacio in sé, di cui all’epoca si era discusso (giustamente) per giorni. Eppure è una sentenza importante, perché aiuta a superare una serie di luoghi comuni sbagliati e ancora troppo diffusi su cos’è una violenza sessuale e su com’è una “brava” vittima.

 

 

La vicenda risale al 20 agosto 2023 quando durante la cerimonia di consegna delle medaglie d’oro alle giocatrici della Spagna che avevano appena vinto la finale della Coppa del Mondo contro l’Inghilterra, a Sydney, in Australia, Rubiales, 47 anni, afferrò la testa di Hermoso, 34, con entrambe le mani e la baciò repentinamente sulle labbra. Lui lo aveva definito un gesto «spontaneo», ma Jenni Hermoso disse da subito che era «inappropriato», «sessista» e soprattutto non consensuale e poi lo aveva denunciato. Il 20 febbraio l’Alta Corte spagnola le ha dato ragione. Il giudice ha scritto nella sua sentenza che baciare una donna sulla bocca «non è il modo normale di salutare persone con cui non si ha una relazione sentimentale», affermando che Rubiales ha violato la «libertà sessuale» di Hermoso senza il suo consenso.

 

 

La Procura aveva chiesto di condannare a due anni e mezzo Rubiales: un anno per violenza sessuale e 18 mesi per coercizione, con l’accusa che avesse fatto pressioni sulla giocatrice affinché cambiasse versione e ritirasse la sua denuncia. Il Tribunale Nazionale di San Fernando de Henares, vicino Madrid, lo ha condannato e multato per violenza sessuale ma lo ha assolto dall’accusa di coercizione, perché le pressioni fatte sulla giocatrice non bastano a configurare quel reato penale secondo la legge spagnola.

 

La multa che dovrà pagare è piuttosto bassa (diecimila euro) e Rubiales non andrà in carcere, ma gli è stato vietato di avvicinarsi a meno di 200 metri da Hermoso e di comunicare con lei per un periodo di un anno. Rubiales nel frattempo (e dopo molte resistenze) nel settembre 2023 si era dimesso dai vertici del calcio spagnolo ed è stato squalificato dalla Fifa per tre anni a partire dall’ottobre di quell’anno. È anche indagato in un’altra inchiesta penale per corruzione che riguarda un contratto per il trasferimento del Supercoppa di Spagna in Arabia Saudita.

 

Sia Hermoso che Rubiales hanno annunciato che faranno ricorso contro la sentenza (per motivi opposti). Poi, due giorni giorno dopo la fine del processo, Hermoso ha scritto sui social che la sentenza è un «importante precedente» per i diritti delle donne e per la società spagnola, «dove c’è ancora molto lavoro da fare». «Dobbiamo essere tutti grati a Jenni, perché ha preso un’iniziativa, in un momento molto difficile, per difendere i diritti e la libertà delle donne e per sottolineare che questa società, la nostra società spagnola, non ammette più alcun tipo di abuso, non ammette più alcun tipo di violenza sessuale» ha detto il ministro della Giustizia spagnolo Felix Bolanos, lodando il suo «coraggio».

 

 

«Una cosa è chiara: un bacio non consensuale è una violenza sessuale, punto», ha aggiunto il ministro Bolanos. A lungo però è stato tutt’altro che scontato.

 

 

Anche durante il processo l’avvocata di Rubiales, Olga Tubau, ha sostenuto che il suo comportamento era stato «inappropriato» ma non «criminale» e che era stato solo un’«espressione di gioia incontrollabile» (gli impulsi «incontrollabili» sono stati usati a lungo come giustificazione per le violenze sessuali degli uomini sulle donne). Secondo l’avvocata di Rubiales, inoltre, i video di Hermoso che festeggiava e beveva champagne con le sue compagne di squadra negli spogliatoi poco dopo il fatto dimostravano che la giocatrice non era turbata dal bacio.

 

 

È un aspetto importante di tutta la vicenda. The Athletic, il sito del New York Times dedicato allo sport, nota in un podcast appena uscito sul caso Rubiales, che Hermoso non era «una buona vittima», cioè una vittima ideale, in un processo per violenza. Le «vittime ideali» sono quelle che appaiono subito come tali: perché hanno ferite fisiche e psicologiche evidenti che “dimostrano” che la violenza c’è stata, o caratteristiche personali che “giustificano” il fatto che abbiano potuto subire quella violenza.

 

Jenni Hermoso non lo è: è una donna forte, oltetutto lesbica (Rubiales per sostenere che la sua non era una violenza è arrivato a dire che lui ed Hermoso hanno «gli stessi gusti»), e dopo il bacio non consensuale non si è subito ritirata a piangere in un angolo (anche se le compagne di squadra hanno testimoniato che a un certo punto era scossa e piangeva), ma ha comunque festeggiato la sua vittoria ai Mondiali. Il punto però è sempre lo stesso: le violenze sessuali non dipendono da com’è la vittima, ma da com’è l’aggressore.

 

Baciare una persona senza consenso (così come toccarla nelle parti intime) è una violenza e una molestia sul lavoro, anche se la vittima non ne esce segnata a vita. Se il capo della Federazione calcistica, durante la premiazione, avesse schiaffeggiato un calciatore, nessuno avrebbe messo in dubbio che quella era un’aggressione. Anche se il calciatore dopo avesse comunque festeggiato la sua vittoria. Ma nel caso delle molestie sessuali diamo per scontato che sono tali solo se la vittima ne esce distrutta. Non è così, come dimostra la sentenza del processo Rubiales. Questo non significa che l’ex capo del calcio spagnolo debba marcire in galera, ma è giusto che sia sanzionato. E che perda il suo posto: una persona che non sa che un bacio non consensuale è una violenza e una molestia sessuale sul lavoro non può dirigere la Federazione calcistica. È semplice. Ora la sentenza sul caso Rubiales lo mette nero su bianco.

 

La Cinebussola
Hugh Grant prestato all’horror
editorialista
Paolo baldini

S’addice all’horror saputello l’idea di unire ragione e fede per (tentare di) spiegare il mistero divino. Inevitabilmente, però, quell’idea porta in un labirinto di suggestioni / visioni / allucinazioni in cui il diavolo può mettere la coda e la vena pulp scatenarsi attraverso un baraccone di mostri, cadaveri ambulanti, sacrifici e satanismi. Con il suo Heretic, A24, casa produttrice a manetta di film orrifici, preferibilmente a basso costo, punta all’esoterico da mercato medioevale per raccontarci i dubbi del comune mortale travolto dagli orrori reali e dunque sempre più lontano dalla spiritualità, a qualunque credo si faccia riferimento.

Che poi a dare volto e movenze da gatto Silvestro al demonio sia un attore brillante, al massimo «da commedia dark» come Hugh Grant segnala che la frittata è fatta. Zero terrore, addio al core business dell’impresa, niente «luci corrusche». L’improbabile signor Reed, con le sue farneticazioni oltremondane, non fa paura: è solo un nerd invecchiato e delirante, con le chiavi dell’inferno in tasca. La partita viene così ridotta a un modello algebrico-matematico.

«La vera religione è il controllo», dice il signor Reed che pure ha una biblioteca poderosa e dovrebbe sapere di che cosa parla. Fatale è l’incontro con due missionarie mormoni, sorella Barnes (Sophie Thatcher, già nel cast di Companion) e sorella Paxton (Chloe East, apprezzata in The Fabelmans di Spielberg), impegnate a fare proseliti bussando di porta in porta. Le due girano in bicicletta con le loro dottrine, ignorate o bullizzate. Figuratevi il sollievo quando finalmente il signor Reed mostra interesse alla materia e le invita a casa, in un maniero perso nella brughiera, per prendere un tè, fare una chiacchierata e assaggiare una (malefica) crostata. L’uomo è un cortese manipolatore, non sembra malvagio. Parla bene e domina la situazione, fingendo di avere la moglie nell’altra stanza che lo aspetta. È di un’invadenza nascosta.

In apparenza, offre alle missionarie – già terrorizzate – tutte le libertà, ma di uscire dal castello circondato dalla nebbia e dalla neve non se ne parla. Il gatto gioca con le topoline ed è chiaro a questo punto che non ha buone intenzioni, anche se prima ci tiene a dimostrare le sue teorie. Filosofeggia, propone enigmi, fa test, cita leggende e antiche barbarie, parla del Monopoly e cita Creep dei Radiohead.

Qui s’innesca il più classico meccanismo horror che, visto il tema, potrebbe anche essere più sottile e raffinato. Invece, i registi Scott Beck e Bryan Woods si limitano a una gestione vintage dei trucchi, all’uso abnorme del grandangolo per sottolineare l’aspetto claustrofobico della storia, alla metafora ricorrente del bivio. La possibilità di scegliere il proprio destino per sorella Barnes e sorella Paxton è un’illusione. Qualsiasi siano le motivazioni di partenza, pazzoidi e serial killer per autodistruggersi preferiscono i non-luoghi bui e tempestosi.

Grant fa una fatica del diavolo (eh sì, proprio del diavolo) per tenere il calibro (e la credibilità) del mattoide: meriterebbe il massimo dei voti se intorno a lui la storia non si sgangherasse lasciandolo senza appoggi. Il suo psicopatico gentleman ha una dimensione teatrale, è tutto di testa, legato agli sguardi e ai gesti, più teneri che minacciosi. Le missionarie rese con bravura da Thatcher e East, sono sempre in primo piano: sudano, deglutiscono, si disperano, prigioniere di un incubo senza luce, senza uscita e, ahimè, senza tensione.

HERETIC di Scott Beck, Bryan Woods
(Usa, 2024, durata 111’, Eagle Pictures)

con Hugh Grant, Sophie Thatcher, Chloe East
Voto: 3+ su 5
Nelle sale

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