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martedì 11 marzo 2025
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Il Covid 5 anni dopo, quale Europa (e quale Pd), la purga dei militari trans, il capitale umano |
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di Alessandro trocino
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Andra tutto bene? L’11 marzo di 5 anni fa venne decretato in Italia il primo lockdown per il Covid. C’è chi dice che, 5 anni dopo, siamo più pronti ad affrontare una pandemia. Chi, invece, non ne è affatto convinto. Intanto, negli Stati Uniti un no vax è a capo della Sanità e, in Italia, si cancellano le multe a chi non si era vaccinato. Luca prova a fare il punto.
La chiamano Europa Che Europa scenderà in piazza il 15 marzo? Quella pacifica, fiera dei suoi valori e della sua democrazia, ma anche pronta a riarmarsi per difendersi, o quella pacifista, che predica il disarmo nonostante Putin (e nonostante Trump)? E che sta succedendo nel Pd su questo tema? Cerchiamo di fare chiarezza.
La purga dei militari trans Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump vuole bandire le persone trans dalle forze armate. Ci aveva già provato nel 2017, ricorda Elena, ma questa volta vuole licenziare anche chi è già in servizio. Come Bree Fram, colonnella della Us Space Force, che giura di rimanere finché non sarà «trascinata via».
Povertà educativa Perché la qualità del capitale umanonon è mai un’emergenza nazionale e non è mai ai primi posti delle agende politiche? Parte da qui il ragionamento di Ferruccio de Bortoli nell’ultimo dei suoi «Frammenti».
La Cinebussola Chi ricorda «La casa delle finestre che ridono»? È uno dei primi lavori di Pupi Avati che, ci racconta Paolo Baldini, torna alle sue origini horror con «L’orto americano», «girato in un inquietante e lattiginoso bianco e nero».
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Rassegna sanitaria |
A 5 anni dal Covid siamo più pronti contro le pandemie. O forse no |
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L’11 marzo del 2020, in Italia il governo decretava il primo lockdown. E, negli stessi giorni, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiarava il Covid-19 un’emergenza sanitaria globale. Ossia una pandemia. Cinque anni dopo, però, lamenta sul Guardian la giornalista scientifica Laura Spinney (autrice anche di un libro su come l’influenza «spagnola» del 1918 cambiò il mondo), «è il passeggero con la mascherina a risultare sospetto, nessuno si accorge che il distanziamento è ormai logoro e che la fiducia nei vaccini è crollata. Una narrazione diversa ha invaso le discussioni: non è stato il virus a rovinare le nostre vite, ma la risposta ad esso. Questa narrazione è sempre stata presente, ma per molto tempo è rimasta ai margini. Ora sta diventando quella dominante, spinta dai recenti successi dei suoi campioni politici che di solito gravitano nella destra populista».
Per conferma, basta leggere quel che scrive Silvana De Mari (no vax, radiata dall’Ordine dei medici di Torino nel giugno 2023) su La Verità: «L’11 marzo va ricordato per il sequestro, avvenuto 5 anni fa, di 60 milioni di cittadini italiani, bambini inclusi. Una solerte magistratura ha già dichiarato che non ci tocca nessun risarcimento». Segue lungo elenco di elogi di rimedi anti-Covid che test e ricerche scientifiche hanno dimostrato inefficaci (dall’idrossiclorochina al plasma autoimmune) e un altrettanto lungo elenco di supposti danni provocati dai vaccini. Nessun accenno, invece, alle multe condonate nel dicembre scorso a chi non si è vaccinato (qui la risposta di Aldo Cazzullo ad alcuni lettori).
Carlo Signorelli, ordinario di Igiene e sanità pubblica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, intervistato da Vito Salinaro di Avvenire, spiega: «I vaccini non sono acqua fresca: con miliardi di dosi effettuate nel mondo, e milioni in Italia, qualche problema lo hanno creato, come tutte le vaccinazioni, a fronte però di un risultato che è di straordinaria positività. Le affermazioni che screditano i vaccini nascono dalla mancata conoscenza o dall’incapacità di capire questi concetti». E anche da un’altra barriera, di tipo psicologico: «Noi, come rappresentanti del mondo della prevenzione, siamo un po’ frustrati rispetto al mondo della clinica. Perché mentre quest’ultimo lavora sul malato, e tendenzialmente il malato parte dall’idea di accettare tutto, in prevenzione lavoriamo sui sani che, stando bene, non accettano di buon grado screening, vaccini, terapie immunitarie. È molto più complicato. E questo è un peccato, perché restano a rischio di malattia persone che potrebbero essere protette».
Detto questo, sostenere che non siano stati fatti errori durante la pandemia (anche sulle restrizioni imposte): sarebbe ingenuo. «Secondo gli esperti – ammette Spinney – la risposta è stata tutt’altro che perfetta, ma i sostenitori della nuova narrazione hanno scelto il bersaglio sbagliato: la scienza. I vaccini a mRNA hanno evitato milioni di morti. La tecnologia per ottenere nuovi vaccini efficaci ha fatto passi da gigante. Le mascherine hanno funzionato. E come per tutte le pandemie della storia recente, le revisioni successive hanno dimostrato che il consiglio di agire tempestivamente e duramente con il contenimento era corretto. Gli scienziati hanno commesso degli errori? Certo, ma stavano lavorando in condizioni di grande incertezza. Sono stati anche spesso ignorati o contrastati dai politici a cui fornivano consulenza, così come da altre persone in posizioni di influenza, eppure non sono loro i cattivi di questa storia» (anche se non tutte le loro colpe sono giustificabili con la situazione di emergenza: qui un articolo di Zeynep Tufekci uscito su Internazionale).
Se si guarda agli Stati Uniti di oggi, dove l’immunologo Anthony Fauci, che aveva guidato la risposta alla pandemia, è diventato il nemico pubblico numero uno (minacciato di morte e protetto con una grazia preventiva da Joe Biden per tenerlo al riparo da possibili «vendette» legali) e un no vax come Robert Kennedy Jr è invece diventato – nonostante gli appelli contrari di schiere di premi Nobel – ministro della Salute, è difficile negare che l’attacco alla scienza va avanti come e peggio di prima. A nostro rischio e pericolo. Come ricorda Spinney, «un adolescente sopravvissuto all’influenza del 1918 poteva aspettarsi di non imbattersi mai più in una pandemia nella sua vita. È improbabile che lo stesso valga per gli adolescenti di oggi. La minaccia più imminente è probabilmente rappresentata dall’“influenza aviaria”, i ceppi di influenza A H5N1 che attualmente circolano nelle mucche e nel pollame. Non sono ancora diventati trasmissibili tra gli esseri umani e forse non lo diventeranno mai, ma si sono diffusi dagli animali all’uomo decine di volte in diversi continenti, causando malattie e almeno un decesso. Se uno di essi dovesse scatenare una pandemia, questa sarebbe almeno altrettanto letale del Covid-19, che si stima abbia causato fino ad oggi circa 27 milioni di morti in eccesso».
La buona notizia, secondo Signorelli, è che oggi siamo più pronti di cinque anni fa. Anche se, aggiunge subito, «la definizione di “pronto” è complicata. È vero che, in linea di massima, può essere delineato un evento pandemico ma è molto difficile prevederne i “dettagli”: il comportamento del microrganismo scatenante, le modalità di trasmissione, gli impatti. Tutti aspetti che avranno una definizione più adeguata e aggiornata nel nuovo Piano pandemico». Che, però, ancora non c’è. Il motivo? «Dovrebbe chiederlo al governo. Nel 2024 ne arrivò uno in stadio molto avanzato che, a un certo punto, per motivi politici, fu fermato per un anno. Adesso che la discussione è ripresa, la decisione definitiva è solo politica. Anche se una grossa novità già c’è. Rispetto al 2020, oggi tutte le Regioni e tutte le aziende sanitarie d’Italia hanno un piano pandemico. È un grande passo avanti. Ecco perché siamo più pronti di prima». Quanto al riesplodere di egoismi nazionali nel caso di una nuova pandemia, Signorelli dice: «Non temo egoismi nell’Ue. Semmai, con la nuova amministrazione Usa, quelli provenienti dall’altra parte dell’Atlantico. Ma per eventi di grande portata, ritrovarsi nell’Ue è solo un vantaggio».
Va detto che non tutti condividono l’ottimismo, pur temperato, di Signorelli. Lo pneumologo Sergio Harari ha scritto di recente sul Corriere, sempre a proposito dei cinque anni dallo scoppio della pandemia: «Ne siamo usciti migliori? Non si direbbe proprio e di certo non ne è uscito rafforzato, come tutti invece speravamo, il nostro Servizio sanitario nazionale. Sono in molti a credere che se domani fossimo improvvisamente investiti da una nuova pandemia la risposta sarebbe peggiore di allora, quando almeno si contò sulla forza d’animo dei sanitari uniti in uno sforzo corale». (Silvio Garattini, presidente e fondatore del «Mario Negri» è dello stesso parere)
Harari aggiungeva qualche suggerimento che tenesse conto degli errori fatti: «Nell’era della globalizzazione è indispensabile avere azioni coordinate tra gli Stati e in questo Oms e Unione Europea dovrebbero sviluppare un ruolo centrale (Trump, come noto, ha promesso di far uscire gli Usa dall’Oms, ndr); nel prossimo futuro sarebbe auspicabile avere un piano europeo di salute su temi comuni e trasversali alle diverse realtà. Non possiamo permetterci frammentazioni del sistema sanitario come quelle a cui abbiamo assistito nel nostro Paese, ogni regione ha la sua autonomia ma non è ragionevole che si attuino politiche di sanità pubblica diverse in regioni magari limitrofe, è indispensabile una unica regia nazionale. L’epidemiologia e il tracciamento sono fondamentali, la rete di sorveglianza epidemiologica e la medicina sul territorio vanno fortemente potenziate, durante la passata pandemia hanno rappresentato una forte debolezza e favorito la diffusione del virus. La gestione a domicilio dei pazienti grazie alle nuove tecnologie è possibile e può essere in alcuni casi molto utile. La trasparenza nell’informazione è fondamentale e può aiutare a orientare i comportamenti dei cittadini resi così partecipi e responsabili (chi avrebbe mai detto che gli italiani sarebbero stati così osservanti delle restrizioni imposte?). La relazione tra media e opinion leader deve essere ripensata, abbiamo assistito a troppi eccessi di gratuito narcisismo televisivo».
A proposito di informazione, Spinney sottolinea che, a volte, sono state sbagliate anche la parole, vedi «la disastrosa insistenza sul distanziamento sociale. È diventato un sinonimo del distanziamento fisico, che era essenziale, ma ha minato gli sforzi verso la coesione sociale, anch’essa vitale in una pandemia».
Un peccato quasi veniale, rispetto a quel che si è visto e si vede sul fronte opposto. Signorelli dice, un po’ sconsolato: «È un fenomeno del nostro tempo quello di assistere a negazionisti in tutti i settori. Penso a chi rinuncia alle trasfusioni, per esempio, e non per motivi religiosi. Non puoi convincerli. Ricordo due episodi dei decenni scorsi: la cosiddetta terapia “Di Bella” contro il cancro e il “metodo Stamina” per le malattie neurologiche, entrambi con affermazioni negazioniste rispetto ai dati scientifici. I due ministri della Salute dell’epoca, Rosy Bindi e Beatrice Lorenzin, dovettero intervenire al punto da ordinare sperimentazioni che avevano poco senso. Tutto per dirimere questioni in cui si inserirono addirittura dei magistrati che autorizzarono, in alcuni casi, l’accesso alla cura Di Bella. Oggi si parla di autismo legato alla vaccinazione da morbillo. Una cosa che non sta in piedi».
Ma alla quale continuano a credere fermamente il già citato Robert Kennedy Jr e lo stesso Trump (vedi il recente discorso davanti al Congresso). Secondo l’agenzia Reuters, i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) – ora guidati da Dave Weldon, anche lui in odore di anti vaccinismo – starebbero per avviare uno studio in proposito. Per carità, nessun muro contro la ricerca (anche se nella comunità scientifica l’inesistenza di legami fra vaccini e autismo è ormai abbondantemente data per dimostrata ). Ma, da un lato, come spiega Wilbur Chen, docente alla University of Maryland School of Medicine ed ex consulente dei Cdc, la stessa esistenza di uno studio di questo tipo, condotto dal governo federale, è di per sé sufficiente a sollevare dubbi sui vaccini da parte di alcuni cittadini («Manda il segnale che c’è qualcosa che vale la pena di indagare, il che significa che deve esserci qualche legame tra i vaccini e l’autismo»). Dall’altro lato, nota la Reuters, «la mossa arriva nel mezzo di una delle più grandi epidemie di morbillo che gli Stati Uniti hanno visto nell’ultimo decennio, con oltre 200 casi e due decessi in Texas e New Mexico. L’epidemia è stata alimentata dal calo dei tassi di vaccinazione in alcuni paesi dove i genitori sono stati falsamente convinti che tali iniezioni facciano più male che bene. Kennedy, prima di diventare ministro, ha a lungo seminato dubbi sulla sicurezza del vaccino MMR. E in una riunione di gabinetto la scorsa settimana, ha inizialmente minimizzato la notizia del decesso di un bambino texano, definendo tali epidemie come ordinarie e omettendo di menzionare il ruolo della vaccinazione nella prevenzione della malattia».
Difficile negare che anche in Italia, come ha scritto Ferruccio de Bortoli, «c’è stato un processo di rimozione collettiva che dovrebbe farci riflettere». In proposito, ricordava le parole di Alberto Mantovani, presidente della Fondazione Humanitas per la Ricerca, che a Repubblica ha segnalato il crollo della propensione a vaccinarsi aggiungendo: «Assistere al rifiorire di teorie antiscientifiche, come l’infondata correlazione tra vaccini e autismo, è sconfortante».
«Lasciare lo spazio della memoria ai no vax, platea corteggiata e blandita da diverse forze politiche – concludeva de Bortoli – non è il modo migliore di far crescere una cultura della vaccinazione». Che è invece utilissima oggi e lo sarà ancora di più domani. «Oggi una trentina di malattie è prevenibile con i vaccini, 20 anni fa erano la metà – ricorda Signorelli -. Sui vaccini ci sono forti investimenti delle aziende farmaceutiche. Essi nascono per proteggere dalla malattia infettiva, poi ci sono malattie infettive che causano malattie croniche. E allora ecco che il vaccino per il Papilloma virus protegge da 7 tumori, quello contro l’epatite protegge dal tumore del fegato, gli ultimissimi vaccini proteggono dal virus respiratorio sinciziale. Molti altri studi sono in corso su vaccini diretti a malattie non infettive, come quelle oncologiche».
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Rassegna politica |
L’Europa pacifica e quella pacifista, il Pd di trincea e di fiori nei cannoni |
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«Svuotare gli arsenali, riempire i granai» Sandro Pertini
«Qui o si fa l’Europa o si muore» Michele Serra
«Il 15 qualcuno porterà la bandiera della pace? Noi portiamo quella dell’Ucraina» Benedetto Della Vedova
Da una parte c’è la manifestazione «per l’Europa» lanciata da Michele Serra per il 15 marzo, che si sta sfarinando in una ridda di obiezioni e distinguo, che rischiano di svuotarne il significato originario, di orgoglio europeista sui valori e di rilancio della necessità di un’unione politica e militare. Dall’altra c’è il voto di domani all’Europarlamento sul sostegno militare all’Ucraina e sul piano di riarmo lanciato dalla presidente della commissione europea Ursula von der Leyen.
In mezzo ci siamo noi, che proviamo a capire. A cosa serve la manifestazione indetta il 15 marzo? È una manifestazione europeista, ma è anche pacifista? Il Pd aderisce? E quale Pd, quello della segretaria Elly Schlein o quello dei big dissenzienti Gentiloni, Letta e Prodi? E cosa sta facendo il Partito democratico? Ha virato verso il pacifismo radicale dei 5 Stelle? Proviamo a fare ordine, che poi è quello che proviamo a fare sempre in questa Rassegna, aggiungendo qualche spunto e qualche opinione, per orientarsi meglio.
Quale piazza sarà?
La defezione dell’Arci e i contrasti interni a Cgil e Anpi – è stato organizzato per lo stesso giorno una sorta di contro corteo pacifista – mutila l’ala sinistra della manifestazione. Dopo l’appello originale di Serra, è arrivato il piano ReArm Europe, che ha diviso ulteriormente la sinistra. A questo punto, si manifesta per l’Europa, d’accordo, ma per l’Europa che vuole il riarmo? Serra, in un articolo di ieri su Repubblica, ha provato a correggere il tiro. Rivendicando la possibilità che in piazza ci siano opinioni anche diverse su come debba svilupparsi il futuro europeo. Ma nel contempo non è sfuggita a nessuno la frase che dice: «La risposta armigera formulata da von der Leyen cozza tristemente contro i valori fondativi dell’Unione Europea».
Per un’Europa pacifica o pacifista?
E qui si pone la questione. Si manifesta dunque per un’idea astratta di Europa, che non coincide con i suoi attuali decisori? Tra i valori fondativi della Ue c’è, naturalmente, la pace. Non il pacifismo, però, che è una cosa diversa. Perché la pace è stata garantita per 70 anni grazie a un atteggiamento europeo non bellicoso, non imperialista, di risoluzione delle controverse internazionali, come recita anche la nostra Costituzione, attraverso la politica e non la guerra. Ma la pace è stata garantita anche dall’ombrello della Nato, con il deterrente nucleare americano. Ora che non c’è più, occorre munirsi di un proprio ombrello. Il che vuol dire armarsi e creare una difesa comune. E dunque, per quale Europa si manifesta? Per un’Europa pacifica (che non aggredisce, che considera la pace, la democrazia e i diritti civili una valore supremo ma vuole anche difendersi) o per un’Europa pacifista? Nel dubbio, per tutte e due: in piazza, infatti, ci saranno Carlo Calenda e Nicola Fratoianni, che la pensano in maniera opposta.
«Pensieri prepolitici» e «pensieri limpidissimi»
Gustavo Zagrebelsky ha parlato di un incontro «prepolitico». Alla piazza, in sostanza, si attribuisce solo un ruolo generico di mobilitazione per esprimere l’amore per i valori europei, tutt’al più di stimolo per i governanti. Poi toccherà ai politici trovare le soluzioni. Un bel modo per buttare la palla in tribuna, e non sciogliere il nodo. Roberta De Monticelli, sul manifesto, contesta al grande costituzionalista l’uso di quel termine: «Trovo indigeribile questo uso della parola “prepolitico”. Come se, prima che le rappresentanze politiche traducano i sentimenti in programmi, ci fossero solo sentimenti vaghi, vitalità inarticolate, insoddisfazioni o sdegni muti». La filosofa vorrebbe che in piazza ci andassero non sentimenti prepolitici ma «pensieri articolati e limpidissimi». Addirittura «un pensiero razionale e morale, ideale e appassionato, limpido e universale, come i lumi e le luci d’Europa di cui è l’erede». Vasto programma, vista la situazione.
Luigi Ferrajoli dice che bisogna andare in piazza con le bandiere della pace «per impedire all’Europa delle armi di von der Leyen e Macron di proporsi come la sola Europa esistente». Il grande giurista scrive sul manifesto che bisogna far rientrare la Russia in Europa e che la garanzia della sicurezza non viene dal riarmo ma, al contrario, dal disarmo, «che attesta la volontà di pace e sollecita l’analoga volontà e l’identico interesse della controparte». Pacifismo classico, che postula la buona volontà di tutti e fa a pugni con l’imperialismo bellicista non dell’Europa, come sostiene qualcuno, ma della Russia (e ora, purtroppo, anche degli Stati Uniti). Non ha torto, invece, quando spiega che manifestare per l’Europa significa anche manifestare per «quello stato sociale che solo in Europa si è realizzato in nome dell’uguaglianza e che ora Trump e le destre vogliono distruggere».
Conte concavo e convesso
Giuseppe Conte continua nel suo miglior travestimento, non tanto quello di avvocato del popolo, ma quello di Masaniello in marsina, di Che Guevara in pochette. Pronto a combattere non in trincea ma nelle piazze, per intestarsi la bandiera bianca del pacifismo, e della resa. Il leader del Movimento sfugge come un’anguilla a ogni conato unitario del centrosinistra, si barcamena tra Trump e Xi Jinping, si scaglia contro «la furia bellicista dell’Europa», è sovranista e progressista, si fa concavo e convesso. Apprezza lo slittamento di Schlein verso di lui ma non è mai abbastanza, anche perché a ogni spostamento lui la scavalcherà sempre, un po’ più a sinistra o un po’ più a destra. E chi meglio di lui può sottrarsi alla piazza con un beffardo: «La piattaforma non è chiara»? La sua è chiarissima, come scrive Stefano Folli: «Sfruttare a suo vantaggio le contraddizioni del Pd». Si colloca così in una linea immaginaria e frastagliata, dal sapore jovanottiano, che unisce su uno stesso asse la «grande Chiesa pacifista», che va da Salvini a Putin, da Vannacci a Rizzo. Fino al Papa, con rispetto parlando.
Schlein, «siamo uguali ma diversi»
La citazione è del collega del Corriere Goffredo Buccini: Elly Schlein, in questo momento, sembra un po’ come quella psicopatologia della sinistra interpretata da Nanni Moretti, che rivendicava una sua alterità rispetto agli altri partiti, una superiorità morale, una sinistra che si trova sempre più a suo agio nella minoranza ma poi alla fine vuole essere maggioranza, che vuole essere contro, ma non troppo. Fuor di metafora, il tentativo di Schlein è di tirarsi fuori dal coro del riarmo, senza finire nel calderone del pacifismo a mani alzate. Essere uguale agli altri europei, ma diversa. Volendo, si potrebbe interpretare la sua anche linea in positivo, come una prova di riformismo, quello serio, che non si accontenta di riverniciare la realtà (magari cambiando il nome al ReArm Europe) ma di cambiarla davvero.
Ma perché Schlein è contraria al ReArm Project?
Proviamo a elencare alcune ragioni possibili.
- Ragioni ideali Perché non si riconosce in un progetto tutto ed esclusivamente basato sul riarmo. Le sue battaglie di sinistra per aumentare i fondi alla sanità e ai lavoratori contrastano con l’inevitabile salasso per le casse dello Stato che sarà rappresentato da un aumento delle spese militari.
- Ragioni politiche Perché crede che il progetto di von der Leyen sia sbagliato. Nel senso che dà il via libera ai singoli Paesi per rafforzare le loro dotazioni militari e i loro eserciti, ma non crea le condizioni politiche e militari vere per una difesa comune. Molti pensano che sia un primo passo e quindi dicono: sì, poi cambieremo il piano e lo miglioreremo. Lei dice: no, lo cambiamo subito il piano. Qualcuno pensa che questo sia un modo per far naufragare il tutto: com’è noto, il meglio è nemico del bene. Persino il governo spagnolo, sinistra pura, dice sì, perché intanto si parte così, con i prestiti modello Sure (il piano per il Covid) e l’indebitamento nazionale, poi arriverà il debito comune modello Next generation Eu. E poi arriverà, agli europei piacendo, il resto, ovvero politica estera comune e comando militare unificato. Ma l’obiezione di Schlein non è peregrina né solo pretestuosa.
- Ragioni politiciste Perché in questo modo rafforza il suo progetto di unità del centrosinistra, venendo incontro, anche se non sposando del tutto, le istanze di pacifismo radicale imbracciate dal Movimento di Giuseppe Conte. Un passo verso M5S per un partito che è a favore dell’invio di armi all’Ucraina (al contrario di Avs e M5S) e un passo più lontano dagli altri partiti socialisti europei.
- Ragioni tattiche Perché sa, o crede, che buona parte dell’opinione pubblica sia contraria ad aumentare le spese militari e questo potrebbe premiarla, nei sondaggi e nelle urne. Non è certo, naturalmente, che una posizione simile – sostenuta con più forza da Avs e M5S – non finisca per far perdere più consensi tra i moderati rispetto a quelli guadagnati tra i radicali.
E cosa voterà all’Europarlamento? Domani a Bruxelles si vota. Non è un vero e proprio voto sul piano von der Leyen, perché avendo chiesto la procedura d’urgenza, non ha bisogno del voto dell’Europarlamento. Ma la mozione che parla di sostegno militare all’Ucraina cita anche il piano ReArm, e dunque si vota di fatto anche su quello. Schlein sarebbe tentata dal no, differenziandosi da tutti gli altri partiti socialisti, che sono per il sì. C’è una trattativa in corso per indurla almeno a un’astensione. C’è chi già ha fatto sapere che voterà sì: tra loro, Pina Picierno, Giorgio Gori, Pierfrancesco Maran.
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Rassegna americana |
Bree Fram, la colonnella delle Forze spaziali Usa che Trump vuole epurare |
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«Mi sono laureata nel 2001 e stavo cercando lavoro alla Nasa o in un’azienda privata del settore della difesa come ingegnere aerospaziale, perché lo spazio è sempre stato la mia passione, quando siamo stati attaccati nel settembre 2001. È stato uno dei momenti in cui la mia vita è cambiata in un attimo.
Volevo dare qualcosa in cambio. Volevo far parte di qualcosa di più grande di me. Volevo difendere le opportunità e le libertà per cui hanno combattuto uomini come i miei nonni e tante generazioni di americani prima di loro». Bree Fram, colonnella della US Space Force, ha raccontato così, in un podcast del New York Times, il motivo per cui ha deciso di entrare nelle forze armate statunitensi. Ne fa parte da 22 anni, con l’orgoglio e il patriottismo che ci si aspetta dai militari. Ma tra due settimane sarà costretta a lasciarle, visto che l’amministrazione Trump ha dato tempo fino al 26 marzo per identificare il personale transgender da rimuovere dalle forze armate. Fram, 45 anni, è una dei militari transgender più alti in grado dell’esercito americano.
«Abbiamo servito il nostro Paese per un decennio come persone transgender, senza tabù, in modo onorevole e competente, in ogni campo militare, negli Stati Uniti e in tutto il mondo» ha detto la colonnella transgender nei giorni scorsi all’agenzia Afp. «Quando è la tua stessa amministrazione a costringerti a toglierti l’uniforme perché non ti considera idonea a servire il Paese, ti si spezza il cuore».
Per la prima parte della sua carriera militare Fram non ha potuto vivere apertamente come una persona trans, perché l’esercito bandiva le persone dichiaratamente transgender, e ha dovuto mantenere un’apparenza maschile che corrispondesse al suo sesso biologico (anche se la sua identità di genere è femminile). Quando, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, Barack Obama nel 2016 ha permesso alle persone trans di prestare servizio nell’esercito, Fram si è sentita libera. E ha fatto immediatamente coming out come donna transgender.
«Avevo un’e-mail pronta da inviare ai miei colleghi e un post su Facebook pronto per essere diffuso nel mondo. Ma quando ha fatto l’annuncio, ho esitato perché non sapevo come sarebbe cambiato il mondo per me. Ci ho messo un attimo, ma alla fine ho trovato il coraggio di premere “posta”, di premere “invia”. E poi sono scappata» racconta al Nyt. «Ho raggiunto la palestra interrata sotto il Pentagono. Sono salita sull’ellittica e sono andata da nessuna parte più velocemente di quanto non sia mai andata da nessuna parte in vita mia, con tutta l’energia nervosa che avevo, chiedendomi ancora una volta: “Come sarà diversa la mia vita adesso?”. Ma sono tornata alla mia scrivania. Mi sono seduta ed è accaduta una cosa incredibile. Uno dopo l’altro, i miei colleghi si sono avvicinati a me, mi hanno stretto la mano e mi hanno detto: “È un onore lavorare con te”. E io sono rimasta a bocca aperta perché l’onore di servire con loro era tutto mio».
Fram non ne fa una questione di identità: per lei l’appartenenza alle forze armate americane è così importante che è stata pronta a sacrificare per anni la sua identità pur di poter prestare servizio nella Us Space Force. «Quando entro in una stanza, la prima cosa che la gente nota non è che sono transgender. Vedono l’aquila sul mio petto, l’uniforme che indosso e la responsabilità che trasmette. La conversazione non riguarda la mia identità, ma il compimento della missione. La mia identità, pur essendo parte integrante di ciò che sono, non è il vessillo sotto il quale servo: quella è la bandiera degli Stati Uniti che poggia sulle mie spalle. La mia identità migliora la mia capacità di leadership e di entrare in contatto con gli altri, portando forza all’esercito e alla nazione che sono orgogliosa di servire» ha scritto all’inizio di febbraio in un commento, sempre sul New York Times.
Per lei è una questione di efficacia: «Se non sei te stessa, non puoi dare il meglio di te. E il fatto di poter servire apertamente come persona trans è stato magico, perché all’improvviso migliaia di persone sono diventate migliori di quanto non fossero prima» afferma. «Se nascondiamo chi siamo, significa che stiamo spendendo una parte della nostra energia mentale per proteggere la nostra identità, quando invece potremmo dedicarla alla missione o alle relazioni con le persone che ci circondano».
Trump aveva già provato a bandire le persone trans dall’esercito durante il suo primo mandato, nel 2017. Allora, spiega Fram, «la politica prevedeva una clausola che consentiva a circa 1.600 di noi che avevano fatto coming out, ricevuto una diagnosi militare e iniziato un processo di transizione di continuare a prestare servizio. All’epoca eravamo diventati una specie in via di estinzione: nessuno poteva uscire e nessuno poteva entrare. Ciò che è diverso questa volta è che si tratta nuovamente di un divieto, ma anche di un’epurazione. Ci sono migliaia di membri del servizio transgender in più rispetto a dieci anni fa».
Durante i primi giorni del suo secondo mandato Trump ha firmato un ordine esecutivo che vieta alle persone transgender di prestare servizio nelle forze armate. La direttiva è stata impugnata in tribunale ma il Dipartimento della Difesa ha dato a tutte le forze armate fino al 26 marzo per compilare una lista di proscrizione dei militari transgender e altri 30 giorni di tempo per iniziare a rimuoverli dal servizio. Secondo l’agenzia Ap, ci sono almeno 600 transgender già noti («facilmente identificabili») nella Marina, tra 300 e 500 nell’Esercito e meno di 50 nel Corpo dei Marines. Altri militari transgender possono essere identificati grazie a trattamenti medici a cui ricorrono (soprattutto le terapie ormonali).
La Difesa stima ci siano circa 4.200 soldati con diagnosi di disforia di genere attualmente in servizio attivo, nella Guardia Nazionale e nelle Riserve. Uno studio indipendente del 2018 del Palm Center, che si occupa di questioni Lgbtq+, stima invece che ci siano circa 14 mila transgender tra gli oltre 2,1 milioni di militari in servizio.
Trump e il Segretario alla Difesa Pete Hegseth hanno dichiarato di voler licenziare i militari trans perché li considerano al di sotto degli standard militari, «inadatti» alla guerra e non abbastanza «letali» per le forze armate americane. «Le restrizioni mediche, chirurgiche e di salute mentale imposte agli individui che hanno una diagnosi attuale o una storia di disforia di genere, o che mostrano sintomi coerenti con essa, sono incompatibili con gli elevati standard mentali e fisici necessari per il servizio militare», ha dichiarato il sottosegretario alla Difesa per il personale Darin Selnick in una nota ufficiale, in cui – parafrasando le parole di Trump – afferma anche che il genere è «immutabile, e non cambia durante la vita di una persona». L’amministrazione Trump rifiuta di distinguere tra sesso (che è un caratteristica biofisica) e genere (un’identità socio-culturale, che cambia a seconda dei contesti storici e geografici).
Gli avvocati di sei militari transgender che hanno fatto ricorso contro l’ordine esecutivo di Trump sostengono nei documenti depositati in tribunale che la sua direttiva esprime apertamente «ostilità» nei confronti delle persone transgender, considerandole «diseguali e non utilizzabili, svilendole agli occhi dei loro compagni di servizio e del pubblico». «All’improvviso, ti verrà richiesto di dichiararti. Altre persone dovranno dichiararsi», ha detto Sarah Warbelow, vicepresidente per gli affari legali della Human Rights Campaign a proposito dell’ordine esecutivo. «Se hai un migliore amico nell’esercito che sa che sei transgender, in base a queste nuove direttive, se sei una donna transgender, dovrà iniziare a chiamarti “lui” e “signore”».
Per la colonnella Bree Fram, quella di Trump è una vera e propria «epurazione». «Questa politica non solo dice che nessuno può entrare, nessuno può dichiararsi trans, ma che tutti coloro che sono attualmente in servizio non sono più compatibili con il servizio militare e saranno congedati amministrativamente. La posizione del governo è che non riusciamo a soddisfare i rigorosi standard mentali o fisici richiesti dal servizio militare, ma non fornisce alcuna prova. Abbiamo migliaia di membri del servizio che non solo soddisfano gli standard, ma nella maggior parte dei casi li superano» dice Fram.
Il paradosso è che negli ultimi anni, come ha raccontato il New Yorker, le forze armate americane hanno abbastanza reclute e il numero di militari diminuisce sempre più: «Nel 2022 e nel 2023, l’Esercito ha mancato il suo obiettivo di reclutamento di quasi il 25%, circa 15 mila soldati all’anno. L’anno scorso ha raggiunto l’obiettivo, ma solo riducendolo di oltre 10 mila unità. Anche la Marina è andata male: non ha raggiunto i suoi obiettivi nel 2023, poi li ha raggiunti nel 2024 riempiendo i ranghi con reclute di livello inferiore; quasi la metà ha ottenuto risultati inferiori alla media in un esame attitudinale. La Riserva dell’Esercito non raggiunge il suo obiettivo dal 2016 e i suoi ranghi sono così ridotti che gli ufficiali in servizio attivo sono stati messi a capo delle unità della riserva. Alcuni esperti temono che, se il Paese entrasse in guerra, molte unità della riserva potrebbero non essere in grado di schierarsi».
I militari transgender che Trump vuole sbattere fuori invece non solo hanno già superato i test attitudinali, ma sono fortemente motivati a prestare servizio. «Finché non sarò trascinata via farò il mio lavoro al meglio delle mie capacità» ha detto la colonnella Bree Fram al Nyt. Ora Trump, in nome della sua ideologia anti trans, vuole eliminare migliaia di quei militari di cui le forze armate hanno disperatamente bisogno.
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Frammenti |
La povertà educativa (anche al Nord) e l’emergenza dimenticata |
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Dovremmo chiederci perché la qualità del capitale umano non è mai un’emergenza nazionale. Non è mai ai primi posti delle agende politiche. Certo, direte, ci sono altre priorità in questo momento. Si parla di investimenti nella Difesa, di riarmo. Non è il momento. Non è mai il momento. Alcuni interessanti dati sul nostro sistema educativo emergono da una ricerca Teha, a cura di Paolo Borzatta e Jonathan Donadonibus. L’Italia spende più per pagare gli interessi sul proprio debito che per gli investimenti nell’istruzione. Già questo dice tutto.
Per fortuna il Pnrr, il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza, destina circa 30 miliardi all’Istruzione e alla Ricerca. Speriamo vengano impiegati bene. La spesa privata delle famiglie è pari alla media europea, circa 30 miliardi. Ma largamente inferiore a quella tedesca o francese. La Finlandia, che ha un invidiabile sistema pubblico (investe quasi il doppio, rispetto al Pil, dell’Italia) ed è in vetta alla classifiche sui rendimenti degli studenti, quasi zero. Le statistiche che riguardano i tassi di iscrizione della scuola primaria e secondaria ci vedono in buona posizione. Il numero degli studenti universitari cresce, ma grazie alle università telematiche (tutto bene?). La percentuale di laureati resta tra le più basse d’Europa. E ogni anno lo Stato subisce un danno economico stimato in 4,2 miliardi per la fuga di diplomati e laureati.
La povertà educativa è un problema serio e sottovalutato anche in ricche aree del Nord. E in Europa il rischio è stimato toccare il 25 per cento dei minori. In Italia il 70,5 per cento dei bambini e dei ragazzi tra 3 e 19 anni non è mai entrato in una biblioteca. E se andiamo a vedere la percentuale di italiani che, negli ultimi dodici mesi, hanno letto almeno un libro (fonte Eurostat 2022) ci troviamo al penultimo posto. La Finlandia legge il doppio. La Grecia ci ha superato da tempo.
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Rassegna cinematografica |
«L’orto americano», Pupi Avati torna all’horror |
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Nell’arco di una lunga e palpitante carriera, Pupi Avati non ha mai dimenticato l’horror padano. Ogni suo ritorno alle «amate sponde» è una festa per chi ha perso il sonno con Balsamus, l’uomo di satana (1968), ma soprattutto La casa delle finestre che ridono (1976) e Zeder (1983), fino al più recente Il signor Diavolo (2019), solo per citare i film più duri, puri e pop di un cineasta versatile, al traguardo del cinquantacinquesimo titolo di un percorso professionale che, tra stelle nel fosso e arcani incantatori, ha avuto il suo momento di massimo splendore con Storia di ragazzi e di ragazze (1989).
La partenza, stavolta, è l’omonimo romanzo di Avati edito da Solferino. Le atmosfere sono ad alta densità gore, annegate in un inquietante, lattiginoso bianco & nero. Il racconto procede per evocazioni e rivelazioni successive, come le scosse di un terremoto. Passa dal sogno / incubo alla rappresentazione esoterica, misticheggiante, talvolta pulp. Esplorazione di un’anima turbata di fronte al mistero, forse sulla porta dell’inferno. Bologna, 1945: l’avventura comincia sotto i portici che portano a San Petronio. Nel negozio di un barbiere. Tra i clamori della Liberazione.
Un giovane scrittore senza nome incontra un’ausiliaria dell’esercito Usa. Lei chiede informazioni per raggiungere Ferrara. Lui se ne innamora in maniera definitiva. «È lei, la donna che aspettavo. La donna per me». Il giovanotto è instabile e ha un difficile passato: parla con i defunti ed è dominato da strane percezioni sovrannaturali. Un anno dopo, nel 1946, si trasferisce a Davenport, nell’Iowa, per trovare ispirazione e crede di ritrovare le tracce della donna nella casa della vicina. Dall’orto partono voci oltretombali che guidano a un bum bum di macabre scoperte, sulle quali il giovane senza nome indaga insieme a padre Jesus, esperto in enigmi che ricordano Il nome della rosa di Umberto Eco. Che cosa c’è in quei vasi di vetro? Quale segreto si nasconde dietro le storie di una giovane svanita nel nulla in Italia e di un serial killer feticista?
Avati segue la ricerca interiore del suo protagonista, appeso a un mondo distonico in cui ci sono da un lato gli affetti sepolti e il desiderio di comunicare con l’Aldilà, e, dall’altro, la ferocia dei delitti e il senso di colpa. Il film è stato girato a Davenport nella casa dove Avati ambientò il suo primo film americano, Bix (1991), biografia del trombettista americano Bix Beiderbecke, comprata all’epoca, e poi a Comacchio e a Cinecittà. Ha un andamento liquido, procede per sbalzi, agnizioni, sguardi truci, cita i poeti greci. La sceneggiatura è firmata dallo stesso Avati con il figlio Tommaso. «Mentre scrivevo, e poi mentre giravo, pensavo al neorealismo di Rossellini e De Sica», dice Pupi.
Il cast comprende tra gli altri, Rita Tushingham, Chiara Caselli, Massimo Bonetti, Nicola Nocella, Claudio Botosso. Nel volto del protagonista riconoscerete (a stento) quel Filippo Scotti che fu l’alter ego adolescente di Paolo Sorrentino nel memoir È stata la mano di Dio. Là era un ragazzo in motorino precipitato in un racconto di formazione, qui un aspirante letterato in cerca di sé stesso. Notevole la trasformazione, notevole la resa all’economia del film che raccorda in un dolce stil novo onirico- naturalistico l’analisi psicologica e il tric trac degli orrori.
L’ORTO AMERICANO di Pupi Avati
(Italia, 2024, durata 107’, 01 Distribution)
con Filippo Scotti, Rita Tushingham, Chiara Caselli, Roberto De Francesco, Massimo Bonetti
Giudizio: 3+ su 5
Nelle sale
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