Nel film Palombella Rossa – era il 1989 – Michele Apicella, interpretato da Nanni Moretti, affronta un’intervista con una giornalista che lo metterà a dura prova. Lei continua a usare espressioni esterofile e banali frasi fatte, fino a che lui, sofferente nell’ascoltarla, la schiaffeggia (oggi non sarebbe accettabile il gesto, nemmeno in un film) e urla “Ma come parla? Ma come parla!? Le parole sono importanti”. Guardate cliccando qui la scena icona del cinema italiano.
Ecco, le parole sono importanti, davvero. E dicono molto della nostra identità e dell’atteggiamento che abbiamo di fronte a oggetti e fenomeni. Faccio un esempio. Oggi va di moda il foraging.
Quindi l’azione di andare a raccogliere erbe spontanee, frutti selvatici, funghi e quanto altro la natura offre gratuitamente. Si organizzano passeggiate in campagna e montagna, in cui esperti (bisogna esserlo, sennò si rischia magari di raccogliere erbe, fiori, funghi nocivi) guidano gli appassionati nella raccolta. E molti cuochi valorizzano i frutti della raccolta nei loro piatti. Si parla moltissimo di foraging da qualche anno, sull’onda del successo di chef internazionali, in primis scandinavi, fautori di questa riscoperta della natura, seguiti da neo-gourmet, attenti alla sostenibilità e al salutismo.
Peccato che molti non si ricordino che non c’è bisogno di andare a citare cuochi danesi e norvegesi da prendere ad esempio, perché da sempre nella cultura contadina la raccolta di frutti spontanei è stata praticata, solo che si chiamava “raccogliere gli erbi”, “fare erbe” ecc.
In italiano il foraging si chiama alimurgia – parola meno accattivante – e dall’etimologia, per così dire, un po’ triste: deriva dal latino “alimentia urgentia” (alimenti dell’urgenza, della necessità) perché in tempi di carestia raccogliere piante selvatiche non era un passatempo hipster, ma una pratica di sopravvivenza, un rimedio obbligato in tempi di carestie. Quindi ecco perché le parole sono importanti: perché oggi che andiamo con cestini di vimini colorati per prendere un po’ di aria fresca fra i prati, è sostanzialmente giusto non riferirsi alla carenza di cibo. La trasformazione è stata spontanea.
Poi ci sono parole che cambiamo in modo programmatico, per prendere una posizione. A volte fa un po’ ridere, perché certe prese di posizione non risolvono i problemi, ma è un modo per fare una scelta di campo, sociale e politica.
Così, era successo, quando Putin ha invaso il Donbass, che in molti bar il celebre (e secondo me squisito) cocktail di vodka, ginger beer e lime cambiò nome. Basta Moscow Mule, chiamiamolo Kiev Mule avevano detto.
La cosa si ripete anche oggi. In molti bar in Canada, sui menu è apparso un originale segno di protesta. Trump va dicendo di voler annettere il Canada?
Allora il caffè Americano è stato sostituito dal Canadiano.
Ebbene sì, se si vuole ordinare un caffè bello lungo in tazza grande, si chiede un Canadiano.
Un non-senso? Una cosa inutile?
Forse: ma le parole sono importanti.
Quali prodotti che riguardano il cibo conoscete che hanno cambiato nome per motivi politici? Scrivetemelo!