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venerdì 14 marzo 2025
C’è un messaggio per Trump
A float portraying Russian President Vladimir Putin (R) and US President Donald Trump (L) forming a 'Hitler - Stalin - Pact 2.0' to squash Ukraine and its President Zelensky is pictured during the parade to celebrate Rose Monday (Rosenmontag) in Duesseldorf, western Germany on March 3, 2025. The carnival season ends on Ash Wednesday, March 5. (Photo by INA FASSBENDER / AFP)
editorialista
di   Andrea Marinelli

 

«Attraverso Witkoff, Putin ha trasmesso informazioni e segnali aggiuntivi al presidente Trump». È quanto ha riferito questa mattina il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, riferendosi all’incontro di ieri sera fra il presidente russo e l’inviato speciale del leader americano Steve Witkoff. La posizione di Putin — ha aggiunto Peskov — «è allineata» con quella di Trump, «ma c’è ancora del lavoro da fare» (sopra, nella foto Afp di Ina Fassbender, i pupazzi di Trump e Putin si combattono Zelensky al carnevale di Dusseldorf).

Oggi AmericaCina riparte da queste parole per riannodare la trattativa in corso fra americani, russi e ucraini per fermare, almeno per 30 giorni, la guerra. Ma i nodi, come racconta sul giornale di oggi Lorenzo Cremonesi, sono tanti.

Buona lettura.

La newsletter America-Cina è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corriere della Sera. Potete registrarvi qui e scriverci all’indirizzo: americacina@corriere.it.

1. I vincoli di Putin per la tregua in Ucraina

Marco imarisio e viviana mazza

Negli ultimi quattro anni, Vladimir Putin e Aleksandr Lukashenko si sono visti di persona venticinque volte. Per dire dei rapporti di forza, 23 di questi incontri si sono svolti in Russia, e solo due in Bielorussia. Mai come ieri però c’è stata una attesa così spasmodica per la fine dei loro colloqui, non certo dovuta ai nuovi accordi commerciali tra i due Paesi, ma al fatto che il Cremlino ha annunciato che al termine dei colloqui in corso con Lukashenko, Vladimir Putin avrebbe parlato.

Tregua in Ucraina, il «forse, ma» di Putin. Trump: lo incontreròVladimir Putin, 72 anni, guida la Russia dal 31 dicembre 1999

E avrebbe detto la sua sulla proposta di tregua mensile giunta da Usa e Ucraina, dopo che il suo primo assistente per la politica internazionale, il solitamente taciturno Yuri Ushakov, dopo aver confermato il viaggio nella capitale russa dell’inviato Usa Steve Witkoff, aveva raffreddato gli entusiasmi affermando che «una tregua provvisoria non serve alla pace, è utile solo a far riarmare l’Ucraina».

Ma siccome a Mosca l’unica parola che conta davvero è quella del presidente, è cominciato un lungo conto alla rovescia. «Prima di tutto vorrei cominciare con parole di ringraziamento al presidente degli Usa, il signor Trump perché riserva alla questione ucraina tanta attenzione». Esaurita la premessa, un Putin prudente nell’eloquio è andato al punto.Sì alla tregua, ma con molte condizioni, con i tempi necessari alla Russia, e con un unico interlocutore, il presidente americano. «Noi accettiamo la proposta di cessare le azioni belliche, ma questo stop deve essere tale da portare ad una pace a lungo termine, eliminando le cause prime di questa crisi».

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2. L’equilibrismo dello zar (che crede di aver trovato un partner in Trump)

editorialista

marco imarisio

Nel giugno 2007, durante un’intervista alla vigilia della riunione del gruppo G8, a Putin venne chiesto se si considerava vero democratico. Certo, rispose lui. «Ma sapete qual è il guaio? Che dico guaio, è una vera tragedia: sono l’unico, altri non ce ne sono al mondo. Guardate cosa sta succedendo negli Usa, in Europa, un disastro ovunque, per non parlare dello spazio post-sovietico. Io speravo nei ragazzi dell’Ucraina ma anche loro si sono screditati, lì si va verso la totale tirannia, nella più completa violazione della Costituzione. Dopo la morte del Mahatma Gandhi, non c’è nessuno con cui parlare».

FILE ? U.S. President Donald Trump, right, meets with Russian President Vladimir Putin at the G20 Summit in Hamburg, Germany, July 7, 2017. (AP Photo/Evan Vucci, File)Putin e Trump al summit del G20 di Amburgo del 7 luglio 2017 (foto Ap/Evan Vucci)

Putin confessò in seguito che la frase su Gandhi era uno scherzo, ma come si dice in Russia, il sapore è rimasto. Dopo aver trascorso anni lamentando l’assenza di un vero interlocutore, adesso il presidente russo sente di averne trovato uno. Tradotto dal linguaggio diplomatico, ieri ha detto: siamo io e lui. Quelli che contano davvero siamo io, Vladimir Putin, e lui, Donald Trump. Non c’è Europa, non c’è Zelensky che tenga, non c’è vertice a Gedda o a Riad. Ci parleremo, e decideremo cosa fare di questa tregua.

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3. Ma Zelensky non gli crede: «È ambiguo e falso»

editorialista

Lorenzo cremonesida Kiev

«Tutte manipolazioni e falsità. Putin ovviamente non osa dire in faccia a Trump che rifiuta il suo progetto di cessate il fuoco e così impone silenzi e precondizioni impossibili per fare fallire tutto». Volodymyr Zelensky ieri sera ha denunciato con forza quella che definisce «la risposta manipolatoria» del presidente russo. In sostanza: per Zelensky la luce verde di Putin sarebbe in verità rossa e occorre che Trump se ne renda conto al più presto. Ma va detto con cautela, senza causare frizioni con gli «amici» americani. Il motivo è ovvio: ci sono già stati troppi problemi e scontri con l’amministrazione Trump e le conseguenze sono state gravissime, compreso il blocco della cooperazione militare.

Ukraine's President Volodymyr Zelensky speaks during a press conference in Kyiv on March 12, 2025, amid the Russian invasion of Ukraine. Ukraine can discuss security guarantees with its partners after the implementation of a ceasefire, President Volodymyr Zelensky said on March 12, 2025, as a 30-day truce proposal was still awaiting a response from Russia. (Photo by Roman PILIPEY / AFP)Zelensky ieri in conferenza stampa a Kiev (foto Afp/Roman Pilipey)

Adesso che finalmente è stato levato per volere diretto di Trump, dopo il «sì» ucraino al piano Usa dei 30 giorni di cessate il fuoco martedì a Gedda, inutile rischiare di pregiudicarlo ancora. Anche Andriy Yermak, il capo dell’ufficio presidenziale che è appena tornato dopo avere guidato la delegazione a Gedda, si limita a dire ai media locali che «la nostra posizione è completamente in linea con i partner americani». E aggiunge un elemento di cauta complessità, ricordando tutte le volte che la Russia ha già violato accordi di pace nel passato: «Siamo solo agli inizi, abbiamo ancora un mucchio di lavoro da fare. Tra i fattori di conforto c’è che non siamo soli, l’Ucraina è con i suoi partner, compresi i nostri amici europei. Certo è che non vogliamo un conflitto congelato».

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4. Stati Uniti e Israele contattano tre Paesi africani per ricollocare i palestinesi

editorialista

marta serafiniinviata a Gerusalemme

Sudan, Somalia e Somaliland. Sarebbero questi i potenziali territori di destinazione per il reinsediamento della popolazione di Gaza, in base al piano postbellico proposto dal presidente Donald Trump. Lo riferisce il quotidiano Times of Israelcitando non meglio identificati funzionari americani e israeliani che sarebbero in contatti diretti con alti funzionari dei tre Paesi.

La notizia arriva dopo che Steve Witkoff, inviato Usa per il Medio Oriente, ha provato a Doha a sbloccare la trattativa con una nuova proposta di piano che prevede il rilascio di 5 ostaggi israeliani e la fine dei combattimenti fino al 21 aprile, alla fine del mese di Ramadan e dalla Pasqua ebraica. Secondo quanto riferito dalle stesse fonti, i contatti presi con le autorità di Sudan, Somalia e Somaliland, regione separatista della Somalia, riflettono la determinazione di Stati Uniti e Israele a portare avanti un piano ampiamente condannato dai paesi arabi e occidentali, che solleva gravi questioni legali e morali.

Trattandosi di tre luoghi molto poveri e, in alcuni casi, devastati da violenze e conflitti, tale scenario mette anche in dubbio l’obiettivo dichiarato di Trump di reinsediare i palestinesi di Gaza in una «bellissima area». Tanto più che nei giorni scorsi lo stesso Trump, a colloquio Michael Martin con il premier irlandese che gli esponeva le perplessità sollevate dai Paesi europei, sull’eticità (e la fattibilità) del piano ha risposto che non c’è da preoccuparsi perché nessun «gazawi» verrà mai deportato.

La proposta arriva anche mentre Israele continua, nonostante le proteste della comunità internazionale e dei giuristi di diritto internazionale, a tenere chiusi i varchi della Striscia di Gaza agli aiuti umanitari (non entra niente a partire dal 2 marzo, ormai). E mentre i ribelli yemeniti dell’asse elogiati da Hamas minacciano di tornare a colpire le navi occidentali nel Mar Rosso e nel Golfo.

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Taccuino | Il raggio degli Houthi

editorialista

guido Olimpio

Gli Houthi, usando tecnologia cinese, hanno migliorato i loro droni d’attacco allungandone il raggio d’azione. I loro mezzi potrebbero ora puntare su bersagli ben oltre i 2 mila chilometri di distanza. Lo sostiene un’indagine del centro ricerche Car che ha esaminato delle componenti sequestrate a bordo di un cargo in Mar Rosso, materiale destinato alla milizia filoiraniana. Non è stato possibile accertare se il materiale sia stato fornito direttamente da Pechino e, se invece, sia parte di una triangolazione.

Tre punti.

1) Il conflitto nella penisola arabica è un laboratorio per la messa a punto di armi che poi possono essere impiegate in altre crisi (ad esempio in Ucraina).

2) I militanti yemeniti, con l’assistenza iraniana, dedicano sforzi al miglioramento di sistemi usando una filiera di rifornimento che si sviluppa lungo rotte marittime.

3) La fazione vuole svolgere un ruolo sempre più importante e ha bisogno di equipaggiamenti di ampia portata.

Altro fronte, il Kurdistan. I guerriglieri del Pkk hanno affermato che è impossibile attuare, per ora, o scioglimento del loro movimento dopo l’appello del leader storico Ocalan, attualmente detenuto in Turchia. Motivo: i turchi continuano ad esercitare una forte pressione militare, azione che impedisce l’addio totale alle armi dei separatisti.

5. Purim, Ramadan e le feste che non sbloccano le trattative con Hamas

(Marta Serafini) Per gli israeliani questo è un Purim particolare. Per svariate ragioni. Non in ordine di importanza: per la prima volta dopo molti anni i festeggiamenti durano tre giorni, evento che si è verificato nel 2021, ma capiterà di nuovo solo nel 2045, sottolinea il Times of Israel .

foto di Matteo Placucci)

In tutto il mondo, Purim si celebra il 14 del mese ebraico di Adar. Tuttavia, le città circondate da un muro al tempo di Ester (V secolo a.C.) come Gerusalemme celebrano la festa un giorno dopo. Questa usanza mira a commemorare come gli ebrei di Shushan, la capitale dell’Impero persiano dove è ambientata la storia della regina ebrea, combatterono i loro nemici per un giorno in più.

È il secondo carnevale dal 7 ottobre. E la retorica dei media, inevitabilmente, ne risente. Gal Gadot, interprete di Wonder Woman «mostra un coraggio degno delle eroine ebree» titola Ynet. Ma non solo. Che sia a Gerusalemme o a Tel Aviv, tanti bambini sono travestiti da Batman. E il motivo è tutt’altro che legato a mode infantili. L’eroe pipistrello era sul pigiama indossato nelle foto simbolo dei Bibas, una famiglia intera distrutta da Hamas il 7 ottobre. Quindi è una festa, sì. Ma con il pensiero a chi è ancora ostaggio nella Striscia e a chi dalla Striscia non è mai tornato e a chi è tornato morto come Ariel e Kfir.

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6. Pechino al centro sul nucleare iraniano: «Le sanzioni esacerbano i conflitti»

editorialista

Paolo Salom

Pechino si mette al centro sul nucleare iraniano. Tradizionale sponsor — con la Russia, certo — dell’Iran, il Dragone ha ospitato un vertice a tre per ribadire che, come ha chiarito il ministro degli Esteri Wang Yi, la questione nucleare di Teheran dovrebbe essere risolta attraverso il «dialogo». Wang ha incontrato i vice ministri degli Esteri russo e iraniano, Ryabkov Sergey Alexeevich e Kazem Gharibabadi. «Le sanzioni unilaterali non faranno che esacerbare i conflitti, il dialogo e la negoziazione sono le uniche scelte», ha aggiunto Wang. Nessun cenno a un possibile intervento militare americano o israeliano (o addirittura dei due insieme): per la Cina l’Iran non va toccato. E su questo non c’è alcuna discussione.

7. I tribunali militari di Taiwan

(Paolo Salom) Alta tensione nello Stretto di Taiwan, un tempo chiamato di Formosa per la bellezza dei luoghi che attraversavano le navi dirette nel ricchissimo Catai. ll presidente di Taiwan Lai Ching-te ha definito la Cina una «forza ostile straniera» e ha intensificato le misure di sicurezza di fronte alle crescenti minacce e a una serie di casi di spionaggio. Le autorità dell’isola ribelle sono in allarme per le nuove tattiche che, a loro dire, la Cina Popolare sta utilizzando per «infiltrarsi» negli apparati di governo e di informazione in vista di un assalto armato. Tattiche apprese, a quanto sembra, grazie all’interazione con la Russia, «amica eterna» di Pechino.

This is handout photo from Taiwan Presidential office taken and released on March 13 shows Taiwan President Lai Ching-te delivering a speech about the reaction of the government toward Chinese infiltration in Taipei. Taiwan plans to bring back the military court system to hear Chinese espionage cases involving Taiwanese service members, Lai said. (Photo by Handout / TAIWAN PRESIDENTIAL OFFICE / AFP) / RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT AFP PHOTO / Taiwan Presidential Office - NO MARKETING - NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTSl presidente di Taiwan Lai Ching-te (foto Afp)

Le nuove misure da adottare per difendersi includono una proposta controversa per ripristinare un sistema di tribunali militari rimasta in vigore per decenni sotto il governo (dittatoriale) di Chiang Kai-Shek, il generalissimo nazionalista sconfitto dai comunisti di Mao Zedong nel 1949 e quindi rifugiatosi sull’isola al di là dello Stretto di fronte alla provincia del Fujian. Alla sua morte, con l’instaurazione di un governo democratico, queste corti erano state infine abolite.

La mossa ha immediatamente suscitato una reazione da parte di Pechino, che ha definito Lai «distruttore della pace nello Stretto» e «creatore di crisi», accusandolo di spingere Taiwan precipitosamente verso il «baratro della guerra». Lai ha affermato che la Cina rientra nella definizione di «forza ostile straniera» secondo la legge anti-infiltrazione di Taiwan e che non ha «altra scelta che adottare misure ancora più proattive».La Cina — ha sostenuto Lai — «ha approfittato della libertà, della diversità e dell’apertura della Taiwan democratica per reclutare bande, media, commentatori, partiti politici e persino membri in servizio e in pensione delle forze armate e della polizia per compiere azioni volte a dividerci, distruggerci e sovvertirci dall’interno».La misura più concreta annunciata è stata quella di ripristinare un sistema di tribunali militari in tempo di pace per perseguire «crimini militari come sedizione, assistenza al nemico, fuga di informazioni riservate, negligenza del dovere o disobbedienza». Nel suo discorso, Lai ha annunciato l’intensificarsi delle restrizioni sui viaggiatori cinesi e sui nuovi residenti, oltre al monitoraggio dei taiwanesi che lavorano o viaggiano in Cina. Curioso che il restringersi dello spazio democratico sia criticato prima di tutto dalla Repubblica Popolare: come dire il bue che dà del cornuto all’asino…

8. Il canale di Panama è tornato in alto mare

(Paolo Salom) Sembrava fatta: il Canale di Panama di nuovo nelle «mani giuste», le minacce di invasione (da parte americana) rientrate. Il passaggio di proprietà — o meglio: dei diritti di gestione — dei due porti alle estremità della via d’acqua, che congiunge Atlantico e Pacifico, dalla cinese Ck Hutchison a un consorzio guidato da BlackRock (c’è anche la Msc dell’italiano Aponte) avevano frenato l’escalation «guerriera» del presidente Trump.

People watch cargo ships at the Colon Port in Colon, Panama, on January 29, 2025. Under fierce pressure from US President Donald Trump, Hong Kong firm Hutchison said it had agreed to sell its lucrative Panama Canal and other ports to a US-led consortium on March 4, 2025. CK Hutchison Holdings said it would offload a slew of non-Chinese ports and a 90 percent stake in Panama Ports Company to a group led by giant asset manager BlackRock for about US$19 billion. (Photo by MARTIN BERNETTI / AFP)

Poi è arrivato il «commento» di Pechino (dopo giorni di silenzio perché il governo cinese «non entra nelle discussioni commerciali») e le azioni di Ck Hutchison sono precipitate del 5% alla Borsa di Hong Kong. Cosa è successo? Pechino ha invitato a «pensarci due volte» sull’accordo che include i porti del Canale di Panama, parte di un’operazione da 22,8 miliardi di dollari conclusa con il colosso americano BlackRock, in quanto «ignora gli interessi nazionali».

È bastato un commento sul Ta Kung Pao, testata honkonghese fedele alla linea del regime, subito ripreso dall’Ufficio cinese per gli affari del territorio, ovvero la longa manus di Pechino a Hong Kong. Nel testo si attaccano gli Usa per aver fatto pressione «con mezzi spregevoli». I critici «affermano che questa sia una mossa senza spina dorsale, servile, a scopo di lucro che vende la propria integrità per guadagni personali e un atto che ignora gli interessi nazionali e tradisce tutti i cinesi». Spedizioni e commercio della Cina sarebbero frenati dagli Usa e Ck Hutchison dovrebbe «pensarci due volte» su «quale posizione e parte schierarsi».

Cina e Hong Kong hanno rappresentato quasi il 14% dei ricavi di Ck Hutchison nel 2023, contro il circa 50% di Regno Unito ed Europa. In base all’accordo, 43 porti di Ck Hutchison del miliardario di Hong Kong ultranovantenne Li Ka-shing, ritiratosi da presidente nel 2018 ma attivamente coinvolto nei negoziati, saranno trasferiti al consorzio guidato da BlackRock. Nella lista dei porti figurano i due a ciascuna estremità del Canale di Panama (Cristobal e Balboa) e altri in Gran Bretagna e Germania, nel Sudest asiatico, in Medio Oriente, Messico e Australia.

Il numero uno di BlackRock Larry Fink ha informato l’amministrazione Trump, inclusi il presidente e il segretario di Stato Marco Rubio, per assicurarsi il loro sostegno all’acquisizione. Tutto sembra tornato in alto mare.

9. I reali inglesi si schierano con il Canada

editorialista

Luigi Ippolitocorrispondente da Londra

Discretamente, senza far rumore, la famiglia reale britannica si schiera col Canada minacciato da Donald Trump: e lo fa nel suo stile, lanciando segnali in codice indirizzati a chi vuol capire. Come è noto, i reali non prendono mai apertamente posizioni politiche: ma ci sono molti modi per far intendere qual è il loro orientamento.

Il segnale più clamoroso all’indirizzo della Casa Bianca è arrivato dalla principessa Kate: alla commemorazione per il Commonwealth, lunedì nell’abbazia di Westminster, la moglie di William si è presentata con un abito sgargiante che richiamava il rosso della bandiera canadese. Ma un occhio attento avrebbe notato anche che Carlo e Camilla sedevano su due troni made in Canada, donati a suo tempo a Giorgio VI, decorati con motivi a foglie d’acero, il simbolo della nazione nordamericana, e che davanti a loro gli inginocchiatoi portavano incisi lo stemma canadese.

E c’è di più. Re Carlo, poche ore dopo aver incontrato il premier canadese uscente, Justin Trudeau, è andato in visita a bordo di una delle due portaerei britanniche: e sull’uniforme esibiva le decorazioni canadesi. Martedì, poi, ha piantato un albero di acero nel giardino di Buckingham Palace.

Come è stato più volte fatto notare, nulla di quanto fanno i reali avviene a caso, tutto è scrupolosamente pianificato con un intento preciso: e i gesti di questi giorni non lasciano spazio a dubbi. Come ha detto una fonte di Palazzo, «il re sa che gesti apparentemente piccoli possono mandare un rassicurante segnale di riconoscimento riguardo a ciò che sta succedendo nel mondo».

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10. E il principe William racconta i suoi riti scaramantici da tifoso dell’Aston Villa

Ogni tifoso di calcio che si rispetti ha il suo personalissimo bagaglio di riti scaramantici. C’è chi indossa sempre un particolare indumento (una sciarpa, una maglietta) e chi invece preferisce guardare la partita della propria squadra del cuore sempre nello stesso posto. Quando le cose, però, durante il match non vanno bene c’è anche chi prova a cambiare il flusso degli eventi, irrazionalmente e cocciutamente convinto che anche un suo piccolissimo gesto possa contribuire a raddrizzare le sorti degli 11 beniamini in campo. Magari spostandosi o, nei casi più mistici, facendo spostare le persone vicine a lui.

 

 

A quest’ultima categoria appartiene anche il principe William, erede al trono d’Inghilterra e grande tifoso dell’Aston Villa, che in una chiacchierata col tabloid Sun ha raccontato la sua passione tra gesti apotropaici come quello di far cambiare posizione ai propri figli George, Charlotte e Louis quando guardano insieme le partite in tv o la commozione per il «senso di appartenenza» che si respira tra i tifosi al Villa Park, lo stadio della squadra di Birmingham.

 

BIRMINGHAM, ENGLAND - MARCH 12: Prince William, Prince of Wales, celebrates after the first Aston Villa goal during the UEFA Champions League 2024/25 Round of 16 Second Leg match between Aston Villa FC and Club Brugge KV at Villa Park on March 12, 2025 in Birmingham, England. (Photo by Gareth Copley/Getty Images)Il principe William esulta durante l’ultima partita di Champions League dell’Aston Villa

William è nato il 21 giugno del 1982: nemmeno un mese prima, proprio l’Aston Villa aveva conquistato la sua prima e unica Coppa dei Campioni sconfiggendo in finale per 1-0 il Bayern Monaco. «Sì, c’è un bel legame per questo». Sarà dura ripetersi, ma intanto la squadra quest’anno è ai quarti di Champions League e se la vedrà col Paris Saint Germain.

«Alcuni amici di famiglia quando ero più giovane mi portarono alla mia prima partita. Era contro il Bolton ed ero sugli spalti col mio berretto del Villa e ricordo che all’epoca Paul Merson giocava per noi (erano quindi gli anni tra il 1998 e il 2002, ndr)». A colpire l’allora principe di Galles teenager furono «il cameratismo tra i tifosi e il loro cantare e inneggiare. Ho avuto subito la sensazione di appartenere a quel posto», ha spiegato.

 

 

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Grazie per averci seguito anche questa settimana, buon weekend,

​Andrea Marinelli

«America-Cina» esce dal lunedì al venerdì alle ore 13

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