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martedì 8 aprile 2025
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Usa-Cina, la guerra dei dazi |
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di Alessandro Trocino
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«Navarro è un idiota, più stupido di un sacco di mattoni» Elon Musk
Una frase forte, che segnala una situazione sempre più complessa sul fronte dei dazi, anche se ieri il picco di attenzione si è concentrato sullo scontro Cina-Stati-Uniti. C’è chi dice che Pechino fosse sin da subito il vero obiettivo di Donald Trump, ma se anche non fosse vero, siamo comunque arrivati a uno scontro drammatico, che mette per un momento in secondo piano la crisi mondiale delle borse e i tormenti dei Paesi – a cominciare dall’Europa – che devono rispondere all’aggressione economica degli Stati Uniti.
La Cina ha scelto di rispondere a muso duro a Trump e il tycoon non si è tirato indietro: risultato, da oggi la Cina subirà dazi del 104 per cento sulle merci esportate verso gli Stati Uniti. Un’escalation che forse ci dice qualcosa rispetto all’atteggiamento complessivo di Trump.
La domanda che si pongono analisti e politici è questa: Trump ha messo i dazi solo per trattare condizioni migliori per gli Stati Uniti e ottenere più acquisti da parte degli altri Paesi, oppure la sua decisione è definitiva e serve a riscrivere le regole del gioco? In altri termini, ha pensato i dazi come temporanei o come permanenti? Nel primo caso, ha senso andare alla trattativa, se si ha un peso specifico e qualcosa da offrire. Nel secondo, non avrebbe molto senso cercare una mediazione e conviene cercare alternative, alleanze e nuovi spazi commerciali.
Si sa che nell’entourage di Trump ci sono opinioni diverse. Ci sono i falchi, come Peter Navarro, che sul Financial Times ieri ha chiarito che Trump non tornerà indietro. E ci sono invece i conservatori liberisti vecchio stampo, che rimpiangono Ronald Reagan. Ma anche i nuovi tecnomiliardari, che temono sconquassi, che hanno già visto profilarsi con il crollo delle Borse. Tra questi c’è Musk, che ha dedicato a Navarro quel pensiero poco affettuoso che abbiamo citato prima e che avrebbe cercato, invano, di convincere Trump a una marcia indietro. A favore della tesi che i dazi siano sostanzialmente definitivi, c’è l’obiettivo dichiarato di far trasferire le aziende straniere sul territorio americano, operazione che non avrebbe senso – visto la difficoltà, i tempi e i costi – se i dazi fossero destinati a rientrare. Ma vedremo.
Parleremo anche di Borse che, dopo il crollo di lunedì, hanno recuperato parzialmente le perdite. Del dibattito italiano, con la premier Giorgia Meloni che ha annunciato 25 miliardi subito per le imprese e delle altre notizie importanti di giornata.
Oggi è mercoledì 9 aprile e questa è la Prima Ora del Corriere.
Lo scontro sui dazi
Cina vs Usa I primi dazi imposti da Trump alla Cina, il suo nemico giurato di sempre, erano del 34 per cento. Pechino aveva risposto con l’equivalente del 34. A questo punto il presidente americano aveva dato tempo fino a ieri per cancellarli. Ma la Cina ha rifiutato, dicendo di non volersi piegare al ricatto. Trump sembrava sperarci, tanto da scrivere sul suo social Truth: «Anche la Cina vuole fare un accordo, ma non sa come iniziare. Stiamo aspettando la loro chiamata. Succederà!». Non è successo. E così la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha annunciato che oggi entrano in vigore dazi del 104%, ovvero con un ulteriore 50% imposto in aggiunta alla tariffa «reciproca» del 34%.
Commenta Danilo Taino, in un editoriale illuminante: . «L’obiettivo dichiarato di Pechino è da un decennio quello “revisionista”, cioè mettere fine al modello liberale occidentale e sostituirlo con il proprio. Trump esaudisce il desiderio di Xi: diventa il maggiore revisionista sulla piazza e fa suo il modello illiberale cinese».
Le Borse provano il rimbalzo È un modo tecnico per dire che provano a recuperare le grandi perdite dei giorni scorsi. La sintesi della giornata è questa: listini europei in rialzo di oltre il 2% mentre Wall Street continua ad affondare, con un calo vicino al 3%. Gli operatori provano ad appigliarsi a qualche segnale positivo. Come le parole del segretario al Tesoro Usa Scott Bessent, che ha detto al New York Times che «a un certo punto, il presidente Usa sarà pronto a negoziare».
La strategia europea Nel giorno in cui entrano in vigore i dazi del 20% imposti dagli Stati Uniti, i Paesi Ue votano la prima contromisura. Nel primo pomeriggio si riunisce il comitato tecnico che voterà la lista di prodotti Usa a cui saranno applicati dazi del 25% e del 10% in risposta alle tariffe del 25% imposte da Washington su acciaio, alluminio e derivati Made in Eu. Il valore dei beni americani colpiti sarà di 21 miliardi di euro, molto meno dei 380 miliardi che assommano i dazi di Trump. Il motivo che la Ue vuole negoziare: il bazooka – spiega il portavoce della Commissione Olof Gill – è sempre sul tavolo ma prima si vuole parlare. Il «bazooka» è lo strumento anticoercizione che include restrizioni all’import ed export di beni e servizi, sui diritti di proprietà intellettuale e sugli investimenti diretti esteri.
I controdazi entreranno in vigore in tre fasi, proprio per lasciare tempo al negoziato. Una prima tranche di prodotti dal 15 aprile, una seconda dal 16 maggio e una terza dal primo dicembre.
La strategia italiana Giorgia Meloni ha ricevuto una ventina di rappresentanti delle categorie imprenditoriali e ha annunciato tre piani di interventi:
1. Sostegni alle imprese attraverso la riprogrammazione dei fondi di Pnrr, Coesione e piano Energia e clima, per almeno 25 miliardi complessivi.
2. Ammorbidimento dei vincoli imposti dal green deal e del patto di stabilità, veri «dazi autoimposti».
3. Trattativa con gli Usa. La premier ha ufficializzato il suo viaggio a Washington del 17 aprile. L’obiettivo ambizioso (forse troppo) della missione è quello di «dazi zero per zero dazi».
Apple va a picco Il peggiore di tutti i sette colossi tecnologici Usa in Borsa è stato Apple, che in cinque giorni ha perso il 18,9 per cento. Un tracollo che ha a che fare con una catena di forniture molto complessa, che dipende soprattutto dall’Asia. E i dazi, secondo i calcoli della Reuters, rischiano di far schizzare il prezzo di un Iphone a 2.300 dollari (dagli attuali 1599).
Zelenky e i due soldati cinesi
Volodymyr Zelensky ha denunciato la cattura di due soldati cinesi che combattevano con le unità russe nelle zone occupate del Donetsk. L’obiettivo dell’enfatizzazione, scrive Paolo Salom, è «puntare il dito verso la Cina nella speranza di convincere Donald Trump ad essere più duro con la Russia».
Alta tensione Teheran-Usa
I colloqui tra Iran e Usa, che si terranno sabato in Oman, rischiano di complicarsi. Se Trump aveva parlato di colloqui «diretti», l’Iran parla di «indiretti». Scrive Greta Privitera: «Nessuno conosce i dettagli delle istanze che Steve Witkoff, inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente, porterà sul tavolo negoziale, ma è opinione condivisa che Trump chiederà lo smantellamento del programma nucleare — «modello Libia», dice Netanyahu — una condizione che Khamenei non può accettare anche per le pressioni degli ultraconservatori e dei giovani radicali nelle file dei pasdaran che già definiscono il regime traditore». La portavoce americana Karoline Leavitt non è stata tenera: «Gli iraniani possono negoziare oppure pagheranno con l’inferno». Ma già l’altro giorno Trump aveva minacciato di bombardare e c’è la possibilità che dia il via libera a Israele.
Quarta donna fuori dalle forze armate Usa
La battaglia contro l’inclusione e la diversità ha come effetto collaterale una vera e propria purga ai vertici delle forze armate statunitensi. Vittime: le donne. Ieri è stata sollevata dal suo ruolo Shoshana Chatfield, viceammiraglio della Marina e rappresentante degli Usa presso il comitato militare Nato di Bruxelles. È la quarta. A prenderle di mira, il segretario alla Difesa Pete Hegseth.
Guterres contro Israele: Gaza ormai è «a killing field»
Il segretario generale dell’Onu António Guterres alza i toni e denuncia la situazione di Gaza e le responsabilità di Israele: definisce Gaza «a killing field». L’espressione si può tradurre come «un campo di uccisioni», ma è stata usata anche per definire i campi di sterminio di Pol Pot in Cambogia. Guterres aggiunge che «i civili sono in un ciclo di morte senza fine». Da oltre un mese, ricorda, «non entra una sola goccia di aiuti: né cibo, né carburante, né medicinali».
Centrodestra contro i ballottaggi
Il centrodestra ritirerà l’emendamento al decreto legge sulle elezioni che abolisce il turno di ballottaggio alle amministrative nei Comuni sopra i 15 mila abitanti. Ma i capigruppo a Palazzo Madama di FdI, Lega, FI e Noi Moderati, assicurano con una nota che «il ballottaggio alle amministrative sarà abolito» con un disegno di legge. Fermamente contrario il centrosinistra, che protesta con forza.
Due decisioni che fanno discutere
Sentenza Turetta Si può spiegare l’accanimento di una persona, Filippo Turetta, che ha sferrato 75 coltellate, escludendo la «crudeltà» e ipotizzando invece l’«inesperienza»? Lo hanno fatto i magistrati, nella sentenza che lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giulia Ceccettin, ma che ha escluso l’aggravante della crudeltà. Contro queste motivazioni, arrivano critiche da Lega, Forza Italia, Avs e M5s.
Richiesta di archiviazione per La Russa I pm hanno chiesto di archiviare l’inchiesta per violenza sessuale a carico del figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa, Leonardo Apache. La «ragazza era sincera» nel pensare di essere stata violentata, hanno detto i pm, ma un cocktail di cocaina e alcol le ha cancellato la memoria. La Russa era invece convinto che il rapporto fosse consenziente. Ci si chiede come possa essere consensuale un rapporto per una persona alterata, sotto l’effetto di sostanze. Ma scrive Giuseppe Guastella: «Per i consulenti dei pm del procuratore Marcello Viola, la giovane è una persona “fragile con patologia psichiatrica” che, in presenza di mix di alcol, droga e farmaci, potrebbe aver perso i freni inibitori e subìto un’amnesia. “Un soggetto sovraeccitato e accentuato nei sensi” che potrebbe aver dato il consenso agli atti sessuali e poi aver rimosso tutto». I video scagionerebbero gli accusati. La Russa Jr e l’amico dj Tommaso Gilardoni rischiano comunque il processo per diffusione illecita di video sessualmente espliciti.
Le altre notizie
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La premier Meloni ha telefonato alla mamma di Alberto Trentini, ostaggio in Venezuela da 4 mesi, assicurando che si sta lavorando per salvarlo.
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Un giovane biologo italiano, Alessandro Coatti, che era in vacanza in Colombia, è stato ucciso, fatto a pezzi e nascosto in una valigia.
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Re Carlo continua la sua visita a Roma.
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L’Inter vince 2-1 con il Bayern Monaco nell’andata dei quarti di finale di Champions. Gol di Lautaro e Frattesi. Qui la cronaca.
Da leggere
Giulio Ferroni recensisce l’ultimo atto della saga di Antonio Scurati, «M – La fine e il principio».
Da ascoltare
Nel podcast «Giorno per giorno», Francesca Basso parla della strategia decisa dall’Unione europea per replicare ai dazi imposti dagli Stati Uniti. Greta Privitera spiega come si è arrivati ai futuri colloqui tra gli Usa e Iran. Giuseppe Guastella racconta della richiesta di archiviazione per violenza sessuale nei confronti di Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato.
Le opinioni
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«Salvini, Musk, Vannacci, come è cambiata la Lega», di Aldo Cazzullo.
Il Caffè di Massimo Gramellini
«Il metalupo di Musk»
«So bene che, per la logica binaria imperante («O sempre di qua o sempre di là»), chiunque contesti gli impulsi reazionari di Elon Musk dovrebbe condannarne in blocco ogni altro aspetto. Invece lasciatemi dire che, mentre sui nazisti dell’Illinois la pensiamo agli antipodi, sul metalupo Elon e io andiamo d’amore e d’accordo. Il metalupo è un animale preistorico presente nella serie Il trono di Spade e appena ricreato (qualunque cosa significhi «ricreato») in laboratorio. Non da un’azienda che fa capo a Musk — lo preciso prima che qualcuno cominci a boicottarla — ma suscitando il suo infantile entusiasmo, al punto che l’ormai ex consigliere di Trump (ieri ha dato meritatamente del cretino a un collaboratore del presidente che esaltava i dazi) ha rilanciato: «E ora un cucciolo lanoso di mammut!».
Jurassic Park è lì a ricordarci che il desiderio umano di piegare le leggi del creato, ricreando il passato o precorrendo il futuro, può produrre guasti inenarrabili. Ma in un mondo pieno di gabbie mentali, prima ancora che economiche e sociali, dove ogni volta che qualcuno ha un pensiero originale si sente immediatamente rispondere «non si può fare» oppure (ed è la stessa cosa) «lo abbiamo sempre fatto», questo Musk a metà tra l’Ulisse di Dante e il Superuomo di Nietzsche è una presenza destabilizzante ma necessaria, proprio perché imprevedibile. L’esatto opposto dei suoi amati algoritmi, dato che nessun algoritmo di buonsenso potrà mai desiderare un cucciolo lanoso di mammut».
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martedì 8 aprile 2025
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Il discorso di Obama, gli inciampi di Merz, la risposta cinese, il pollo no grazie, la cicloprotesta dei serbi, gli spettri di Cronenberg |
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di Gianluca Mercuri
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Barack Obama ha parlato, e come sempre ha lasciato il segno. In questo momento unico della storia americana e mondiale, le parole del 44° presidente erano particolarmente attese. E certo:
- Obama ha messo in luce tutte le distorsioni che Donald Trump sta imprimendo alla democrazia americana.
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Ha esortato le università e gli studi legali a non cedere al ricatto del presidente, che taglia i fondi se non fanno quello che vuole lui: hanno abbastanza soldi per resistere un bel po’.
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Ha invitato «il cittadino comune» a dire no alla tracotanza trumpiana, a capire che sono in gioco i valori fondanti di quella grande nazione.
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Ha sottolineato che questi valori fondanti, lo stato di diritto, la libertà di stampa, l’indipendenza della magistratura, tendiamo a considerarli astratti, a pensare che non c’entrino niente col prezzo delle uova. «Ebbene, sapete cosa? Stanno influendo sul prezzo delle uova».
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Ha ironizzato sulle grandi aziende che da un giorno all’altro hanno cancellato le norme su diversità e inclusività perché, come dire, non erano più cool.
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Ha immaginato che cosa sarebbe successo, se le stesse cose che sta facendo Trump le avesse fatte lui.
Ma Obama non ha detto solo queste cose «di sinistra». Ha ricordato anche gli errori che hanno fatto sentire esclusa l’altra mezza America, e l’intolleranza portata nei campus dagli eccessi del pensiero woke. Si può pensarla in ogni modo, e ricordare tutti i limiti del sogno obamiano, ma come si fa a non notare la differenza tra parole così oneste e i toni del suo successore (e del suo vice)? E soprattutto: il pericolo che Trump e Vance rappresentano? Per questo è utile riportare ampi stralci del discorso di Barack Obama.
E poi, in questa Rassegna:
Le difficoltà di Merz I negoziati tra Csu/Cdu e Spd per il nuovo governo tedesco sono quasi conclusi. Ma il futuro cancelliere Friedrich Merz è in difficoltà prima ancora di entrare in carica. Cala nei sondaggi e viene criticato da parte del suo stesso partito. Elena spiega perché. Ma anche come potrà superare le turbolenze.
Prova di forza Trump ha appena annunciato un ulteriore dazio del 50% sulle merci cinesi che arrivano negli Usa (portando il totale a oltre il 100%). Pechino sembra ferma sulla linea del «lotteremo fino alla fine». L’Economist spiega perché Xi Jinping è convinto di poter vincere la guerra dei dazi. Ma teme che l’esito del braccio di ferro sarà il «disaccoppiamento» fra le due maggiori economie del mondo. E il conto lo pagheranno tutti. Ne parla Luca.
Pollo no grazie Ovvero: quello americano (disinfettato alla clorina) è meglio che se lo tengano. Ma lo scontro sui dazi, scrive Ferruccio de Bortoli nei suoi Frammenti quotidiani, può avere almeno l’effetto positivo di indurre l’Europa a rivedere qualche regola di troppo.
La cicloprotesta da Belhgrado Da mesi i giovani serbi protestano ogni sabato in piazza contro il governo di Alexander Vucic. Non se ne parla tanto. Così a decine hanno deciso di sensibilizzare l’Europa con una maxi-pedalata di gruppo fino a Strasburgo: 1.300 chilometri in 12 tappe. Una magnifica iniziativa, raccontata da Massimo Nava.
La Cinebussola Un Cronenberg un po’ funereo rivive di fatto la perdita della moglie attraverso un perfetto Vincent Cassel. Ma The Shrouds a Paolo Baldini è piaciuto: «Autentico, visionario, appassionato».
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Rassegna americana
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«La carica più importante in questa democrazia è il cittadino, la persona comune che dice: no, non è giusto»
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Quelli che seguono sono brani del discorso che il 44° presidente degli Stati Uniti ha tenuto il 3 aprile allo Hamilton College di New York
Permettetemi di premettere quello che tutti sanno, ovvero che ho profonde divergenze di opinione con il mio più immediato successore, che ora è di nuovo presidente. Ci sono un’infinità di politiche di cui potremmo discutere e sulle quali ho opinioni forti, ma almeno per la maggior parte della mia vita, direi il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, c’è stato un ampio consenso tra democratici, repubblicani, conservatori e liberal su un certo insieme di regole con cui appianare le nostre differenze.
Ci sono alcuni legami che trascendono il partito, il territorio o l’ideologia. C’era un credo a cui tutti ci attenevamo. La nozione di base della democrazia americana, incarnata dalla nostra Costituzione e dal Bill of Rights, è che tutti noi contiamo, tutti noi abbiamo dignità, tutti noi abbiamo valore, e che istituiremo un sistema in cui ci siano lo Stato di diritto, la separazione dei poteri e una magistratura indipendente.

Ci sono queste libertà, la libertà di culto e la libertà di stampa e la garanzia che, se andiamo davanti alla legge, ci sarà un processo. Tutti ci siamo attenuti a questo, più o meno. Questo non significa che non ci fossero politici corrotti. Non significa che non ci siano stati abusi di potere. Nella società stessa, ovviamente, c’erano grandi differenze in termini di accesso, di influenza e di potere. Ma abbiamo detto che, anche se questo ideale non è stato sempre rispettato, era l’ideale giusto da avere.
Credo che il nostro impegno nei confronti di questi principi si sia eroso, e credo che si sia eroso in parte perché il governo stesso è diventato molto grande. Ciò ha significato che a volte si è sentito distante e poco reattivo, e le regole sono una seccatura. Alcune regole non sono intelligenti e la gente si sente frustrata. Penso che parte di ciò che è successo sia anche il fatto che bisogna accettare di non essere d’accordo e avere tolleranza verso le persone con cui non si è d’accordo, visto che siamo tutti simili.
Quando sono arrivato al Senato degli Stati Uniti, ero l’unico afroamericano. C’era un ispanico al Senato degli Stati Uniti. Non sono così vecchio, quindi è una cosa abbastanza recente. Per rendersi conto di quanto fosse diverso bastava guardare la palestra degli uomini al Senato rispetto a quella delle donne. Palestra per uomini, molto grande, e vecchi che camminavano senza indossare abbastanza roba. La palestra per le donne era fondamentalmente uno sgabuzzino modificato con una bicicletta, perché non ce n’erano molte.
In quel periodo della nostra storia, credo che ci fosse un senso generale di “beh, se sono un dixiecrat, un democratico del Sud, se sono un repubblicano del Nord, se sono questo o quello, se ho questa o quella prospettiva in termini di conservatorismo fiscale o di moderazione sociale”, comunque andavamo tutti nello stesso club e parlavamo tutti delle stesse cose.
Poi, a partire dagli anni ’60 e ’70, la gente si è imbucata alla festa.
Ora è un po’ più difficile accettare di essere in disaccordo senza essere sgradevoli, se si pensa che quella persona non è come me. Non mi somiglia, forse non la pensa esattamente come me. Sono più incline a sentirmi attaccato o minacciato. Questo, credo, ci ha reso un po’ più tribali nella nostra politica.
Poi l’economia non funzionava per tutti. Questo, in parte, aveva a che fare con il fatto che il governo non rispondeva come avrebbe dovuto, e la disuguaglianza è cresciuta. Infine, i media. Credo che uno degli aspetti più importanti della nostra pratica democratica sia la presenza di una cittadinanza ben informata, che dipende da una stampa libera, obiettiva ed efficace, e questa ha iniziato a essere attaccata.
Abbiamo visto com’è andata la combinazione di tutti questi fattori nel corso dei decenni. Ma ovviamente ora la situazione è molto peggiorata. Quando osservo alcune delle cose che stanno accadendo ora, non credo che ciò a cui abbiamo appena assistito in termini di politica economica e di tariffe sia positivo per l’America, ma questa è una politica specifica. Mi preoccupa di più un governo federale che minaccia le università se non consegnano gli studenti che esercitano il loro diritto alla libertà di parola.
Mi turba di più l’idea che la Casa Bianca possa dire agli studi legali: “Se rappresentate soggetti che non ci piacciono, non vi affideremo più i nostri affari o vi impediremo di rappresentare efficacemente le persone”. Questo tipo di comportamento è contrario al patto di base che abbiamo come americani.
Immaginate se avessi fatto tutto questo. Voglio essere chiaro su questo punto. Immaginate se avessi ritirato le credenziali di Fox News dal corpo dei giornalisti della Casa Bianca. State ridendo, ma è quello che sta succedendo. Immaginate se avessi detto agli studi legali che rappresentavano soggetti contrari alle politiche avviate dalla mia amministrazione: “Non vi sarà permesso di entrare negli edifici governativi”. “Vi puniremo economicamente per aver dissentito dall’Affordable Care Act o dall’accordo con l’Iran”. “Rintracceremo gli studenti che protestano contro le mie politiche”. È inimmaginabile che gli stessi partiti che ora tacciono avrebbero tollerato un comportamento del genere da parte mia o di molti miei predecessori.

Non lo dico per una questione di parte. Ha a che fare con qualcosa di più prezioso, ovvero chi siamo noi come Paese e per quali valori ci battiamo? Non si tratta di un’astrazione. Penso che questa sia una delle sfide che abbiamo, e l’ho visto anche prima delle ultime elezioni. Penso che le persone tendano a pensare: “Oh, democrazia, stato di diritto, indipendenza della magistratura, libertà di stampa. Sono tutte cose astratte perché non influiscono sul prezzo delle uova”. Ebbene, sapete cosa? Stanno influendo sul prezzo delle uova.
Una delle cose che ci ha contraddistinto in passato è stata l’idea di fondo che siamo una società basata sulle regole. Ciò significa che posso sostenere un candidato anziché un altro e non devo preoccuparmi che la polizia venga a molestare me o i miei clienti. Questo è ciò che accade in altri luoghi. È quello che succede in Russia.
Diamo per scontata l’idea di non dover pagare tangenti o assumere il cugino di qualcuno per ottenere un permesso commerciale. È così che abbiamo costruito l’economia che abbiamo costruito. Ecco perché questo posto ha funzionato. Ha un impatto concreto sulla vita di tutti noi.
È la prima volta che parlo pubblicamente da un po’ di tempo. Ho osservato un po’. Sì. Permettetemi di concludere questa parte del mio intervento dicendo che spetta a tutti noi risolvere la situazione. Non si risolverà perché qualcuno viene a salvarvi. La carica più importante in questa democrazia è il cittadino, la persona comune che dice: no, non è giusto. Penso che una delle ragioni per cui il nostro impegno verso gli ideali democratici si è eroso è che siamo diventati piuttosto pigri e compiacenti.
Per la maggior parte della nostra vita è stato facile dire di essere un progressista o di essere per la giustizia sociale o di essere per la libertà di parola senza doverne pagare il prezzo. Ora siamo in uno di quei momenti in cui non è sufficiente dire di essere a favore di qualcosa, ma è necessario fare qualcosa e forse sacrificarsi un po’.
Se siete uno studio legale minacciato, potreste dover dire: ok, perderemo un po’ di affari perché difenderemo un principio. Se siete un’università, dovrete capire se state facendo le cose per bene. Abbiamo violato i nostri valori, il nostro codice, abbiamo violato la legge in qualche modo? Se non è così, e vi stanno solo intimidendo, dovreste essere in grado di dire che è per questo che abbiamo questi grandi finanziamenti. “Ci batteremo per ciò in cui crediamo, e pagheremo i nostri ricercatori per un po’ di tempo con quei finanziamenti, e rinunceremo all’ala in più o alla palestra di lusso, che possiamo rimandare di un paio d’anni perché la libertà accademica potrebbe essere un po’ più importante”.
Per la maggior parte della storia dell’umanità, e ancora oggi, nella maggior parte dei luoghi del mondo, sfidare i potenti ha un costo, soprattutto se questi abusano del loro potere.
C’è questa idea, e l’ho notata tra le persone più ricche, che dopo George Floyd erano proprio lì e un gruppo di aziende parlava di quanto tenessero alla diversità, e volevano fare questo, ed erano tutti a favore di questo. Ora sono muti.
Ma questo mi dice che andava bene quando era cool e di moda e quando non lo è più, non va tanto bene. Questo, credo, è ciò che ognuno di noi deve esaminare nel proprio cuore. Diciamo di essere per l’uguaglianza, ma siamo disposti a lottare per essa? Siamo disposti a rischiare qualcosa per ottenerla? Diciamo di essere per lo Stato di diritto: ci atterremo a questo principio quando sarà difficile e non quando sarà facile? Crediamo nella libertà di parola: ci battiamo per la libertà di parola quando l’interlocutore dice cose che ci fanno infuriare e che sono sbagliate e offensive? Ci crediamo ancora?
Per gli studenti universitari e per la vostra generazione credo che questo sia importante, perché in parte ci siamo confusi su alcuni di questi temi, visto che coloro che sostenevano di lottare per la giustizia sociale, la libertà di parola e l’uguaglianza, a volte non la osservavano. Sono lieto di sentire che qui nel campus vi concentrate sull’iniziativa Common Ground. Sono stato assolutamente chiaro durante tutta la mia presidenza e post-presidenza: l’idea di cancellare un oratore che viene nel vostro campus, cercando di gridargli addosso e di non lasciarlo parlare, non solo non è ciò che le università dovrebbero essere, ma non è ciò che l’America dovrebbe essere: anche se trovate le sue idee odiose. Lo si lascia parlare e poi gli si dice perché si sbaglia. È così che si vince la discussione.
Lasciate che vi dica che nel mondo avrete a che fare con persone a cui non piacete e che dicono cose cattive su di voi. È meglio che vi abituiate. A volte avrete capi orribili, o colleghi che dicono cose odiose e in alcuni casi si scoprirà che in realtà sono brave persone che non hanno usato la parola giusta per qualcosa, o che hanno bisogno di essere istruite, informate su qualcosa. Ebbene, bisogna che vi abituiate a questo.
Alcuni di questi principi fondanti sono quelli a cui non è solo una parte o l’altra a non essere stata fedele. Credo che in alcuni casi ne siamo stati tutti colpevoli, alcuni più di altri, ed è importante ora che ci concentriamo su chi siamo e su ciò in cui crediamo.
(Traduzione a cura di Gianluca Mercuri)
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Rassegna tedesca
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I primi inciampi di Merz, nei guai con i suoi e nei sondaggi (ma il coraggio può premiarlo)
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In Germania l’accordo di coalizione per un nuovo governo tra i conservatori tedeschi della Cdu/Csu – vincitori delle elezioni di sei settimane fa – e i socialdemocratici (Spd) è sempre più vicino, tanto che secondo il quotidiano Bild potrebbe arrivare già domani. O al più tardi entro questa settimana. Ma l’inizio dell’esecutivo che sarà guidato da Friedrich Merz è già in salita.
Secondo il sondaggio Insa pubblicato sabato dal settimanale Bild am Sonntag, la Cdu/Csu di Merz è scesa di due punti, al 24% delle intenzioni di voto (se si andasse alle urne oggi) e ora è alla pari con l’Afd, che invece ha guadagnato un punto. È la prima volta che i due partiti hanno (anche se solo teoricamente) gli stessi consensi ed è la prima volta nel dopoguerra che un partito di estrema destra è in testa ai sondaggi: una svolta simbolica ma politicamente importante nella continua ascesa dell’estrema destra in Germania. La co-leader di Afd Alice Weidel ne ha approfittato subito per rigirare il coltello nella ferita di Merz: «I cittadini non vogliono più un governo di sinistra in cui la Cdu/Csu si lascia dettare la politica da Spd e Verdi. È tempo di una vera svolta politica dei cittadini!», ha scritto sabato su X.
Ma soprattutto, Merz inizia ad avere problemi con una parte del suo partito. Secondo un altro sondaggio dell’istituto Forsa, il 60% degli intervistati, tra cui il 28% degli elettori della Cdu/Csu, ritiene che il cancelliere in pectore non sia adatto al ruolo. La Junge Union (la «Giovane Unione», cioè la sezione giovanile del partito) gli ha rimproverato di «essersi sottomesso al pensiero dominante della sinistra». Il leader della Junge Union Johannes Winkel, in un’intervista al quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha dichiarato che è in gioco la credibilità di Merz. «Non possiamo continuare come prima», ha detto Winkel. «Soprattutto sui temi chiave delle elezioni: immigrazione, economia, riduzione della burocrazia. Merz deve ripagare il debito».
Il calo della Cdu è legato ad alcune scelte fatte dopo il voto e al posizionamento rispetto a quelli che Merz ha scelto come possibili alleati, i socialdemocratici. Subito dopo aver vinto le elezioni del 23 febbraio, ma prima di entrare in carica (cosa che non è ancora avvenuta visti i tempi lunghi della negoziazione), Merz ha fatto approvare con l’aiuto della Spd e dei Verdi un emendamento costituzionale che consente alla Germania di contrarre nuovo debito fino a mille miliardi di euro. In cambio i Verdi hanno ottenuto che 100 miliardi di investimenti saranno in infrastrutture e misure per l’economia che contribuiscano alla lotta contro i cambiamenti climatici.
Ma il leader della Cdu aveva fatto campagna elettorale sulla necessità di un ritorno al rigore fiscale che ha caratterizzato i governi tedeschi per decenni (mentre i socialdemocratici chiedevano un allentamento del famigerato freno tedesco al debito). Prometteva cioè di tornare all’austerità dei primi governi Merkel, quando il ministro delle Finanze era Wolfgang Schäuble.
Dopo aver letto gli ultimi sondaggi Merz è tornato a insistere sulle parole d’ordine pro-imprese che sono state centrali nella sua campagna elettorale. «La situazione sui mercati azionari e obbligazionari internazionali è drammatica e minaccia di peggiorare ulteriormente. È quindi più urgente che mai che la Germania ripristini la sua competitività internazionale il più rapidamente possibile», ha dichiarato Merz in una nota inviata via e-mail a Reuters. «Questo tema deve essere ora al centro dei negoziati di coalizione», ha aggiunto, ripetendo le richieste del suo partito per tagli fiscali, una riduzione della burocrazia e prezzi dell’energia più bassi.
L’ossessione per il rigore è una sorta di riflesso condizionato dei conservatori tedeschi, che non cambiano posizione (a differenza del loro leader) neppure di fronte agli sconvolgimenti mondiali degli ultimi anni, mesi e giorni. I dazi di Trump rischiano di essere molto costosi per la Germania, che ha un’economia fortemente orientata all’esportazione, già provata da due anni di contrazione. E investire per renderla in grado di prosperare in un mercato mondiale che sta cambiando velocemente è essenziale. Ma per molti conservatori questo sembra un boccone troppo grande da ingoiare.
A ciò si aggiunge il fatto che Merz con le sue prime mosse ha dato l’impressione di essersi avvicinato alle posizioni socialdemocratiche. La Spd è al governo dal 2013 (prima in coalizione con la Cdu/Csu sotto la cancelliera Merkel, poi in una debole alleanza con Verdi e liberali che l’ha costretta ad elezioni anticipate) ed è il partito che per i tedeschi delusi dalla politica rappresenta l’establishment, lo status quo. Afd al contrario, piace proprio perché dalla sua comoda posizione all’opposizione minaccia di abbattere quello status quo. Merz sta pagando questa impressione nei sondaggi.
Ma non aveva grandi alternative. «Il problema per Merz è che non ha molto potere per costringere l’Spd a piegarsi alla volontà dei conservatori. Il suo massiccio piano di spesa ha già dato all’Spd gran parte di ciò che voleva e, avendo escluso un’alleanza con l’AfD, non ha altri partner di coalizione validi» scrive il sito Politico.
Se il leader della Cdu saprà giocare bene le sue carte, però, potrà superare senza problemi questa difficoltà iniziale. Grazie alla riforma del freno al debito avrà fondi in abbondanza per stimolare l’economia e varare le riforme per snellire la burocrazia e aggiornare le infrastrutture (ci sono molte zone del Paese dove internet arriva ancora poco e male). E potrà far dimenticare ai suoi elettori l’intesa iniziale con Verdi e socialdemocratici. A patto che la base del centro-destra tedesco dimostri di non essere innamorata del rigore fine a se stesso.
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Rassegna economica |
Perché la Cina pensa di vincere (comunque) la sfida dei dazi con gli Usa |
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«Se la Cina non ritirerà le tariffe del 34 per cento entro l’8 aprile 2025, gli Stati Uniti imporranno alla Cina tariffe aggiuntive del 50 per cento, a partire dal 9 aprile», ha scritto pochi minuti fa sui social il presidente Usa Donald Trump. Se venissero applicate, la Cina dovrebbe affrontare tariffe cumulative del 104 per cento, comprendenti quelle già in vigore del 20 per cento, quelle del 34 per cento rese note mercoledì e l’ulteriore 50 per cento appena annunciato.
Poco prima, l’Economist aveva però pubblicato sul suo sito un articolo intitolato «Perché la Cina pensa di poter vincere una guerra commerciale con Trump», senz’altro utile per capire perché Pechino abbia deciso di rispondere a muso duro – «Combatteremo fino alla fine» – alle tariffe annunciate dal presidente americano il 2 aprile (ne ha scritto Paolo Salom qui). «Trump – scrive il settimanale britannico – chiede molto al suo rivale geopolitico, compreso arginare il flusso di precursori del fentanyl (l’oppioide che ha provocato migliaia di morti per overdose negli Usa, ndr) e aiutare a porre fine alla guerra della Russia in Ucraina. Il presidente americano ha anche rivelato di non voler essere responsabile della chiusura di TikTok, un’applicazione di proprietà cinese per la realizzazione di brevi video popolare tra i giovani americani (qui un’analisi di Martina Pennisi, ndr). Tesla, l’azienda di veicoli elettrici di proprietà di Elon Musk, consigliere di Trump, è vulnerabile alle ritorsioni, poiché svolge circa un quinto delle sue attività in Cina. “Si tratta di un’enorme leva per il governo statunitense, a meno che non si chieda a Elon di andarsene”, dice Alicia Garcia Herrero di Natixis, una banca francese. I funzionari cinesi potrebbero anche ritenere che l’America non sarà in grado di sopportare l’inflazione e il malcontento economico causati dai dazi di Trump. Invece di “lottare fino alla fine”, potrebbero dover lottare solo fino a quando i prezzi al consumo americani inizieranno a salire o l’occupazione a diminuire».
Inutile dire che, in questo continuo alzare di continuo la posta, ci sono grossi rischi per entrambe le parti. E quindi per l’intera economia mondiale. «Un’escalation della guerra commerciale significa che Xi Jinping dovrà fare di più per sostenere l’economia cinese. Il potenziale choc è stato paragonato alla crisi finanziaria globale del 2007-2009, che aveva richiesto un pacchetto di stimoli di 4 miliardi di yuan (590 miliardi di dollari). Li Qiang, premier di Xi, ha dichiarato a marzo che il Paese si sta preparando ad affrontare “choc esterni più grandi del previsto” e che è disposto a mettere in atto politiche per garantire la stabilità economica. Cosa questo significhi in pratica non è ancora chiaro».
Un possibile indizio arriva dal Quotidiano del Popolo, voce ufficiale di Pechino, un giornale di Stato, che il 6 aprile ha scritto che tagli ai tassi di interesse e ai coefficienti di riserva bancaria potrebbero arrivare in qualsiasi momento. Il giornale ha anche sostenuto che i governi locali aiuteranno gli esportatori in difficoltà a trovare nuove fonti di domanda in patria e nei mercati non americani. Soochow Securities, un broker cinese, ha suggerito che la Cina potrebbe ridurre le tariffe doganali nei confronti del resto del mondo, aumentando al contempo i sussidi alle esportazioni. Con il rischio, per gli altri mercati, a partire da quello europeo, di vedersi invasi da un’altra ondata di merci cinesi a prezzi resi concorrenziali anche dai sussidi statali.
Ma c’è anche il rischio, per l’Economist, che Xi pecchi di ottimismo sulla possibilità cinese di vincere il braccio di ferro. O che ne sottostimi le conseguenze. «Gli economisti temono che gli stimoli all’economia reale arriveranno con troppa lentezza, con interventi frammentari e di natura reattiva, che si concretizzeranno solo dopo un brusco rallentamento. Secondo Larry Hu della banca Macquarie, le cose peggioreranno prima di migliorare».
La vera posta in gioco, secondo il settimanale, è il «disaccoppiamento» dall’America, che fin qui la Cina, pur perseguendo una sua autosufficienza tecnologica, ha sempre detto di rifiutare, considerandolo un modo per l’Occidente di punirla. «Adesso però – segnala l’Economist – si registra un crescente sostegno. Alcune risposte pubblicate oggi online da vari commentatori ben informati, suggeriscono che la Cina sta prendendo in considerazione la sospensione di ogni cooperazione con l’America sul fentanyl. Un’altra idea è quella di vietare le importazioni di pollame americano e di altri prodotti agricoli, come soia e sorgo, che provengono principalmente da Stati repubblicani. La Cina potrebbe imporre restrizioni anche sui servizi americani, settore in cui lo zio Sam ha ancora un surplus commerciale (vale anche per l’Unione europea, ndr). Ciò includerebbe restrizioni sulle società di consulenza e sugli studi legali americani ancora operanti nel Paese. Potrebbe anche mettere sotto la lente la proprietà intellettuale detenuta da aziende americane. Se “lottare fino alla fine” significa allinearsi a qualsiasi nuova tariffa americana, Xi dovrà mordere la mela del disaccoppiamento».
L’Economist è pessimista sulla possibilità di un lieto fine a sorpresa: «C’è poco da fare per impedire un tale disaccoppiamento tra le due maggiori economie del mondo. Sebbene le intenzioni di Trump nello scatenare la più grande perturbazione del commercio nella storia moderna non siano del tutto chiare, sembra meno interessato che mai a trovare un accordo con la Cina. Tutti i negoziati saranno interrotti se la Cina imporrà il suo prelievo del 34%, ha dichiarato sul suo sito di social media, annunciando le ultime misure. I funzionari cinesi lo definiscono un “errore che segue un altro errore” e non hanno escluso la possibilità di colloqui. La loro dura risposta, tuttavia, probabilmente preclude questa possibilità».
Se sarà davvero così, lo scopriremo presto. Probabilmente anche a nostre spese.
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Frammenti |
La parabola del pollo americano disinfettato con la clorina |
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Anche di fronte alla proposta di “zero dazi contro zero dazi”, formulata dal commissario europeo Maroš Šefčovič, la reazione della controparte americana, dell’omologo Howard Lutnick e del consigliere Peter Navarro, è stata sempre sprezzantemente la stessa. Ovvero togliete l’Iva (una tassa sul consumo che pagano tutti) e tutte le barriere, comprese quelle sanitarie che sono a protezione della sicurezza alimentare. Prendiamone alcune.
L’Unione vieta l’importazione dei polli americani disinfettati con la clorina, pratica che da noi è fuorilegge, così come pone delle restrizioni sulla carne proveniente da allevamenti nei quali si usano gli ormoni. Una piccola quota di importazione di carne bovina è ammessa purché proveniente da allevamenti che non li impiegano. Non è vietata l’importazione di mais genetico americano. Noi stiamo comunque sviluppando le nuove tecniche di miglioramento genetico (Tea) che non mischiano geni provenienti da specie diverse. Qualche eccesso normativo comunque c’è stato. Per esempio nella legislazione proposta dall’ex vice presidente della Commissione europea, l’olandese Frans Timmermans, sulla riduzione del 50 per cento dei principi attivi, entro il 2030, nell’impiego dei fitofarmaci in agricoltura, tra l’altro in assenza di prodotti alternativi. Direttiva comunque bloccata dopo le proteste dei coltivatori (e grazie alla mediazione della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo).
Anche il contestato provvedimento della cosiddetta legge sul ripristino della Natura è stato emendato. L’obbligo di riposo delle terre è rimasto al 4 per cento delle superfici coltivate. Timmermans voleva l’8 per cento. La semplificazione della Politica agricola comunitaria (Pac) è comunque necessaria. Per esempio nelle norme sulla rotazione delle colture, senza le quali non vi è accesso alle agevolazioni comunitarie. Troppo complicate, molti vi rinunciano. In ogni caso, se c’è un aspetto positivo dell’offensiva americana è quello di costringere l’Unione a rivedere molte regole e ad abbattere alcune barriere interne. Ma sul pollo alla clorina e alle altre norme sanitarie, resistere, resistere, resistere.
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Rassegna europea |
La protesta in bicicletta degli studenti serbi |
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Milletrecento chilometri in bicicletta, da Novi Sad e da altre città della Serbia fino a Strasburgo, per far sentire nel cuore dell’Europa il grido di dolore del popolo serbo. Una pedalata per la democrazia, umiliata dagli eredi di Milosevic ancora al potere che, da anni, tengono in bilico il Paese, fra aspirazioni europee e vecchie alleanze slave e russofile, fra promesse di democrazia e repressione autoritaria. In marzo si è svolta a Belgrado la più grande manifestazione di protesta contro il governo dai tempi del regime di Milosevic. Ed è così da novembre, da quando il crollo di una stazione a Novi Sad ha innescato la miccia della mobilitazione popolare contro il presidente Alexander Vucic, ex portavoce di Milosevic, e contro un sistema di clientele e corruzione che drena quotidianamente le scarse risorse del Paese. La protesta ha finora prodotto le dimissioni del governo, ma il popolo serbo non ci accontenta di quella che non viene interpretata come una resa, bensì come un tentativo di serrare i ranghi e proseguire una politica.
Decine di studenti in bicicletta hanno attraversato in questi giorni il confine dell’Unione europea senza problemi con le guardie di frontiera ungheresi. Milica, una delle studentesse della spedizione, ha detto: «Abbiamo tutti attraversato il confine. Va tutto bene, siamo felici, il sole scalda, tutto va alla grande». In realtà ci sono stati anche giorni di pioggia battente. Come riferisce il reporter di Vreme al seguito, i partecipanti non possono pedalare tutti insieme in una colonna, ma sono divisi in più colonne, per un massimo di 14.
Uno studente serbo arrivato in bici ieri a Vienna (Epa)
Gli studenti di Novi Sad sono partiti per Strasburgo per diffondere in tutta Europa la notizia della situazione in Serbia. A Strasburgo, i ciclisti consegneranno una lettera ufficiale al Consiglio d’Europa (non un’istituzione Ue: è l’organizzazione per la promozione dei diritti umani e la democrazia fondata nel 1949, e che oggi ha 46 Paesi membri). Arriveranno a metà aprile, secondo un programma di circa dodici ore di pedalata al giorno. Andranno a Strasburgo passando per Budapest, Bratislava, Vienna, Linz, Salisburgo, Monaco, Augusta, Ulma e Stoccarda. Come hanno spiegato, queste sono grandi città universitarie, ma anche luoghi in cui vivono emigranti serbi. In pratica, la rotta del Danubio e del Reno, ideale congiunzione letteraria e culturale fra i Balcani e la Mitteleuropea.
Intanto, in Serbia, le proteste continuano. Molte scuole e università sono bloccate e gli studenti si danno appuntamento ogni sabato nelle piazze. Le forze dell’ordine hanno reagito duramente. Gli studenti accusano la polizia di avere utilizzato un «cannone sonoro» per controllare e disperdere la folla. Alcuni filmati hanno mostrato centinaia di persone che improvvisamente si allontanavano per ragioni apparentemente inspiegabili. Una petizione lanciata dagli attivisti ha chiesto un’indagine da parte delle Nazioni Unite, mentre la polizia, il ministero della Difesa, l’agenzia di sicurezza e il governo hanno negato fermamente l’uso di un tale dispositivo.
La folla che ha accolto gli studenti serbi in Maria-Theresien-Platz, a Vienna (Epa)
La situazione in Serbia rimane molto critica anche in relazione al quadro internazionale. E le tensioni si riverberano anche in Bosnia e in Kosovo. La Serbia è l’unico Paese del continente europeo (oltre alla Bielorussia) che non ha adottato sanzioni contro la Russia, nonostante sia un Paese candidato all’adesione alla Ue. È una posizione ambigua, tanto che Belgrado ha difeso, anche all’Assemblea generale dell’Onu, l’integrità territoriale ucraina, con un ovvio riferimento al Kosovo, la ex provincia serba diventata Stato indipendente. Così come è ovvia la strumentalità della Russia che equipara il Kosovo al Donbass. La Serbia ha anche rifornito di armi l’esercito ucraino.
Ancora più complicata la situazione nella vicina Bosnia, dove soffiano venti di separatismo nella Repubblica serbo-bosniaca, l’entità statuale che è parte integrante dello Stato bosniaco in base agli accordi di Dayton firmati giusto trent’anni fa e ancora in discussione. Il leader dei serbo bosniaci Milorad Dodik è stato in visita a Mosca lo scorso primo aprile e ha incontrato il presidente Putin. In questo ambito, la Russia continua a sostenere movimenti separatisti e fanti occidentali. Dodik promuove una sorta di secessione legale, paralizzando di fatto le istituzioni e il funzionamento del governo del Paese. Su di lui pende un mandato di arresto internazionale per tentata secessione. Ma queste misure internazionali valgono sempre meno per i leader politici colpiti.
La crisi affonda nelle origini del disegno istituzionale concepito a Dayton e rimasto irrisolto. La creazione di una propria forza armata è centrale in questo progetto secessionista, così come la sospensione delle leggi emanate dall’Alto Rappresentante dell’Onu che hanno conferito alle istituzioni centrali poteri nella difesa e giustizia. La Bosnia post-Dayton è uno Stato multietnico e unitario, ma con forme avanzate di decentralizzazione che garantiscono un margine di autonomia ai tre gruppi etnici definiti «costituenti»: serbi, croati e bosgnacchi (bosniaci musulmani). La conseguenza più evidente è stata la divisione in due entità, che ricalcano i confini territoriali emersi dal conflitto: la Federazione di Bosnia-Erzegovina – abitata in prevalenza da bosgnacchi e croato-bosniaci – e la Republika Srpska – caratterizzata da un’omogeneità etnica serba. Non sono solo le retoriche separatiste, ma anche quelle unitarie, associate alla mancata osservanza della parità dei diritti fondamentali tra tutti i popoli costituenti, che hanno portato alla grave escalation a cui stiamo assistendo. L’attuale Alto Rappresentante, Christian Schmidt, in carica dal 2021, dovrebbe esercitare un’autorità super partes per regolare i dissensi, ma con risultati scarsi.
Dodik è sostenuto dalla Serbia e dal suo presidente Aleksandar Vucic. Per quest’ultimo, la situazione in Bosnia-Erzegovina è molto favorevole a causa dei problemi interni che deve affrontare in Serbia e delle proteste contro di lui. Non bisogna dimenticare la tripartizione del Paese. I croati sono sostenuti dall’Unione europea, perché sono cittadini europei, i serbi sono sostenuti dalla Serbia e dalla Russia di Putin e i bosniaci hanno l’appoggio della Turchia di Erdogan, che svolge un ruolo decisivo nel «Consiglio di pace». Il conflitto in Ucraina ha rilanciato la questione dell’allargamento. Ha anche ricordato l’importanza per l’Unione europea di avere frontiere esterne solide e sicure.
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La Cinebussola |
Un Cronenberg funereo e la perfetta trasposizione di Cassel |
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Diciamo subito che The Shrouds – Segreti sepolti è un buon film: autentico, visionario, appassionato. Ma con un tasso autobiografico e funebre così elevato da rendere difficile la connessione con lo spettatore.
Spieghiamo: nel 2017, dopo 43 anni di matrimonio e di simbiosi artistica, David Cronenberg, oggi 82 anni, ha perso l’amata moglie Carolyn. Da allora è iniziata una lunga stasi esistenziale e creativa culminata con il cortometraggio The Death of David Cronenberg e il travolgente Crimes of the Future (2022).The Shrouds (tradotto: i sudari) è dunque prima di tutto una forma di terapia personale agganciata alla linea espressiva più classica del regista canadese, tra body horror e body art.
Il corpo è ancora al centro dei suoi interessi: in movimento, in corsa plastica verso l’assoluto, nell’immobilità della morte, in decomposizione.
Storia di un amore folle, infinito, impossibile, oltre le regole e la materia. Storia di idee funeste e di un delirante sollievo. Vincent Cassel è l’alter ego di Cronenberg, in un’identificazione anche fisica che ha del sorprendente. «Non è stato facile liberarmi di un personaggio così complesso a fine riprese», ha rivelato l’attore.
Vincent Cassel e Diane Kruger in «The Shrouds»
La vicenda si svolge a Toronto, città del regista, dove l’uomo d’affari Karsh, un ingegnere di origine bielorussa ha fondato una società di nome GraveTech con un core business particolare: costruire cimiteri digitali. I corpi dei defunti vengono avvolti in sudari ipertecnologici che ne consentono la visualizzazione su display al posto della lapide. Solo i congiunti hanno la chiave per accedere alla macabra visione in 3D, basata sul principio delle sovrimpressioni dei profili dei morti sulle sindoni.
Il contatto con il caro estinto resta: anche se è possibile assistere soltanto alla decomposizione delle amate carni. I rimandi ai classici del noir e dell’horror, compreso l’intero repertorio di Cronenberg, stanno in ogni angolo. Karsh ha creato le sue cattedrali dell’eterno ricordo dopo aver perso la moglie Becca. Poterla vedere nel camposanto allestito accanto al suo ristorante gli dà conforto anche di più della frequentazione con la sorella gemella di Becca, Terry (Diane Kruger).
L’invenzione è sul punto di diventare un successo mondiale, ma il cimitero hi-tech viene distrutto dai vandali, mentre l’ex marito di Terry, l’informatico Maury (Guy Pearce), forse ostaggio dei servizi segreti, prepara un complotto e una coreana cieca, Soo-min (Sandrine Holt), è impaziente di trasferire a Budapest il business di Karsh. Cronenberg si dice convinto che «con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale si possa creare un Aldilà fittizio dove gli avatar dei defunti potranno incontrarsi».
Il film segue il pensiero addolorato del regista in un percorso ossessivo di chiose, derivate, allucinazioni, sovrapposizioni. Cassel, che sembra un disegno stilizzato, e Kruger, nel doppio ruolo di Becca e Terry, ce la mettono tutta per rendere plausibile l’affascinante delirio.
THE SHROUDS – SEGRETI SEPOLTI di David Cronenberg
(Francia-Canada, 2024, durata 119’, Europictures)
con Vincent Cassel, Diane Kruger, Guy Pearce, Sandrone Holt, Al Sapienza, Elizabeth Saunders, Jennifer Dale
Giudizio: 3+ su 5
Nelle sale
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martedì 8 aprile 2025
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Come uscire dalla tempesta? |
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di simone sabattini
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Buongiorno,
è una tempesta imperfetta, scriteriata, fatta di accelerazioni improvvise e frenate inattese: per questo è più devastante e più dannosa. La guerra dei dazi vive oggi un suo primo «giorno dopo», con i rimbalzi e i nervosismi delle Borse. Passeremo attraverso diverse strategie (da Bruxelles a Pechino a New Delhi), inciampi, dispute, alcune anche grottesche.
Poi l’annuncio dei nuovi negoziati sul nucleare iraniano (che hanno sorpreso anche Israele); l’ombra russa sugli attentati in Europa; il labirinto della politica francese, e gli infiniti, velenosi rivoli dei tagli trumpiani, dai militari alla solidarietà.
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1. I primi rimbalzi delle Borse (e della politica) |
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(Samuele Finetti) Un primo rimbalzo delle Borse, dopo giorni di rossi pesanti. Questa mattina, il Nikkei giapponese, il Kospi sudcoreano e l’ASX 200 australiano hanno aperto in rialzo, sebbene abbiano recuperato solo in parte le ingenti perdite di ieri. Anche Hong Kong è in timida ripresa (+1,5%), dopo che ieri ha accusato il peggior calo (-13,7%) dal 1997. Shanghai invece guadagna l’1,7%, ieri era caduta del 7%. Taiwan, invece, continua sul trend negativo e perde il 3,8%. Apertura positiva anche per le principali Borse europee, che risalgono dopo le pesanti perdite delle ultime sessioni in una mattinata nervosa. In luce Londra (+1,4%). Positive anche Parigi e Milano (+0,7%), Francoforte (+0,8%), Madrid (+0,4%).
Nel frattempo, Ursula von der Leyen cerca la collaborazione di Pechino per attutire i colpi dei dazi trumpiani: nella notte, la presidente della Commissione europea ha parlato con il premier cinese Li Qiang.
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2. L’altolà di Wall Street alla Casa Bianca |
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Wall Street alza la pressione su Donald Trump. Dopo tre giorni di tempesta sui mercati mondiali, ieri diversi esponenti dell’alta finanza statunitense hanno sottolineato pubblicamente i rischi dell’offensiva commerciale della Casa Bianca. Critiche misurate, certo; che, però, rappresentano un segnale importante del malessere dei money maker americani, abituati a muoversi nel mondo — senza barriere né confini — degli affari. Il primo a biasimare la sventagliata doganale di Trump è stato Bill Ackman, numero uno del fondo speculativo Pershing Square e grande sostenitore del presidente repubblicano. «Se il 9 aprile dovessimo lanciare una guerra economica nucleare contro tutti i Paesi, gli investimenti aziendali si fermeranno, i consumatori chiuderanno i portafogli e danneggeremo gravemente la nostra reputazione con il resto del mondo, che richiederà anni, forse decenni, per essere riabilitata».

Allarme via X a cui ha fatto eco la lettera agli azionisti di Jamie Dimon, amministratore delegato di JpMorgan, la prima banca americana. I dazi «causeranno probabilmente un aumento dell’inflazione e stanno portando molti a considerare più probabile una recessione — ha rimarcato Dimon — Spero che, all’esito dei negoziati, ci saranno alcuni effetti a lungo termine positivi per gli Stati Uniti». Più esplicito era stato circa un mese fa il responsabile globale delle strategie della stessa JpMorgan, David Kelly. «Il problema con i dazi, in sintesi — ha scritto Kelly a marzo, all’epoca del primo aumento delle tariffe su Messico e Canada — è che fanno salire i prezzi, rallentano la crescita economica, riducono i profitti, aumentano la disoccupazione, ampliano la diseguaglianza, diminuiscono la produttività e alimentano le tensioni globali. A parte questo, vanno bene»…(Continua a leggere su Corriere.it)
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3. Il secondo incubo di Big Tech |
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Da un incubo a un altro ben peggiore. Per molti dei capi dei giganti americani della tecnologia quella di gennaio era stata una via crucis di imbarazzi e umiliazioni: prima i pellegrinaggi a Mar-a-Lago per invocare la benevolenza del nuovo presidente, poi le donazioni milionarie per le feste inaugurali della seconda era Trump. Infine tutti in fila a «baciare l’anello» del nuovo sovrano alla cerimonia del suo insediamento. A parte quelli già impegnati a fianco di The Donald (Elon Musk, Peter Thiel, Marc Andreessen), tutti gli altri si erano piegati nella speranza di conquistare i favori del successore di Biden che prometteva di trattare big tech come un patrimonio nazionale essenziale per «rifare l’America grande», come da programma presidenziale: imprese sostenute e lasciate libere di crescere senza vincoli. Stop alle regole che Biden aveva cercato di introdurre.
Zuckerberg (Meta), Bezos (Amazon), Pichai (Google), Musk (Tesla)
Le perdite
Il risveglio da questa illusione è stato durissimo, anche se con alcune differenze. Molto simile, invece, la reazione di quasi tutti i condottieri del mondo digitale: silenzio pressoché assoluto nel timore di peggiorare una situazione già drammatica esponendosi alle ire di un presidente notoriamente vendicativo. Ma intanto Apple, che a causa di dazi e conseguenti guerre commerciali rischia di dover aumentare del 40% il prezzo dei suoi iPhone (fino a 2.300 dollari), tra giovedì e venerdì ha perso il 16% del suo valore, mentre non è andata molto meglio a Meta-Facebook (meno 14%), Amazon (meno 13) e Alphabet-Google (meno 9%)… (Continua a leggere su Corriere.it)
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4. Milionario contro ministro: «Guadagni con le crisi» |
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massimiliano jattoni dall’asèn |
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Nella convulsa giornata del 7 aprile, la terza di tempesta sui mercati finanziari, nuovi siparietti si sono consumati nell’entourage di Trump, dove le pennellate di calce bianca sparse con generosità sulla White House ormai non riescono a nascondere le prime crepe, a partire da quella tra il presidente americano ed Elon Musk, con l’uomo più ricco del mondo che ieri, in un video pubblicato su X, non ha lesinato stoccate sui dazi imposti. Ma a essere critici verso la decisione di Trump sono anche i grandi gestori di Wall Street, irritati per le conseguenze nefaste dei nuovi balzelli sulle Borse globali. E così, anche chi aveva sostenuto – forse con poca lungimiranza – il tycoon durante la campagna elettorale, comincia a prenderne le distanze. A partire dal milionario Bill Ackman, numero uno del fondo speculativo Pershing Square.
Bill Ackman (a sinistra) e Howard Lutnick (a destra)
L’accusa
Il grande gestore di hedge fund ha sferrato ieri l’attacco più duro, prendendo di mira su X il segretario al Commercio Howard Lutnick, già ceo e presidente per 35 anni del colosso finanziario Cantor Fitzgerald: «Ho appena capito – aveva twittato Ackman – perché @howardlutnick è indifferente al mercato azionario e al crollo dell’economia. Lui e Cantor sono lunghi sulle obbligazioni. Lui guadagna quando la nostra economia implode. È una pessima idea scegliere un Segretario al Commercio la cui azienda ha massicci investimenti sul reddito fisso. È un conflitto di interessi inconciliabile»… (Continua a leggere su Corriere.it)
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5. I muscoli del Dragone e il cervello dell’Europa |
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C’è chi invoca calma e chi grida alla vendetta. Il caos globale scatenato dai dazi imposti dal presidente Trump sta alterando le relazioni internazionali consolidate come quelle più concorrenziali. Mentre la Cina ha promesso di «combattere fino alla fine» se gli Usa andranno avanti con un ulteriore 50% di dazi sulle merci del gigante orientale, l’Europa prova a cercare una mediazione. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, nel corso di una telefonata con il premier cinese Li Qiang, «ha chiesto una risoluzione negoziata della situazione attuale» creata dai dazi dell’amministrazione Trump, «sottolineando la necessità di evitare un’ulteriore escalation».
Il porto di Qingdao in Cina
Ma a Pechino, al di là delle cortesie formali, è difficile chiedere pazienza in questo momento. «Se gli Stati Uniti procederanno con l’attuazione di queste misure tariffarie, la Cina adotterà in termini risoluti le sue contromisure per salvaguardare i propri diritti e interessi», ha chiarito il portavoce del ministero del Commercio. Le «tariffe reciproche» di Trump annunciate il 2 aprile hanno ormai sconvolto i mercati e minacciano di colpire duramente gli esportatori cinesi, spingendo Pechino a varare misure per sostenere i suoi mercati attraverso i fondi guidati dallo Stato e una fiammata di buyback societari.
Pechino ha annunciato tariffe del 34% sull’import americano da venerdì, all’indomani dell’entrata in vigore delle imposte Usa sui beni cinesi. Ieri però The Donald ha minacciato un’altra stretta con aliquote del 50% sui prodotti cinesi, una mossa che porterebbe i dazi statunitensi a oltre il 100%, secondo alcune stime. Questo non è il tempo degli eufemismi: «La minaccia degli Stati Uniti di aumentare ulteriormente le tariffe è un errore aggravato da un altro errore e ancora una volta espone la natura ricattatoria della parte statunitense», ha detto ancora il portavoce del ministero del Commercio, per il quale «la Cina non accetterà mai questa politica»…(Continua a leggere su Corriere.it)
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6. Il caso Tiktok al centro della guerra |
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Al centro della guerra commerciale dichiarata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump c’è anche un’applicazione: TikTok, di proprietà della cinese Bytedance. Venerdì Trump ha previsto una proroga di 75 giorni al blocco dell’app sul territorio statunitense previsto da una legge entrata in vigore lo scorso gennaio. Si tratta della seconda proroga, perché non è ancora stato trovato un accordo per dare il controllo di TikTok negli Stati Uniti a un nuovo proprietario americano, come impone la norma.

«Eravamo molto vicini a un accordo, poi la Cina ha cambiato opinione a causa dei dazi: se io avessi tagliato i dazi avrebbero approvato l’intesa in 15 minuti. Questo dimostra il potere dei dazi» ha dichiarato Trump lunedì. ByteDance, invece, dice di aver «discusso con il governo degli Stati Uniti in merito a una potenziale soluzione per TikTok Usa. Non è stato finalizzato alcun accordo. Ci sono questioni chiave da risolvere, qualsiasi accordo sarà soggetto ad approvazione ai sensi della legge cinese»(…)
Cosa bisogna tenere a mente e capire entro metà giugno, alla scadenza dei 75 giorni, ammesso che non si torni al punto di partenza? Prima di tutto che l’accordo dovrà essere approvato anche dal governo cinese, come è noto. Altra cosa nota è che Pechino – che nelle ultime ore ha mostrato di non voler cedere alle pressioni americane sui dazi – non ha mai visto di buon occhio una vendita forzata di parte delle operazioni. La strada più percorribile resta quella che al tavolo (anche dei dazi) vengano trovate formule ibride e diverse dal passaggio di proprietà di app (negli Usa), dati, iscritti e algoritmo…
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7. Silenzio, calcoli e zero ritorsioni: la «via indiana» per uscirne |
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Se la Cina risponde minacciando contro-dazi alla furia protezionista di Trump, l’altra grande potenza asiatica, l’India, non reagisce. Nessuna dichiarazione dal governo di New Delhi, nemmeno dopo l’ultimo annuncio di tariffe extra del 26%, in vigore da domani, che si aggiungono ai dazi di base del 10%. Non che il contraccolpo di questo terremoto non sia stato avvertito anche qui: ieri i mercati hanno ceduto terreno colpiti dai timori per i rischi di una guerra commerciale globale, con i due principali indici azionari indiani crollati del 5% ciascuno, ai minimi degli ultimi 9 mesi.
Il premier indiano Narendra Modi in visita di Stato in Sri Lanka
Il fatto è che il governo nazionalista di New Delhi sta cercando una «via indiana» per limitare gli effetti devastanti di questo attacco alla globalizzazione. Non solo: punta a addirittura a trasformarla in un’opportunità per rilanciare la produzione nazionale. Tutt’altro che una missione impossibile visto che New Delhi e Washington stanno definendo i dettagli di un accordo commerciale bilaterale di ampio respiro, l’Us-India compact, già annunciato a febbraio, durante la visita alla Casa Bianca di Modi, che si era precipitato da Trump a pochi giorni dal suo insediamento, uno dei primi leader mondiali a incontrarlo da neo presidente bis… (Continua a leggere su Corriere.it)
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8. Il «piacere del dominio» |
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francesca basso e viviana mazza
corrispondenti da Bruxelles e New York |
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Un modo di intendere il potere alla Casa Bianca diverso da quello a cui eravamo abituati: è quello che vediamo all’opera con Trump. Shadi Hamid sul Washington Post ha scritto di recente che stiamo assistendo al «piacere del dominio» e «siamo entrati in una nuova fase in cui il dominio stesso, non i risultati delle politiche e nemmeno il caos fine a se stesso, è diventato il principio che regola il secondo mandato di Trump». Hamid cita Adam Smith, santo patrono del libero mercato, che in alcuni dimenticati seminari descriveva «l’amore per il dominio e l’autorità e il piacere che gli uomini traggono dal fatto che i loro ordini vengano eseguiti». Questo desiderio, secondo Smith, è così potente che può superare il proprio interesse da un punto di vista razionale e persistere anche quando «economicamente svantaggioso».

Il giornalista suggerisce che trattenere i fondi federali dalle università che non si piegano alla sua definizione di patriottismo o la stessa partnership con Elon Musk, per tagliare gli impieghi federali e sventrare istituzioni come il dipartimento dell’Istruzione, siano parte di questa idea. Tipicamente vengono visti da sinistra come attacchi in una guerra culturale; da parte dei sostenitori di Trump come misure legittime finalizzate all’efficienza. Secondo Hamid, hanno più senso dal punto di vista di Smith: «Il desiderio naturale di dominio e il piacere che deriva quando gli altri si piegano alla tua volontà. Il dominio è il punto». Trump invece direbbe che il punto è che è stato eletto per questo. I suoi nemici lo definiscono radicale, ma in fondo (anche se non esplicitamente) lui abbraccia questa idea. Vuole imprimere cambiamenti radicali al sistema, cambiamenti che lascino impresso il suo nome e la sua faccia come sulla Gold Card acquistabile da facoltosi stranieri che vogliono risiedere in America. In realtà il dominio di Trump non è finalizzato a se stesso. È finalizzato alla gloria. La gloria si ottiene attraverso la vittoria…
(Questo brano è tratto dalla newsletter Europe Matters, che esce ogni martedì)
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9. Usa-Iran, come saranno i negoziati (indiretti)? |
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La conferma con correzione è arrivata dal ministro degli Esteri della Repubblica islamica, Abbas Araqchi, con un post su X in inglese per parlare chiaro a tutti: «L’Iran e gli Stati Uniti sabato si incontreranno in Oman per colloqui indiretti ad alto livello. È tanto un’opportunità quanto un test. La palla è nel campo americano».
Teheran oggi
Araqchi rilancia quindi l’annuncio-sorpresa fatto da Donald Trump dallo Studio Ovale della Casa Bianca accanto al premier israeliano Benjamin Netanyahu. Ma aggiusta il tiro: «Colloqui indiretti». Il presidente americano ha commentato: «Vedremo cosa succede. Penso che tutti convengano sul fatto che raggiungere un accordo sarebbe preferibile ad altre opzioni. Se questi negoziati fallissero, l’Iran correrebbe un grave pericolo». Poi, si è aggiunto Netanyahu: «Abbiamo parlato del fatto che Teheran non dovrà mai ottenere un’arma nucleare, se possibile attraverso mezzi diplomatici simili a quanto accaduto con la Libia»… (Continua a leggere su Corriere.it)
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10. Quel sorriso pietrificato di Bibi… |
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davide frattini
corrispondente da Gerusalemme |
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Fino a pochi secondi prima ha il sorriso appagato di chi si ritrova per la seconda volta in pochi mesi seduto vicino all’«amico straordinario» Donald Trump. Bastano le poche parole del presidente a pietrificare l’espressione di Benjamin Netanyahu, le labbra strette, lo sguardo sperso: «Stiamo conducendo negoziati diretti (da Teheran poi contesteranno questo aggettivo, ndr) con l’Iran». Non è quello che si aspettava, non è per questo che è volato a Washington da Budapest, dove ha incontrato l’alleato ideologico Viktor Orbán. Bibi – com’è soprannominato e come lo chiama Trump – resta convinto che la via per fermare il programma degli ayatollah sia il bombardamento dei centri atomici, un raid che gli israeliani non possono realizzare senza il via libera e il sostegno degli americani. Sperava di poter convincere il presidente, come aveva già fatto su tante questioni durante il primo mandato.
Il premier israeliano ieri nello Studio Ovale
Ma l’amico rientrato alla Casa Bianca sembra meno malleabile alla sua influenza: insiste di preferire le trattative diplomatiche, certo minaccia che se non funzionano «Teheran passerà un brutto giorno». Ma Netanyahu non sembra neppure essere riuscito a indirizzarlo verso l’obiettivo da raggiungere con l’intesa, è improbabile che il suo «modello Libia» – smantellamento totale del programma – possa essere accettato dagli iraniani. Così da sabato – da quando i colloqui di alto livello iniziano in Oman – dovrà stare soprattutto a guardare dopo aver vagheggiato di un blitz contro l’Iran per almeno sedici anni.
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11. L’ennesima ufficiale licenziata da Trump |
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Un ufficiale dopo l’altro, in meno di tre mesi Donald Trump ha lanciato una vera e propria «purga» ai vertici delle Forze armate statunitensi. L’ultima a essere sollevata dal proprio ruolo è Shoshana Chatfield, viceammiraglio della Marina e rappresentate degli Usa al comando militare Nato di Bruxelles. La notizia del suo licenziamento è stata diffusa ieri dalla Reuters: il Pentagono non ha confermato, ma secondo le fonti dell’agenzia l’interessata avrebbe già ricevuto la lettera che comunica la rimozione dal suo ruolo. Chatfield era stata promossa al comando Nato nel 2023. Prima di allora, dal 2019, è stata la prima presidente donna del Naval War College, l’accademia per ufficiali della Marina. La Reuters, citando una fonte, sostiene che Chatfield sarebbe una delle vittime della campagna contro l’inclusione e la diversità avviata all’interno delle Forze armate dalla nuova amministrazione.
Shoshana Chatfield
Il Washington Post riprende un discorso pronunciato dal viceammiraglio nel 2015, in occasione del Women’s Equality Day: sosteneva che «la nostra diversità è la nostra forza». A febbraio, il segretario alla Difesa Pete Hegseth aveva definito questa frase «la più stupida» mai pronunciata a proposito delle Forze armate statunitensi. Nei 79 giorni da che Trump si è insediato alla Casa Bianca, hanno perso il posto: l’ammiraglio Lisa Franchetti, capo delle operazioni navali della Marina; l’ammiraglio Linda Fagan, comandante della Guardia costiera; il tenente generale Jennifer Short, assistente militare senior del segretario alla Difesa. Quattro donne, sui nove licenziamenti ai vertici delle Forze armate decisi dal presidente. Nelle Forze armate statunitensi, le donne rappresentano il 17,7% del personale totale. E, quando si parla di generali o ammiragli, sono meno del 10%.
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12. «Senza aiuti 10 milioni di bambini». Cosa significa l’azzeramento di UsAid |
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Anni di lavoro in Paesi devastati da guerre ed epidemie vanificati da un’asettica comunicazione arrivata a fine gennaio, a cui è seguito l’oscuramento del sito. Lo smantellamento dell’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale UsAid ha spaventato tutti gli operatori delle organizzazioni umanitarie. Creata nel 1961 durante la presidenza Kennedy, in questi anni ha contribuito alla realizzazione di vaccinazioni di massa e alla lotta contro la malnutrizione, le pandemie, l’Hiv, ma anche alla protezione delle donne in contesti di violenza estrema. Solo nel 2023 ha gestito oltre 40 milioni di dollari, posizionando gli Stati Uniti al vertice dei Paesi che hanno erogato più fondi a favore degli aiuti umanitari.

A beneficiare di questi soldi sono state organizzazioni umanitarie operative in 130 Stati e per molte di loro si trattava della principale fonte (se non l’unica) di approvvigionamento da investire sul territorio. «Abbiamo stimato che non riusciremo più ad assistere tra gli otto e i dieci milioni di bambini siccome siamo costretti a ridimensionare i nostri progetti — spiega Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia — si tratta di servizi indispensabili come il supporto all’educazione delle bambine in Afghanistan, aiuti economici delle comunità in Somalia». «Siamo addirittura arrivati a pensare alla chiusura di cliniche per la malnutrizione in Siria. Stiamo vivendo un periodo storico in cui un bambino su 11 nel mondo ha bisogno di aiuto umanitario per non morire». La dipendenza dai governi di tutto il mondo ha portato al punto di rottura che rischia di trasformarsi in una voragine insanabile…
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13. Germania, l’ombra russa dietro gli attentati? |
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mara gergolet
corrispondente da Berlino |
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Per la prima volta, l’ipotesi che dietro gli attentati pre-elettorali ci sia stata una mano russa viene fatta esplicitamente in Germania. La Zdf, tv pubblica, domenica sera ha mandato un servizio in cui viene detto che quattro giorni prima dell’attentato a Mannheim – nel maggio scorso contro l’esponente dell’estrema destra Michael Stürzenberger, alla vigilia delle europee – sono state fatte ricerche da diversi account russi. Alcune anche in modo specifico su Sturzenberger. Poi un portavoce del ministro dell’Interno ha confermato che quella russa «ovviamente è una pista» che bisogna indagare. Non sono gli unici indizi e dichiarazioni pubbliche, ma i più sostanziali finora.
I fiori sul luogo dell’attentato a Monaco, in Baviera, il 15 febbraio scorso
A marzo, un articolo di Foreign Affairs citava un anonimo alto ufficiale dei servizi tedeschi che diceva che si stava indagando in quel senso. Certamente, l’attentato il giorno della conferenza di Monaco e quello alla vigilia delle elezioni nel pieno centro di Berlino, difficilmente sarebbero potuti essere congegnati più ad orologeria. Inoltre, è emerso dal processo della rete bulgara a Londra, che gli agenti filo-russi di Marsalek in effetti hanno pensato di reclutare kamikaze dell’Isis.
Ciò detto, è presto per dire alcunché, e ovviamente un’accusa di questo tipo è una bomba. Perfino scriverne è delicato. Ma oggi è che la Germania non lo esclude più.
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14. Le legge «salva Le Pen» e il ricatto al premier Bayrou |
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stefano montefiori
corrispondente da Parigi |
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Il presidente del gruppo UDR Éric Ciotti, alleato del RN, sta per presentare una proposta di legge per abolire l’esecuzione immediata delle sentenze di ineleggibilità. Il testo verrà discusso e messo ai voti entro l’estate, ed è una delle strade che permetterebbe a Marine Le Pen, condannata per malversazioni dei fondi agli assistenti parlamentari europei, di tornare candidata nella corsa all’Eliseo del 2027.
Eric Ciotti (a destra) con Jordan Bardella, presidente del Rassemblement National
La proposta Ciotti potrebbe diventare il cardine della politica francese delle prossima settimane, perché alcune forze politiche – socialisti, sinistra radicale e macronisti – si sono già dichiarate contrarie, la destra gollista appare poco entusiasta mentre il premier François Bayrou sembra «aperto a una riflessione». Il governo Bayrou è privo di maggioranza all’Assemblea nazionale e si regge anche sull’astensione benevola del Rassemblement national: se Marine Le Pen desse l’ordine di votare una delle prossime mozioni di sfiducia, l’esecutivo cadrebbe. Forse non a caso nelle ultime ore si moltiplicano le critiche degli esponenti del Rassemblement national a Bayrou, come un avvertimento. Se la politica dovesse frenare una soluzione legislativa a favore di Marine Le Pen, l’appoggio esterno al governo potrebbe venire meno.
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Grazie per essere stati con noi anche oggi, ci risentiamo domani. Simone Sabattini
«America-Cina» esce dal lunedì al venerdì alle ore 13
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