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Registro e Divellere le parole di oggi a cura del prof. Innocenzo Orlando
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Registro
re-gì-stro
Significato Fascicolo in cui si prende nota d qualcosa, anche di rilievo pubblico; ufficio che conserva tali fascicoli; parte dell’estensione della voce o di uno strumento; nel lessico della tecnica, congegno per la messa a punto di un meccanismo; livello espressivo usato da chi parla o scrive in rapporto al contesto
Etimologiavoce dotta recuperata dal latino tardo regesta ‘cose riportate’, da regèrere ‘riportare’, derivato di gèrere ‘portare’ con prefisso re-.
«Cambia registro, se vuoi continuare a parlare con me.»
In quanto parola semplice e fondamentale nell’uso corrente, è — ovviamente — complicatissima. Però ci sono delle questioni splendide che ci richiede di considerare.
In particolare c’è da soppesare un significato con cui, ragionando di parole, la usiamo molto di frequente, ma in genere potremo apprezzare come uno dei simboli dell’ordine più fiscale abbia una storia disordinatissima.
Tutto nasce dalle regesta, le ‘cose riportate’ — s’intende, riportate ordinatamente in un libro. È un plurale che deriva dal verbo latino regèrere. Gèrere è un ‘portare’, il re- ci proietta indietro, e già possiamo notre come il concetto di ‘riportare’ nel senso di ‘riferire, allegare’ scaturisca bellamente dal gesto concreto di un ‘portare indietro’ (anche il ‘riferire’ in effetti dice lo stesso, ma non divaghiamo).
La tarda antichità, che si colloca fra III e VI secolo d.C., è un periodo in cui il latino cambia in molti sensi. Nel nostro caso di specie, nel termine regesta e in certi derivati s’inserisce una -r- senza senso, tanto da mutare in registrum, e dar vita al registrare. Ma ancora la sostanza non cambia: siamo su quello che primamente intendiamo come registro, l’autorevole fascicolo su cui si annotano cose di rilievo anche pubblico. Questa è la veste con cui viene recuperato in italiano nel Trecento, quale strumento giuridico (sarà adattato anche come ‘regesto’, con significati più tecnici che vanno dal repertorio cronologico di documenti fono al loro riassunto). Ma quando mi intimi di ‘cambiare registro’, non ti stai riferendo a un fascicolo da sostituire…
Il verbo latino regèrere assomiglia parecchio, senza parentela, al verbo règere. Questo è un governare, un guidare, uno stabilire, e naturalmente un regolare e un reggere. Ecco, il registro sente la vicinanza di questo règere e dei suoi significati, che insistono su un taglio di mondo — l’ordinamento — che alla fin fine è lo stesso. Difatti, a partire dal Rinascimento e ancora fino all’Ottocento, il registro acquisisce una serie di significati specifici che non sono proprio proprio conseguenti rispetto al fascicolo con annotazioni.
In musica il registro è parte dell’estensione di una voce o di uno strumento (ad esempio, registro di tenore); in particolare nell’organo è la serie di canne dal medesimo timbro, e la leva che aziona il meccanismo che permette di produrre timbri diversi, cambiando registro — è di qui che viene la locuzione, un cambiare modo di fare o di parlare.
In tipografia, il registro è la perfetta sovrapposizione dei colori, stampati sugli elementi grafici del foglio stampati in precedenza — e ‘mettere a registro’ significa accordare questa posizione.
Nel più generale gergo della tecnica il registro è il congegno che permette di mettere a punto un meccanismo; un significato in cui si sente bene che il registrare è anche — per etimo falso e uso vero — un ‘regolare’, come quando si registra una serratura o un cardine, o si agisce sul registro di un orologio.
Infine, il registro è un livello espressivo, un modo usato da chi parla o scrive per regolarsi rispetto al contesto della sua comunicazione. Quando parliamo di una parola di registro colloquiale, di un discorso di registro elevato, o familiare, o aulico, o sostenuto, o volgare, o burocratico stiamo parlando dell’altezza, dell’ambito in cui quella parola o quel discorso si colloca, della sua estensione, del suo timbro, se vogliamo. Un concetto semplice e cardinale, nell’esplorazione lessicografica e nella catalogazione interiore delle parole.
Si potrebbero elencare ancora altri significati, stretti su ambiti specifici, ma fermiamoci a questo. Perché per essere quel che è, il registro si presta naturalmente ad essere registrato secondo il bisogno con registri non registrati.
Divellere
di-vèl-le-re (io di-vèl-lo o di-vèl-go)Significato Estirpare, sradicare, eliminareEtimologiavoce dotta recuperata dal latino divellere ‘strappare, staccare’, derivato di vellere ‘strappare’, con prefisso dis-.
«Ho provato a divellere il ceppo. Ma credo lo userò come piedistallo per un vaso.»
L’atto è violento, ma la parola è fine — un latinismo compassato e incisivo che impronta tutto il tono della frase, pulisce, rimette a posto.
In effetti stiamo parlando di un’azione che potremmo bene descrivere come uno sbarbare, o uno sradicare, o uno scerpare, o un estirpare, o uno strappare; tutte parole che in maniera diversa, per la forza del loro significato, fanno aggio su un suono aspro, rotto, che sa del cigolo, dello scricchio, dello strido, del muggito di ciò che viene scalzato, spaccato, rivoltato. Il divellere spicca per eleganza posata che dà forma a un’intensità drastica.
Ha un’origine forse più dolorosa delle sue compari. Il divellere latino installa quel prefisso dis-, che indica un allontanamento e qui ha un valore rafforzativo, sul vellere, nientemeno che lo strappare — in particolare, chiosano certe fonti, peli e piume: dopotutto il vello, manto lanoso, viene da qui.
Inoltre, fin dagli albori del suo recupero duecentesco, è un verbo di grande ampiezza.
Si adatta a parlare di alberi divelti dalla frana, dal vento, dall’alluvione, dello zio che divelle il cancello con una manovra disattenta (era sobrio eh, è solo una schiappa al volante), della ruspa che divelle gli iris della proda per la gioia dell’istrice, di come divelliamo le erbacce dal campo, o le pietre della vecchia costruzione. Significati molto concreti, estesi fin dove si trovi qualcosa di ben piantato in terra. Eppure, i modi sono tenui — alberi strappati, cancelli sbarbati, iris scerpati darebbero un’impressione tanto più distrutta e desolata, di una violenza tanto più muscolare.
Ma posso anche parlare di come sia difficile da divellere un pregiudizio, di come con trame callide divello un sospetto, di come l’amica non riesca a divellere dalla sua mente una preoccupazione. Così il divellere, che materialmente è uno strappare, idealmente è eliminare.
Non che sia un verbo freddo; però è lucido. Non impiega toni espressionisti, bruti, ma nemmeno intende coprire qualcosa. È la sua latinità, col garbo del prefisso, la distanza mediata del vellere, e il suono straordinariamente morbido, a metterlo in un abito tre pezzi. Ambivalenze, contrasti interni e un equilibrio che lo rendono una risorsa unica nel suo campo.
In quanto parola semplice e fondamentale nell’uso corrente, è — ovviamente — complicatissima. Però ci sono delle questioni splendide che ci richiede di considerare.
In particolare c’è da soppesare un significato con cui, ragionando di parole, la usiamo molto di frequente, ma in genere potremo apprezzare come uno dei simboli dell’ordine più fiscale abbia una storia disordinatissima.
Tutto nasce dalle regesta, le ‘cose riportate’ — s’intende, riportate ordinatamente in un libro. È un plurale che deriva dal verbo latino regèrere. Gèrere è un ‘portare’, il re- ci proietta indietro, e già possiamo notre come il concetto di ‘riportare’ nel senso di ‘riferire, allegare’ scaturisca bellamente dal gesto concreto di un ‘portare indietro’ (anche il ‘riferire’ in effetti dice lo stesso, ma non divaghiamo).
La tarda antichità, che si colloca fra III e VI secolo d.C., è un periodo in cui il latino cambia in molti sensi. Nel nostro caso di specie, nel termine regesta e in certi derivati s’inserisce una -r- senza senso, tanto da mutare in registrum, e dar vita al registrare. Ma ancora la sostanza non cambia: siamo su quello che primamente intendiamo come registro, l’autorevole fascicolo su cui si annotano cose di rilievo anche pubblico. Questa è la veste con cui viene recuperato in italiano nel Trecento, quale strumento giuridico (sarà adattato anche come ‘regesto’, con significati più tecnici che vanno dal repertorio cronologico di documenti fono al loro riassunto). Ma quando mi intimi di ‘cambiare registro’, non ti stai riferendo a un fascicolo da sostituire…
Il verbo latino regèrere assomiglia parecchio, senza parentela, al verbo règere. Questo è un governare, un guidare, uno stabilire, e naturalmente un regolare e un reggere. Ecco, il registro sente la vicinanza di questo règere e dei suoi significati, che insistono su un taglio di mondo — l’ordinamento — che alla fin fine è lo stesso. Difatti, a partire dal Rinascimento e ancora fino all’Ottocento, il registro acquisisce una serie di significati specifici che non sono proprio proprio conseguenti rispetto al fascicolo con annotazioni.
In musica il registro è parte dell’estensione di una voce o di uno strumento (ad esempio, registro di tenore); in particolare nell’organo è la serie di canne dal medesimo timbro, e la leva che aziona il meccanismo che permette di produrre timbri diversi, cambiando registro — è di qui che viene la locuzione, un cambiare modo di fare o di parlare.
In tipografia, il registro è la perfetta sovrapposizione dei colori, stampati sugli elementi grafici del foglio stampati in precedenza — e ‘mettere a registro’ significa accordare questa posizione.
Nel più generale gergo della tecnica il registro è il congegno che permette di mettere a punto un meccanismo; un significato in cui si sente bene che il registrare è anche — per etimo falso e uso vero — un ‘regolare’, come quando si registra una serratura o un cardine, o si agisce sul registro di un orologio.
Infine, il registro è un livello espressivo, un modo usato da chi parla o scrive per regolarsi rispetto al contesto della sua comunicazione. Quando parliamo di una parola di registro colloquiale, di un discorso di registro elevato, o familiare, o aulico, o sostenuto, o volgare, o burocratico stiamo parlando dell’altezza, dell’ambito in cui quella parola o quel discorso si colloca, della sua estensione, del suo timbro, se vogliamo. Un concetto semplice e cardinale, nell’esplorazione lessicografica e nella catalogazione interiore delle parole.
Si potrebbero elencare ancora altri significati, stretti su ambiti specifici, ma fermiamoci a questo. Perché per essere quel che è, il registro si presta naturalmente ad essere registrato secondo il bisogno con registri non registrati.