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giovedì 10 aprile 2025
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Il bacio di Trump al mondo
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di Gianluca Mercuri
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Buongiorno.
La giornata era iniziata con la frase che campeggiava su tutti i siti, quel kissing my assche era sembrato l’apogeo del trumpismo sul piano sia lessicale sia ideologico – «Tutti i Paesi mi stanno chiamando e baciando il culo per negoziare le tariffe, “per favore, per favore signore, facciamo un accordo, farò qualsiasi cosa”» – ma alla fine il presidente degli Stati Uniti ha restituito il bacio – sì, immaginare un mappamondo con quella forma lì e lui chi ci poggia le labbra rende l’idea di quello che è successo – e ha fatto un clamoroso dietrofront: tariffe congelate per 90 giorni, a parte un simbolico 10%. Per tutti, tranne che per la Cina. Che è (sempre) un discorso a parte.
Il Trump che diceva che non avrebbe ceduto, insomma, alla fine l’ha fatto, dopo una settimana in cui ha messo sottosopra il mondo, con costi enormi per tutti, qualcosa come 15 mila miliardi bruciati sui mercati dal «Liberation Day» del 2 aprile.
Ora la versione ufficiale è che era tutto previsto, tutta una strategia, ma la realtà è che il grande negoziatore ha cambiato gioco prima ancora di cominciare a giocare/negoziare: perché ha visto che le Borse crollavano, che non solo i cinesi ma anche gli europei preparavano contromosse – si vis pacem, para dationem -, che perfino tra i repubblicani cominciavano a serpeggiare malumori e a drizzarsi schiene, che i derelitti democratici rialzavano la testa, che il dollaro e il debito americano risentivano vistosamente dell’assurda guerra scatenata dal capo.
Non è sempre una buona idea reagire al bullo. Ma non lo è nemmeno dargli la certezza che non reagirai mai. I mercati hanno reagito, l’Europa ha annunciato che reagirà, la Cina era pronta a reagire da un pezzo. Il bullo ha fatto marcia indietro.
E poi, in questa newsletter: supreme sentenze italiane che dicono basta, definitivamente, alla collezione di mandati per i governatori regionali, e anche alla colossale fake news del «genitore 1 genitore 2»: mai esistita questa dicitura sui documenti, c’era solo quella di «genitori», finché qualcuno decise di metterci padri e madri. «Irragionevole e discriminatorio», dice la Cassazione. Si torna a genitori.
E ancora: l’accordo per il nuovo governo tedesco, che sarà l’ultimo e decisivo atto dell’establishment contro l’assalto di un populismo con venature reazionarie; il magnifico discorso del Re d’Inghilterra al Parlamento italiano, e altre cose che vale forse la pena leggere e sapere oggi.
Benvenuti alla Prima Ora di giovedì 10 aprile.

Un trader alla Borsa di New York, ieri (Ap)
Il dietrofront di Trump
Le spacconate, la virata, il sollievo, le incognite: punto per punto.
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Il bacio della morte La frase del presidente sui Paesi pronti a baciarlo lì, pronunciata nella notte italiana tra martedì e ieri, aveva gettato il mondo nel più cupo pessimismo. L’immediata e prevista reazione cinese – aumento dei dazi sui prodotti Usa fino all’84% – è suonata come il gong della guerra commerciale globale. I mercati sono crollati. Fino al contrordine serale dalla Casa Bianca.
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Il ripensamento di Donald Erano le 15.30 americane East Time, due ore e mezza prima che chiudesse la Borsa di New York. Su Truth, il suo social, Trump ha postato queste frasi che storci e biografi menzioneranno in tutti i libri su di lui: «Sulla base della mancanza di rispetto che la Cina ha mostrato per le Borse mondiali, dichiaro un aumento dei dazi al 125% con effetto immediato. A un certo punto, speriamo, nel prossimo futuro, la Cina capirà che non è più sostenibile né accettabile fregare gli Stati Uniti e gli altri Paesi. Al contrario, sulla base del fatto che oltre 75 Paesi hanno chiamato gli Stati Uniti per negoziare e che su mio suggerimento non hanno risposto in alcuna forma e modo contro gli Stati Uniti, ho autorizzato una pausa di 90 giorni, durante la quale dazi fortemente ridotti al 10% saranno applicati immediatamente».
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La vittoria di Bessent Ovvero Scott Bessent, il segretario al Tesoro che Wall Street considera l’adulto nella stanza, il volto ragionevole del trumpismo (qui il suo ritratto, di Viviana Mazza). È lui che ha convinto il leader al passo indietro, e infatti è lui, insieme al segretario al Commercio Howard Lutnick, che il presidente ha citato per spiegare la sua mossa a sorpresa. Nessuna menzione per Peter Navarro, Il consigliere falco che lo invitava alla linea dura e che si era beccato dell’«idiota» da Elon Musk. Bessent ha provato a far credere che anche la contromossa fosse stata architettata in anticipo da Trump. Non è così: Trump è stato tirato per i capelli, o per il parrucchino, quand’era sull’orlo dell’abisso.
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Come hanno reagito i mercati? Il fuso orario ha tagliato fuori le Borse europee: a Milano il Ftse Mib ha perso il 2,75%. Ma a Wall Street, tutti i titoli sono schizzati verso l’alto: il Dow Jones del 7,87% , l’S&P500 del 9,5% e il Nasdaq addirittura del 12,16%. Tra i titoli-simbolo Apple, che nei giorni scorsi ha bruciato 250 miliardi di dollari, è risalita del 15,33%, Tesla del 22,69%. Racconta Marco Sabella: «La reazione di giubilo degli investitori Usa, quasi la risposta a una sorta di bollettino della vittoria, si giustifica con il fatto che l’ipotesi di una pesante recessione – che ormai i prezzi dei titoli e delle materie prime stavano incorporando – si allontana improvvisamente e prende invece corpo l’ipotesi che il negoziato diventerà la forma predominante per risolvere il contenzioso commerciale tra Stati Uniti e resto del mondo nei prossimi mesi». Nella notte, prevedibilmente, c’è stato il boom delle borse asiatiche.
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Ma cosa ha convinto Trump? Intanto vediamo «chi». Oltre a Bessent, il santo-subito dei mercati si chiama Jamie Dimon ed è il ceo di JP Morgan. Parlando a Fox Business, ha definito «probabile» la recessione: «Ho una visione pacata, ma credo che la situazione potrebbe peggiorare se non facciamo qualche passo avanti». Parole che hanno molto colpito Trump. Al timore di questa recessione auto-inflitta, Federico Fubini aggiunge un dato: «Stavolta c’era un’anomalia in più a segnalare alla Casa Bianca – per dirla nel linguaggio di Trump stesso – che “non ha le carte”. Di solito nelle tempeste gli investitori comprano prodotti americani quali beni rifugio sicuri: i titoli del Tesoro e dunque il dollaro. Entrambi tradizionalmente salgono di valore e scendono dunque in modo speculare i costi del crescente debito del governo americano. In questa crisi, stranamente, accadeva al contrario. Dal Liberation Day dei dazi alla parziale ritirata di ieri, il dollaro aveva già perso il 2% sulla media delle altre principali valute: un’immensità, per il valore più liquido al mondo. Quanto ai titoli di Stato Usa a 10 anni, i loro rendimenti si sono impennati da meno del 4% a un picco di quasi il 4,5%. Qualcuno stava vendendo pesantemente la carta sovrana dell’America, il cui costo del debito saliva».
E qui veniamo alla Cina
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La risposta di Pechino La Cina, dunque, non solo non ha tolto il 34% di contro-dazi inflitto ai prodotti Usa, come esigeva Trump, ma ci ha aggiunto un 50%. E tutto fa pensare che sia pronta a una guerra commerciale aspra e lunga. Ad andare fino in fondo.
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Che altre carte ha la Cina? Ne ha molte (qui un’analisi di Luca Angelini straletta ieri sul sito), e sono in grado di procurare danni enormi agli Usa. Potrebbe smettere di collaborare per frenare l’export dei precursori chimici che servono a produrre il Fentanyl, l’oppiaceo che uccide per overdose decine di migliaia di americani all’anno. Potrebbe bloccare le licenze dell’export per le terre rare, i minerali vitali per la tecnologia Usa, o limitare l’import di fagioli di soia e sorgo, colpendo a morte gli agricoltori americani, o imporre restrizioni sui servizi, dalle consulenze agli studi legali, un settore con cui – ha ricordato ieri Pechino – gli Usa compensano gran parte del disavanzo commerciale (come avviene del resto con l’Europa). Chiaramente, muovere queste leve danneggerebbe anche la Cina. Con una differenza.
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Xi Jinping non ha il midterm C’è questo dettaglio della democrazia: nella sfida agli Usa il leader cinese si gioca tutta la sua parabola, il posto stesso nella storia, perché ha giurato che il sorpasso ci sarà, la Cina sarà il Paese guida del mondo. E per riuscirci può stressare il suo popolo molto più di Trump, che già tra un anno e mezzo potrebbe rispondere ai suoi elettori di promesse mancate e disastri evitabili, tra cui il ritorno dell’inflazione. È la scommessa di Xi.
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E poi c’è il nazionalismo Un fattore sottovalutato da Trump: se li tocchi nell’orgoglio, i cinesi si arrabbiano e fanno di tutto per fartela pagare. È l’errore commesso dal vicepresidente JD Vance, che doveva essere un Trump con più cervello e per ora sembra un gaffeur invasato. Lunedì ha deriso i cinesi chiamandoli «contadini», lui che incarnava il bifolco bistrattato dalle élite, e la risposta cinese è stata un diluvio social tra indignazione e satira, come questo video inesorabile sull’impossibile ritorno degli americani nelle fabbriche che vorrebbe Trump. I cinesi nelle fabbriche ci vanno, e sono leader in settori chiave come energia pulita e veicoli elettrici. E i più veloci con l’Intelligenza artificiale.
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Ma Trump ha del tutto torto? Certo che no. La devastazione dell’industria americana, la perdita di posti di lavoro, il risentimento della working class bianca l’hanno fatto vincere due volte non per caso. I cinesi hanno goduto del libero scambio ma l’hanno inquinato con trucchi come i furti di proprietà intellettuale, la manipolazione della valuta, lo spionaggio industriale. E la necessità di fermarli è un punto condiviso, bipartisan, infatti anche Joe Biden ha usato i dazi.
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E allora? E allora, il punto è che Trump sta giocando troppo pesante. Non ha badato ai rischi. Ha colpito tutti. Ha sottovalutato le conseguenze dello scontro frontale. Forse proprio lui, il re delle carte e dei deal, ha bluffato in modo scomposto. E gli altri l’hanno capito.
Intanto l’Europa
Intanto l’Europa continua a muoversi. A modo suo.
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La prima contromossa Trump ieri ha sospeso per tre mesi i nuovi dazi, ma non quelli del 25% già decisi (il 12 marzo) su auto, acciaio e alluminio. Così ieri tutti i membri dell’Unione europea tranne l’Ungheria hanno votato per dei controdazi del 25 e del 10% su merci Made in Usa per un valore di 21 miliardi, a partire dal 15 aprile, in tre scaglioni.
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Quali sono i prodotti colpiti? Esclusi whisky e bourbon su pressione di Italia, Francia e Irlanda (per evitare ritorsioni del 200% su champagne e vini europei), dal 15 aprile, spiega Francesca Basso, saranno colpiti prodotti simbolo come Harley Davidson, jeans Levi’s, burro di arachidi, riso, cereali, frutta, succhi, tabacco, sigari, oli e altri ancora. Dal 16 maggio toccherà tra gli altri ad acciaio e alluminio, pollame, carne di manzo, uova e miele. Dal 1° dicembre noci, mandorle e semi di soia, ma nel frattempo si tratterà intensamente.
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Obiettivo: negoziare Gli europei sono decisi a seguire il doppio binario: preparare montagne di controdazi ma intanto trattare per evitarli. Il Donald europeo, il premier polacco Tusk, è l’interprete principale di questo approccio che punta a «sfruttare al meglio i prossimi 90 giorni», spiegando che «mantenere strette relazioni transatlantiche è una responsabilità comune» di Ue e Usa.
Intanto l’Italia
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni (Ansa)
Intanto l’Italia si prepara al viaggio di Giorgia Meloni da Trump, il 17 aprile.
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Il sollievo di Palazzo Chigi La frase di Trump sui Paesi che gli baciano il culo aveva gelato la presidente del Consiglio, che comprensibilmente ha cambiato umore dopo il dietrofront americano. L’opposizione aveva già incluso Meloni tra i «baciatori» pronti ad andare da Trump «col cappello in mano». Lo stop di 90 giorni migliora le cose, ma non le risolve.
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«Non ho la palla di vetro» La preoccupazione resta, come racconta Monica Guerzoni: «È un viaggio ad alto rischio e nessuno lo sa meglio di lei, ma tra i suoi nessuno parla più di azzardo. “Non ho la palla di vetro, da qui al 17 può succedere di tutto”, è la formula che le hanno sentito ripetere in queste ore da fibrillazione cardiaca. La missione però è confermata, nonostante l’imbarazzo palpabile per la battutaccia dell’“alleato speciale” americano, testimoniato da diversi esponenti del governo». Un ministro fratellista ha detto addirittura che «col senno di poi, era meglio la Harris».
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Qual è ora l’obiettivo? La premier «aveva pronte tre carte per il suo tentativo di mediazione e le prime due, convincere Trump ad accettare una tregua o a dimezzare i dazi, le ha bruciate lo stesso inquilino della Casa Bianca. Resta la terza, la più ambiziosa, spiegata da Meloni con la formula “zero per zero”. Nessuna imposta aggiuntiva, nessuna guerra commerciale tra Stati Uniti ed Europa. Un sogno, che alla luce dello spiraglio aperto da Washington non le appare più così irraggiungibile».
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Il quadro economico Proprio ieri, Giancarlo Giorgetti ha presentato il Documento di finanza pubblica. Il ministro dell’Economia oscillava tra sollievo per il passo indietro di Trump e disapunto: «Se non c’era tutto questo casino chiudevamo incredibilmente il bilancio con un deficit sotto il 3% nel 2025, un anno prima del previsto». Di certo, spiega Mario Sensini, ora il Documento prevede una crescita dimezzata rispetto alle stime di ottobre scorso: più 0,6% quest’anno e più 0,8% nel prossimo biennio.
Altre cose importanti
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Lo stop ai tre mandati per le Regioni La Corte Costituzionale ha bocciato il ricorso del presidente della Campania Vincenzo De Luca, che voleva far decorrere il divieto di tre mandati consecutivi (stabilito da una legge nazionale nel 2004) a partire da quello in corso, anziché contare entrambi i suoi due mandati. Quindi non potrà ripresentarsi, e lo stesso vale a questo punto per il veneto Luca Zaia, che tifava molto per De Luca.Lo stop ai due testardi, ingombranti e – va detto – non certo incapaci
governatori, apre scenari e incognite in entrambi gli schieramenti politici.Nel centrosinistra, la segretaria del Pd Elly Schlein è contenta che De Luca non si possa ricandidare (era il suo obiettivo), ma sa che dovrà accordarsi con lui per evitare che candidi comunque un suo uomo. Il leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte vede rafforzare la candidatura di Roberto Fico.Nel centrodestra, l’uscita di scena di Zaia riapre la partita del Nord, dove Fratelli d’Italia è in grande ascesa ma finora, quanto a governatori, non ha toccato palla. Se i meloniani proveranno a prendersi il Veneto, la Lega farà le barricate. Se la Lega riuscirà a tenersi il Veneto, Meloni marcerà sulla Lombardia (i servizi di Maria Teresa Meli e Cesare Zapperi).
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Genitori e basta Sulla carta d’identità dei minorenni torna la dicitura «genitori», al posto di quella «padre» e «madre», considerata «irragionevole e discriminatoria» dalla Corte di Cassazione perché «non rappresenta le coppie dello stesso sesso che hanno fatto ricorso all’adozione in casi particolari». Qui però bisogna chiarire un grosso equivoco: non c’è mai stata sui documenti la dicitura «genitore 1» e «genitore 2» che aveva fatto insorgere la destra. Nel 2019, era stato Matteo Salvini a imporre per decreto la dicitura padre e madre. Ma la realtà, come spiega Elena Tebano, è che sulle carte d’identità, fin dal 1931, c’è stato sempre e solo un riferimento ai genitori «o a chi ne fa le veci».
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Il discorso del Re Carlo III d’Inghilterra, o meglio del Regno Unito, ha parlato ieri davanti alle Camere riunite e ha detto cose bellissime sui legami tra i nostri Paesi, citando Dante, omaggiando Giovanni Falcone, elogiando la Resistenza, i soldati britannici che hanno liberato l’Italia e i civili italiani che li hanno aiutati (il presidente del Senato La Russa non ha potuto che unirsi agli applausi). Carlo ha ribadito più volte che i britannici sono europei, e ha spinto sulla necessità della collaborazione tra europei per la difesa.
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L’accordo per il governo in Germania L’ha annunciato il prossimo cancelliere Friedrich Merz, leader dei democristiani della Cdu, dopo 45 giorni di negoziati con i socialdemocratici della Spd. Mara Gergolet illustra i contenuti, dall’economia (si punta alla modernizzazione di infrastrutture obsolete) all’immigrazione (ci sarà una stretta). Perché è importante? Perché dal successo di questa ennesima Grosse Koalition dipende la possibilità di fermare l’avanzata dai populisti di ultra-destra (un po’ nazistelli) della Afd, che ora sono in testa ai sondaggi. Tolto il freno al debito pubblico, il nuovo governo avrà però una montagna di soldi a disposizione per placare il malcontento montante e frenare la destra.
Da leggere/ascoltare
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L’editoriale di Francesco Giavazzi: I dazi e i calcoli sbagliati di Trump.
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Il commento di Sergio Harari: Salviamo la sanità dal caos Usa.
- L’intervista di Lorenzo Cremonesi ad
Andriy Yermak, il braccio destro del presidente ucraino Zelensky: «L’America sta capendo che il problema è Putin. Presto nuovi negoziati».
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L’intervista di Luca Bertelli a Paolo Crepet: «Dietro ai problemi di molti giovani c’è una cosa che si chiama eredità. Mi fanno ridere i bambini con i trolley a scuola».
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Il podcast Giorno per giorno, con Paolo Ottolina sulle conseguenze dei dazi per Apple, Mara Gergolet sul nuovo governo tedesco ed Elena Tebano sulla sentenza della Cassazione che ha eliminato l’obbligo di indicare la dicitura «padre/madre» sui documenti dei minori.
Il bacio dei glutei di Trump è un apostrofo rosa tra le parole t’odio. L’immagine del suo flaccido fondoschiena, da lui stesso evocata col consueto charme, nell’atto di ricevere l’omaggio (figurato, si spera) delle potenze straniere, rappresenta un punto di non ritorno nella storia della comunicazione politica. Per Trump tutto ha un prezzo e tutto è disprezzo. Verrebbe facile lasciarsi prendere dallo sconforto e dire che ormai hanno vinto loro, i teorici del vaffa e dello sberleffo come forma di intimidazione. Quelli che – al di là dell’Atlantico e anche a casa nostra – non capiscono l’ironia ma solo il sarcasmo, storpiano i cognomi e condiscono i discorsi e gli articoli di insinuazioni aggressive per strappare un facile ghigno al pubblico ruttante.
Il populismo non è né di destra né di sinistra: è becero, insensibile, strafottente. E spaccia per sincerità la volgarità. Ma se adesso ci sembra vittorioso è solo perché gli si contrappone il vuoto balbettio di un pensiero democratico che non riesce più a emozionare nessuno. Ribadisco, non è questione di destra o di sinistra. Reagan e Obama – per restare negli ex Stati Uniti, ora Ingrugniti – agivano su fronti politici opposti, ma sapevano toccare le corde giuste senza bisogno di scendere alle parti basse. Voglio illudermi che vincerebbero ancora oggi, perché la maggioranza silenziosa e silenziata degli esseri umani resta alla ricerca di una voce che le ricordi come si fa a vivere senza odiare.
Grazie per aver letto Prima Ora e buon giovedì (qui il meteo).
(gmercuri@rcs.it, langelini@rcs.it, etebano@rcs.it, atrocino@rcs.it)
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mercoledì 9 aprile 2025
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Largo al factotum Trump: «Tutti mi cercano» |
Una scena del Barbiere di Siviglia, opera buffa di Gioachino Rossini
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di michele farina
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Il barbiere di Washington è soddisfatto del suo lavoro con il rasoio dei dazi puntato alla gola dei Paesi di mezzo mondo: «Tutti ci chiamano, tutti ci baciano il cu…» è arrivato a dire il presidente degli Stati Uniti a cena ieri sera. Imbarazzante, anche per coloro che lo chiameranno o andranno a fargli visita nei prossimi giorni. Oggi cominciamo con una risata amara il nostro giro del mondo in 25 cartoline: i litigi nella squadra Trump, le mosse della Cina e dell’Europa, i Paesi più colpiti, l’andamento delle Borse, l’accordo sul nuovo governo in Germania, la guerra degli uomini e dei robot in Ucraina, chi c’è e chi non c’è al Celac di Tegucigalpa, la strage nella discoteca a Santo Domingo, tre storie di persone scomparse. A metà del viaggio, la voce di Barack Obama su quello che sta accadendo. E su come comportarsi «da cittadini».
La newsletter America-Cina è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corriere della Sera. Potete registrarvi qui e scriverci all’indirizzo: americacina@corriere.it. |
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1. «Questi Paesi ci baciano il cu…»
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viviana mazza
corrispondente da New York
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A una cena di raccolta fondi per il partito repubblicano, poche ore prima dell’entrata in vigore dei dazi «reciproci» alla mezzanotte americana (le 6 del mattino in Italia), il presidente degli Stati Uniti ha parlato dei Paesi stranieri che vogliono trattare con lui sui dazi: «Questi Paesi ci chiamano, mi baciano il culo, stanno morendo dal desiderio di fare un accordo».

Trump ha descritto i leader stranieri come pronti a tutto pur di evitare i dazi, facendone una specie di imitazione: «Per favore, per favore signore, fai un accordo. Farò qualunque cosa signore». Il presidente americano ha aggiunto che sono i Paesi stranieri che «vogliono fare un accordo con noi», mentre gli Stati Uniti «non hanno necessariamente» bisogno di accordi e sono «contenti come sono». Ha sottolineato: «So quel che diavolo sto facendo»… (qui l’articolo completo).
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2. Musk su Navarro: «Più stupido di un sacco di mattoni»
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(Viviana Mazza) I dazi stanno creando dissenso non solo nel partito repubblicano o a Wall Street ma anche tra i consiglieri del presidente. Elon Musk ieri si è scagliato contro il consigliere per il commercio Peter Navarro, protezionista radicale e fedelissimo del presidente, che a 75 anni ha scontato quattro mesi di carcere rifiutando di testimoniare alla Camera sull’assalto al Congresso. «Un cretino» lo ha definito Musk dopo che Navarro, ferreo sostenitore dei dazi, aveva detto alla tv Cnbc che Musk non è «un produttore di auto, ma un assemblatore di auto», perché Tesla dipende in «buona parte» da batterie giapponesi e cinesi (««Alla Casa Bianca lo capiamo tutti, e lo capiscono gli americani»).
Peter Navarro, a sinistra, nello Studio Ovale a marzo (a destra Elon Musk)
«Tesla produce le auto più americane in assoluto. Navarro è più stupido di un sacco di mattoni», ha ribattuto il miliardario sul suo social X, suggerendo che Navarro chieda consiglio al falso esperto da lui inventato nel suo libro Death by China, «Ron Vara» (anagramma di Navarro). La disputa era iniziata nel weekend: Musk ha criticato le credenziali di Navarro (dottorato in Economia a Harvard, andò a insegnare all’Università della California prima di provare inutilmente a candidarsi come sindaco e al Congresso) e Navarro aveva scritto che Musk «non capisce» il commercio… (qui l’articolo completo).
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3. Dazi, tutti gli aggiornamenti: Borse giù
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Sono entrati in vigore i nuovi dazi imposti dagli Stati Uniti su prodotti provenienti da 60 Paesi: la nuova ondata di queste misure è la più imponente decisa fino ad oggi ed è particolarmente punitiva per la Cina. I nuovi dazi variano dall’11 al 50%, ma la rappresaglia diretta contro Pechino porterà l’aliquota al tetto del 104%.

Oggi è previsto il voto sul documento preparato dalla Commissione Ue con la lista delle contro misure pensate per reagire ai dazi di Trump. Circa 70 Paesi sono pronti a negoziare con gli Stati Uniti. Riunione di alto livello del partito comunista cinese per decidere le prossime mosse… (qui tutti gli aggiornamenti).
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4. Europa, prime contromisure (con «il bazooka» sul tavolo)
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francesca basso
corrispondente da Bruxelles
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Nel giorno in cui entrano in vigore i cosiddetti dazi «reciproci» del 20% imposti dagli Stati Uniti sui prodotti europei importati, i Paesi Ue votano la prima contromisura alla guerra commerciale innescata da Donald Trump a metà marzo. Nel primo pomeriggio si riunisce il comitato tecnico in cui siedono i rappresentanti degli Stati membri che voteranno la lista di prodotti Usa a cui saranno applicati dazi del 25% e del 10% in risposta alle tariffe del 25% imposte da Washington il 12 marzo scorso su acciaio, alluminio e derivati Made in Eu. Il valore dei beni americani colpiti sarà di circa 21 miliardi di euro rispetto ai 26 miliardi precedentemente annunciati da Bruxelles.
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue
La cifra è piccola se si considera che i dazi complessivi introdotti da Trump (acciaio, auto e «reciproci») vanno a colpire beni europei per un valore pari a 380 miliardi di euro su cui l’Ue è autorizzata a rispondere in base alle regole della Wto. Tuttavia la strategia dell’Unione resta il negoziato, anche se «il bazooka è sempre sul tavolo ma non lo usiamo perché non vogliamo avere un big bang, vogliamo parlare, vogliamo un negoziato», ha spiegato il portavoce della Commissione Olof Gill. Il «bazooka» è lo strumento anti-coercizione nato con la funzione di deterrenza nei confronti di Paesi terzi che esercitino una pressione economica deliberata sull’Ue e include restrizioni all’import ed export di beni e servizi, sui diritti di proprietà intellettuale e sugli investimenti diretti esteri.
Ma non siamo ancora a questo punto.
Inoltre la Commissione ieri ha ribadito che la regolamentazione europea in materia di tecnologia e digitale è una partita diversa da quella dei dazi e «non confonderemo le due cose nei nostri negoziati con gli Stati Uniti». Così come Bruxelles non intende discutere dell’Iva, che Washington continua a contestare.
Gli Stati membri sosterranno l’elenco di beni proposto della Commissione europea, perché è il frutto di consultazioni approfondite con i portatori di interesse e con i governi Ue. È stata usata la massima cautela per stilare la lista, distribuita nella versione finale lunedì sera. Un mese fa quando si è diffusa la notizia che la Ue avrebbe potuto «tassare» del 50% il bourbon, il presidente Trump promise ritorsioni del 200% sullo champagne e sui vini europei. Abbastanza per spingere Francia, Italia e Irlanda a fare pressione per eliminare il bourbon dall’elenco.
Sono stati tolti pure i latticini. Come si legge nel documento allegato all’elenco con i codici doganali dei prodotti oggetto dei controdazi europei, «le misure riguardano le importazioni di prodotti originari degli Stati Uniti da cui l’Unione non dipende sostanzialmente per l’approvvigionamento. Questo approccio e le date di applicazione applicabili evitano il più possibile un impatto negativo sui vari attori del mercato dell’Ue, compresi i consumatori». I controdazi entreranno in vigore in tre fasi. Una prima tranche di prodotti dal 15 aprile, che comprende riso, cereali, frutta, succhi di frutta, tabacco, sigari, oli, carta, tessuti, abbigliamento, calzature, ceramiche, vetro, materassi, materiali di arredo, natanti, moto. Una seconda tranche dal 16 maggio (manzo e pollame, prodotti in legno, forni, congelatori, prodotti cosmetici) e una terza dal primo dicembre (mandorle e semi di soia). Questo per lasciare spazio ai negoziati.
Ora la preoccupazione è sugli effetti indiretti e sulla sovracapacità produttiva che si riverserà sul mercato dell’Ue, specie dopo l’annuncio ieri che i dazi Usa sulla Cina salgono al 104%. La presidente von der Leyen ha avuto un colloquio telefonico con il premier Li Qiang e ha sottolineato «il ruolo cruciale della Cina nell’affrontare la possibile deviazione degli scambi causata dai dazi» e ha chiesto «una risoluzione negoziata» sottolineando «la necessità di evitare un’escalation».
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5. Italia e Germania i Paesi più danneggiati |
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Le cifre sono state elaborate da Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione, che fanno riferimento a dati del 2023. In termini percentuali il Paese il cui export dipende in maggior misura dal mercato a stelle e strisce è l’Irlanda: il 26,6% del suo export è diretto negli Usa. Dato sorprendente ma che necessita di una specifica: Dublino – grazie a un trattamento fiscale di favore – è la sede europee delle maggiori multinazionali Usa, a cominciare dalle big tech… (qui l’articolo completo).
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6. Meloni verso la Casa Bianca: «Spero di ottenere qualcosa di buono» |
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Lo «zero a zero», nel senso di cancellare i dazi reciproci, è forse una mission impossibile, eppure è con questo spirito che Giorgia Meloni prepara il trolley per la missione negli Usa. La premier varcherà la soglia della White House il 17 aprile, solo 48 ore dopo che l’Europa avrà azionato la contraerea per rispondere ai dazi con cui Trump sta terremotando le Borse di mezzo mondo. Il viaggio della leader italiana, il terzo dal ritorno del tycoon alla Casa Bianca, è rimasto per settimane nell’incertezza. La data del 16 per il primo incontro ufficiale, che Palazzo Chigi aveva lasciato correre, è slittata di un giorno e ieri è arrivata la conferma.
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7. Usa-Cina: dazi e disaccoppiamento (anche a letto) |
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Dunque, nei giorni scorsi si è saputo che, ai diplomatici e ai funzionari governativi americani che lavorano in Cina, Washington ha vietato di avere relazioni amorose e sessuali con donne e uomini cinesi. Decoupling intimo: il disaccoppiamento di cui si parla da tempo non riguarda più solo semiconduttori e dazi, ora azzera le cene romantiche, arriva in camera da letto.
Un divieto tanto doloroso non era più in vigore dai tempi della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica: divieto che i servizi segreti di Mosca erano felici di mettere alla prova. Lo stesso faranno, presumibilmente, quelli di Pechino. La differenza sta però nel fatto che il disaccoppiamento del passato era netto, tra due sistemi che non si parlavano e non commerciavano, mentre cinesi e americani fanno affari e si frequentano da decenni… (qui l’articolo completo).
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In Cina gli osservatori di cose occidentali faticano a trovare un’interpretazione condivisa rispetto all’offensiva dei dazi. O meglio, al di là della risposta uniforme del governo — evidenziata per esempio dal Global Times, giornale semiufficiale del regime — che stigmatizza senza sfumature le «misure ricattatorie» volute da Trump, resta il problema di capire le mosse dell’avversario (nel senso: quali sono i fini nascosti) e come affrontarle nel lungo periodo.
Il presidente Xi Jinping
C’è chi vede le tariffe come una «provocazione» che si esaurirà nel breve periodo; e chi teme invece che ci sia la volontà di riportare indietro le lancette della Storia, per spingere la Cina — oggi fabbrica del mondo — nell’angolo dal quale è uscita dopo la morte di Mao Zedong… (qui l’articolo completo).
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9. La nuova industrializzazione Usa (in un video su TikTok) |
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Un video generato con l’intelligenza artificiale, apparentemente creato da un utente cinese su TikTok, sta facendo discutere per il modo in cui ridicolizza gli Usa a seguito dei dazi imposti da Trump.
Nel video, viene mostrata un’America decadente e triste: uomini e donne americani, rappresentati in modo caricaturale come obesi e trasandati, lavorano in fabbriche e officine in condizioni faticose, con una musica tradizionale cinese in sottofondo che accentua il tono grottesco e beffardo (qui il video).
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10. La linea dei «prudenti» |
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Alcuni governi hanno deciso di giocare la carta dei dazi reciproci, altri hanno imboccato la via del negoziato in risposta alle tariffe del presidente Usa Donald Trump mentre Gran Bretagna, India e Giappone hanno sposato la linea attendista. Così i principali Paesi del mondo hanno reagito alla guerra commerciale avviata dagli Usa.
Shigeru Ishiba, premier giapponese
Anche Israele rientra nella lista dei Paesi soggetti a tariffe aumentate: a inizio aprile gli Stati Uniti hanno introdotto dazi del 17%. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha però incontrato Donald Trump alla Casa Bianca, diventando il primo leader straniero a visitare il presidente degli Usa dal Liberation Day. Netanyahu ha promesso di eliminare lo squilibrio commerciale con gli Stati Uniti e ha aggiunto che Israele lavorerà anche per eliminare le barriere commerciali. «Israele può servire da modello per molti Paesi che dovrebbero fare lo stesso», ha detto Netanyahu sottolineando come il Paese sia un campione del libero scambio «e il libero scambio deve essere un commercio equo». Gli Stati Uniti nel 2024 hanno registrato un deficit commerciale di 7,4 miliardi di dollari con Israele.
L’India opta invece per la prudenza. Come riporta il New York Times, il ministero del Commercio ha dichiarato di stare «esaminando attentamente le implicazioni delle varie misure» annunciate dagli Stati Uniti, dopo che Trump ha imposto tariffe del 27% al Paese. Trump si è detto più volte irritato dall’ampio deficit commerciale degli Stati Uniti con l’India, nonostante i suoi stretti rapporti con il primo ministro Narendra Modi.
Anche il Giappone sta evitando di imporre nell’immediato dazi ai prodotti Usa e il primo ministro Shigeru Ishiba ha definito le tariffe «estremamente deplorevoli». Ha quindi aggiunto che il suo governo sta cercando di ribadire all’amministrazione Trump quanto il Giappone sia un partner strategico per gli Stati Uniti nel processo di re-industrializzazione.
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11. Il discorso di Obama su Trump |
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Quelli che seguono sono brani del discorso che Barack Obama, il 44° presidente degli Stati Uniti, ha tenuto il 3 aprile allo Hamilton College di New York: parole molto attese, con cui Obama ha esortato i cittadini a opporsi alle distorsioni alla democrazia introdotte in modo sempre più capillare da Donald Trump, e le istituzioni (a cominciare dalle università) a resistere. Ma ha anche ricordato gli errori della sinistra americana. Questi estratti sono stati pubblicati sulla Rassegna Stampa, la newsletter che il Corriere riserva ai suoi abbonati: per riceverla basta iscriversi a Il Punto, qui.

Permettetemi di premettere quello che tutti sanno, ovvero che ho profonde divergenze di opinione con il mio più immediato successore, che ora è di nuovo presidente. Ci sono un’infinità di politiche di cui potremmo discutere e sulle quali ho opinioni forti, ma almeno per la maggior parte della mia vita, direi il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, c’è stato un ampio consenso tra democratici, repubblicani, conservatori e liberal su un certo insieme di regole con cui appianare le nostre differenze… (qui l’intervento completo).
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12. Tra i Paperoni l’unico che ci guadagna è «l’oracolo di Omaha» |
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Massimiliano Jattoni Dall’Asén |
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Che l’abbiano calcolata male? Ora che i Big di Wall Street, irritati per le conseguenze nefaste dei dazi sulle Borse globali, stanno attaccando Trump dopo che lo avevano appoggiato apertamente durante la campagna elettorale, il dubbio viene. Primum inter pares, il milionario Bill Ackman che in un post su X ha fatto una completa virata rispetto alla sua posizione pro agenda Maga, accusando il presidente di scatenare «una guerra nucleare economica».

La repentina conversione sulla via di Damasco dei grandi gestori di Wall Street è tutta una questione di denaro sonante e di, appunto, quelli che sembrano essere stati calcoli sbagliati. La riprova è che il 94enne Warren Buffett, non a caso universalmente riconosciuto come «l’oracolo diOmaha per la sua abilità di previsione negli investimenti finanziari, al canto di sirena di Trump non aveva risposto e ora, infatti, se la ride. Come evidenzia la newsletter di Bloomberg, tra i 6 uomini più ricchi del mondo l’«oracolo» è l’unico che dalla tempesta che si è abbattuta sui mercati finanziari mondiali ci sta guadagnando… (qui l’articolo completo).
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13. Chi c’è e chi non c’è al Celac di Tegucigalpa |
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Il brasiliano Lula da Silva, la messicana Claudia Sheinbaum, il colombiano Gustavo Petro sono tra i leader presenti al vertice annuale della Celac (i 33 Paesi della Comunità degli Stati latino-americani e dei Caraibi) che si apre oggi in Honduras. Fondata nel 2011 per rafforzare l’unità regionale e per creare un’alternativa all’Organizzazione degli Stati americani dominata dagli Stati Uniti, la Celac è rimasta una «creatura» della sinistra latino-americana che i governi di destra – ad esempio quello dell’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro – hanno sempre ignorato.

Al centro dell’incontro, la linea da adottare nei confronti di Donald Trump, in particolare rispetto alle sue politiche sull’immigrazione e alle recenti misure tariffarie imposte da Washington, che stanno colpendo duramente la regione, il cui partner commerciale, nella maggior parte dei paesi, sono proprio gli Stati Uniti. «È un momento importante per parlare dell’unità dell’America Latina e dei Caraibi. Siamo una regione con un enorme potenziale e culture molto simili. Questo è uno degli argomenti che solleverò durante l’incontro», ha detto la presidente messicana Claudia Sheinbaum che guida la riunione.
Peccato che al tavolo mancheranno leader come l’argentino Javier Milei,il salvadoregno Nayib Bukele, entrambi molto vicini a Trump, ma anche la peruviana Dina Boluarte, l’ecuadoregno Daniel Noboa e perfino il progressista cileno Gabriel Boric. Hanno inviato in Honduras al loro posto dei rappresentanti governativi.
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14. Corte Suprema e deportati, la doppia vittoria di The Donald |
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(Sara Gandolfi) Lo hanno deportato nel famigerato mega-carcere di Nayib Bukele, in El Salvador, «per un errore», come ammettono le stesse autorità degli Stati Uniti. E lì resterà, per decisione della Corte suprema.
L’operaio salvadoregno Kilmar Abrego Garcia, immigrato illegalmente negli Usa anni fa per sfuggire alle gang che minacciavano la sua famiglia, oggi si trova dietro le sbarre proprio con loro, i criminali delle «maras». E forse in quelle celle, tanto apprezzate da Trump, marcirà. Perché, informano dalla Casa Bianca, gli Stati Uniti non hanno giurisdizione oltre confine.
Il ministero della Giustizia a Washington
Il destino di Kilmar sarebbe ormai nelle mani dei magistrati salvadoregni, che ancora devono giudicare gran parte delle centinaia di migliaia di persone arrestate senza processo nel Paese centro- americano dopo l’introduzione dello stato di emergenza tre anni fa (e siamo alla 37ª proroga). I giudici conservatori della Corte suprema non hanno però bloccato solo l’ordine di rilascio e rientro negli Usa di Abrego Garcia.
Nell’estenuante braccio di ferro con le Corti federali, hanno anche annullato l’ordinanza di James Boasberg, giudice del distretto di Columbia, che il 15 marzo ha negato all’amministrazione Trump l’uso di una legge del 1798 (l’Alien Enemies Act) per deportare i migranti all’estero in quanto «nemici stranieri».
Contro la decisione hanno votato i tre membri liberal della Corte suprema e la giudice Amy Coney Barrett, pur nominata da Trump. Centinaia di venezuelani e salvadoregni, accusati di essere membri di gang e terroristi, sono stati deportati in El Salvador con voli «segreti».
Accogliendo il ricorso di cinque venezuelani, Boasberg aveva ordinato il blocco dei trasferimenti e il rientro degli aerei.
Ordine ignorato dalla Casa Bianca. La Corte Suprema, pur confermando l’ammissibilità dei ricorsi, ha stabilito che il distretto di Columbia non ha giurisdizione in merito.
L’amministrazione Trump paga al governo di Bukele sei milioni di dollari per la detenzione dei deportati sia nel mega-penitenziario di Cecol sia nelle sovraffollate vecchie carceri di El Salvador.
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15. Santo Domingo, strage nella discoteca |
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Almeno 98 persone sono morte, e oltre 150 sono rimaste ferite, in seguito al crollo del tetto della discoteca Jet Set di Santo Domingo nelle prime ore di martedì 8 aprile. Il numero delle vittime aumenta di ora in ora: almeno 300 persone si trovavano all’interno del nightclub quando il tetto è crollato, intorno all’una di notte. La causa dell’incidente non è ancora nota.
«Pensiamo che molti siano ancora vivi sotto le macerie ed è per questo che le autorità non si arrenderanno finché anche l’ultima persona non sarà stata estratta», ha detto Juan Manuel Méndez, direttore del Centro Operativo per le Emergenze, che sta organizzando i soccorsi. Oltre 50 persone sono già state estratte vive… (qui l’articolo completo).
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16. Il corpo di Alessandro, in un fiume e in una valigia |
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«Sono sotto choc, Alessandro era un idealista, un sognatore, non riesco proprio a spiegarmi quest’orrore…», si sfoga al telefono il professor Tommaso Pizzorusso, ordinario di Neuroscienze alla Normale di Pisa. Con lui, Alessandro Coatti, 38 anni, di Portomaggiore (Ferrara), si laureò con 110 e lode nel 2010, prima di partire per l’University College di Londra ed entrare a far parte dal 2017 della Royal Society of Biology.
Il suo cadavere, fatto a pezzi, è stato ritrovato domenica a Santa Marta, località turistica sulla costa caraibica della Colombia. Il corpo completamente smembrato: la testa e le braccia erano all’interno di una valigia abbandonata, notata domenica mattina da alcuni ragazzini nella zona di Villa Betel, vicino allo stadio Sierra Nevada, mentre il torso è stato rinvenuto lunedì pomeriggio chiuso in un sacco di plastica nelle acque del fiume Manzanares, vicino al ponte di La Platina… (qui l’articolo completo).
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17. Meloni: «Lavoriamo per riportare a casa Alberto» |
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«Il governo è al lavoro per riportare Alberto a casa». Sono le parole della premier Giorgia Meloni ad Armanda Colusso, la madre di Alberto Trentini, il cooperante veneziano arrestato il 15 novembre a Guasdualito in Venezuela mentre lavorava come capo missione per l’organizzazione internazionale Humanity & Inclusion. Una rassicurazione tanto attesa dalla famiglia che da quasi quattro mesi vive nell’angoscia e nel terrore di non riuscire a riabbracciare il figlio di 45 anni, da oltre dieci impegnato in missioni umanitarie in tutto il mondo… (qui l’articolo completo).
Alberto Trentini, prigioniero in Venezuela
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18. Che fine ha fatto Angelika? |
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Che fine ha fatto Angelika Melnikova? La portavoce del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa in esilio è stata vista l’ultima volta a febbraio a Varsavia, dove si era rifugiata nel 2020 in fuga dal regime di Lukashenko, insieme alle due figlie piccole e al marito da cui poi avrebbe divorziato. La loro scomparsa però è stata denunciata soltanto il 27 marzo, quando Angelika ha smesso di rispondere ai messaggi: alla polizia di Varsavia si è recato Pavel Latushka, vice capo del governo ombra bielorusso basato in Polonia e guidato dalla leader dei dissidenti Svetlana Tikhanovskaya.

I colleghi non la vedevano di persona da diverse settimane, da fine febbraio si collegava in remoto, senza destare sospetti: aveva detto loro di essere malata di Covid. Dopo la denuncia della sua scomparsa, un quotidiano bielorusso aveva sostenuto che si era imbarcata su un aereo diretto fuori dall’Ue. Ma il suo telefono è stato poi rintracciato in Bielorussia, dove l’ex marito è riapparso con le figlie. Le ultime notizie indicano che Angelika ha lasciato la Polonia il 26 febbraio e che lui ha attraversato il confine il 3 marzo con le bambine.
Da tenere in conto che l’uomo non aveva condiviso la svolta di Angelika da dirigente della Coca Cola ad attivista: prima del 2020 la donna aveva scarso interesse per la politica, poi indignata dalla violenta repressione seguita alle proteste di massa contro le elezioni farlocche del 2020 si è mobilitata registrando anche appelli video e rilasciando interviste.
Due indizi non fanno una prova, ma il mistero si è fatto, purtroppo, meno fitto, se si considera che il regime di Lukashenko non molla la presa sui dissidenti all’estero (sono circa mezzo milione) e si inventa continuamente nuovi modi per limitare i loro diritti e spingerli a tornare a casa.
Ora l’opposizione bielorussa non solo è preoccupata per la sua sorte ma sta anche cercando di sbloccare alcuni fondi del Consiglio che lei gestiva, per le campagne d’informazione necessarie per sensibilizzare un’Europa concentrata sull’Ucraina e il nuovo corso dell’America. Per Minsk sarebbe come prendere due piccioni con una fava.
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Che il fronte russo-ucraino sia diventato un gigantesco laboratorio a cielo aperto dove si stanno sperimentando le tecniche e le strategie della guerra del futuro è cosa nota. Ma vale la pena ripeterlo, perché questa evidente verità trova ogni giorno nuove conferme. Negli ultimi mesi l’esercito ucraino a corto di nuove reclute, e non in grado di sostituire i volontari della prima ora diventati ormai veterani bisognosi di riposo, sta utilizzando a tutto spiano le migliaia e migliaia di droni di ogni tipo sfornati dalle sue idustrie militari. Gli ucraini sono passati da meno di 5.000 droni prodotti all’anno nel 2021 agli attuali oltre 2,5 milioni con l’ambizione di superare i 4 milioni nel 2026.

Una volta dominavano la produzione i droni marini e aerei, con grande enfasi sui piccoli droni kamikaze: micidiali bombe intelligenti in grado di dare la caccia dall’aria ai soldati nemici anche all’interno delle abitazioni e nelle trincee coperte. Ma negli ultimi tempi le industrie si stanno specializzando sui robot di terra in grado di sparare come fossero fanti anche armi pesanti e capaci di muoversi su terreni difficili come acquitrini, foreste fitte e zone montagnose. Negli ultimi giorni Mosca a sua volta ha annunciato l’invio al fronte di droni per le fanterie disegnati per contrastare quelli ucraini.
Tra i soldati chi non impara è perduto. Lo rivelano anche i fanti ucraini, che raccontano delle unità nordcoreane impegnate nella regione russa di Kursk. Al loro arrivo nelle zone di battaglia, tra settembre e ottobre scorsi, erano letteralmente carne da cannone destinata a venire maciullata dalle esplosioni. Sembra che i primi circa 12.000 soldati abbiano perso rapidamente almeno 4.000 dei loro. Ma oggi, scrive anche il Wall Street Journal, le prestazioni delle truppe nordcoreane sono rapidamente migliorate. Si muovono in piccoli drappelli con la copertura aerea, dispongono di attrezzature elettroniche in grado di interferire nei sistemi ucraini che controllano i droni, soprattutto si sono bene integrate con le unità di veterani russi. Le loro perdite sono nettamente diminuite. Una lezione anche per gli eserciti europei, che sono nella necessità di mandare esperti sul campo per seguire e imparare dai colleghi ucraini (qui tutti gli aggionamenti sulla guerra).
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20. Il caso dei due soldati cinesi in Ucraina |
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(Lorenzo Cremonesi) Puntare il dito verso la Cina nella speranza di convincere Donald Trump ad essere più duro con la Russia. Non sembra difficile comprendere la logica che spinge Volodymyr Zelensky a enfatizzare la rilevanza della cattura di due soldati cinesi che combattevano inquadrati con le unità russe nelle zone occupate del Donetsk. Il fatto che la Russia stia in modo diretto o indiretto coinvolgendo la Cina «è un ulteriore segnale che Vladimir Putin non ha alcuna intenzione di porre fine a questo conflitto», dichiara aggressivo il presidente ucraino.
Il suo ministro degli Esteri, Andrii Sybiga, chiede chiarimenti alla rappresentanza diplomatica cinese a Kiev. E ciò avviene proprio mentre a Washington i mediatori americani stanno cercando di riprendere i colloqui con le delegazioni russa e ucraina per dare corpo al progetto di cessate il fuoco frutto dei negoziati in Arabia Saudita… (qui l’articolo completo).
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21. Slittano i colloqui tra Kinshasa e i ribelli dell’M23 |
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(Michele Farina) Dovevano cominciare oggi, ma questa mattina è arrivata la fumata nera: i colloqui tra il governo della Repubblica Democratica del Congo (Drc) e i ribelli dell’M23 appoggiati dal Ruanda sono stati rinviati sine die.

Dovevano cominciare senza fanfare, lontano dall’Africa, a Doha in Qatar. Poteva essere un piccolo passo avanti per risolvere la crisi nell’Est del Paese: migliaia di morti, milioni di sfollati vecchi e nuovi. I ribelli dell’M23, affiancati dalle truppe ruandesi, negli ultimi mesi hanno conquistato Goma e Bukavu, nel Nord e nel Sud Kivu. Finora la loro richiesta di trattative dirette con Kinshasa era sempre stata rifiutata dal presidente congolese Felix Tshisekedi. Un mese fa il Qatar aveva convinto quest’ultimo a sedersi allo stesso tavolo con il ruandese Paul Kagame, gran burattinaio dei guerriglieri. La settimana scorsa l’M23 si era ritirata da Walikale, città a circa 450 km da Kisangani, come gesto di buona volontà. I ribelli se lo possono permettere perché stanno vincendo la guerra. Nonostante qualche sanzione imposta di recente, il mondo non sembra interessato. Felix non ha molte alternative: deve trattare.
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22. Accordo di governo in Germania |
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Hanno chiuso i negoziati a mezzanotte e sono andati a dormire, stamattina hanno ripreso alle 8.30 per mettere a punto qualche dettaglio di presentazione. In Germania è stato raggiunto l’accordo per il governo più costoso di sempre, per le spese che faranno, e l’intesa è stata raggiunta in 45 giorni, tempi record per i tedeschi anche se agli osservatori esterni sono sembrati tanti.
P.S. L’intesa dovrà essere votato dai membri dei due partiti, Cdu e Spd, per cui l’insediamento ci sarà a maggio. I socialdemocratici sembra abbiano ottenuto i ministeri delle Finanze e della Difesa.
Friedrich Merz, il nuovo cancelliere tedesco
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23. Re Carlo al Corriere: «Il mondo non torni indietro» |
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«Conosce la Sustainable Markets Initiative? È il mio orgoglio quel progetto per la transizione verde delle imprese…ma ora sono molto preoccupato che si torni indietro. Dobbiamo lavorare perché il mondo non torni indietro nel percorso verso la sostenibilità», ha detto re Carlo al Corriere, al ricevimento in suo onore a Villa Wolkonsky, nel magnifico parco dove all’arrivo lunedì aveva scattato la foto di anniversario dal sì con Camilla, 20 anni fa oggi.
In mano tiene un calice con scorze di limone, un vezzo che avevo notato già incontrando Carlo solo principe di Galles, anni fa. E nella voce, calda e profonda, così diversa da quella cristallina di Elisabetta, un pizzico di soddisfazione per la prima giornata di visita di Stato iniziata al Quirinale, dove i reali sono arrivati scortati da 32 Corazzieri a cavallo… (qui l’articolo completo).
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24. Non era tutta colpa dello screen time |
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Quando abbiamo capito che i nostri figli stavano male, anzi che stavano sempre peggio, quando li abbiamo visti isolarsi, deprimersi, spegnersi a volte, invece della luna abbiamo guardato il dito. All’inizio abbiamo pensato che fosse tutta colpa dello screen time. Ce la siamo presa con il troppo tempo che i ragazzi trascorrevano (e ancora trascorrono) fissando lo schermo del proprio smartphone invece di uscire, relazionarsi fisicamente con gli altri, giocare e, persino, parlare con noi. Intendo, parlarci un po’ di più del dialogo standard a cui molti genitori si sono rassegnati: «Come stai?» «Bene». «Che hai fatto?» «Niente». Amen.

Del resto dopo il Covid – e i lockdown e la Dad (la didattica a distanza) -, nella nostra parte di mondo lo screen time degli adolescenti si era moltiplicato di due o tre volte arrivando a superare le otto ore al giorno negli Stati Uniti (nell’Unione Europea siamo attorno a sei). Anche il malessere dei giovani sembrava peggiorato in egual misura e come al solito, quando notiamo una correlazione fra due fenomeni, abbiamo concluso che ci fosse un rapporto di causa ed effetto. Allora abbiamo reagito:.. (qui l’articolo completo).
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25. Sarà così la moto del futuro? |
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Una via di mezzo tra Goldrake e la MotoGP. In effetti, se esistesse, questo cavallo potrebbe essere uscito solo dalla matita di un giapponese. Queste immagini sono frutto di un sapiente lavoro di AI? No, sono reali. L’invenzione è solo fine a sé stessa? No, anche se non ci stupiremmo di vedere il cavallo nel prossimo film di James Bond.
Si chiama Corleo ed è un concept vehicle prodotto dalla Kawasaki. È stato presentato in questi giorni alla Kansai Osaka Expo 2025 ed è già diventato di tendenza sul web. Come nel 2016 la BMW, in occasione del centenario, ha progettato la concept car Vision 100 scommettendo su come sarà la mobilità nel prossimo secolo. Così ha fatto anche la Kawasaki Heavy Industries riempiendo Corleo di idee e strumenti avveniristici… (qui l’articolo completo).
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Grazie. Cuntrastamu. A domani.
Michele Farina
«America-Cina» esce dal lunedì al venerdì alle ore 13
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