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sabato 12 aprile 2025
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Lo scontro Usa-Cina, punto per punto |
 Un pupazzo di Donald Trump, made in China (Ap)
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di Gianluca Mercuri
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Buongiorno. Lo scontro tra Stati Uniti e Cina ha raggiunto il picco. Almeno nella spirale delle rappresaglie: i cinesi vestono i panni dei saggi – un’auto narrazione cui in parte credono davvero, ma che molto usano per proiettare un’immagine diversa dalla realtà di un regime dispotico e nazionalista – e dicono che per quanto li riguarda finisce qui, non andranno oltre i dazi al 125% sui prodotti Usa con cui hanno replicato al 145% raggiunto dagli Usa sui loro.
La partita è enorme, e in ballo c’è davvero il futuro comune: da come evolverà, dipenderanno la salute delle economie (per tutti) e la qualità delle democrazie (per chi ce le ha).
Noi che ce le abbiamo, noi europei e noi italiani, siamo presi in mezzo come mai si sarebbe potuto immaginare, con l’alleato di sempre che ci respinge e il rivale sistemico – così l’Ue definiva la Cina nei suoi documenti ufficiali non più tardi di due anni fa – che fa di tutto per sedurci. Un corteggiamento che non può lasciarci indifferenti, ma nemmeno portarci a pensare che il rivale si trasformi in fidanzato. Perché noi siamo il più completo sistema democratico della storia, loro la più grande dittatura di sempre.
E poi, in questa newsletter, si parla di calciatori scommettitori, regioni che dividono gli schieramenti politici, guerre vere che non finiscono, un caso di cronaca che non esce mai dalle cronache (Garlasco), la condanna definitiva di un manager di Autostrade per una strage sulle strade. Ma anche della buona notizia arrivata a tarda serata: l’agenzia Standard & Poor’s migliora il rating sul debito sovrano dell’Italia, da Bbb a Bbb+, una prova di fiducia nella nostra economia che fa particolarmente bene in questa temperie.
Benvenuti alla Prima Ora di sabato 12 aprile.
Lo scontro Usa-Cina
Trump e Xi a Mar-a-Lago nell’aprile 2017 (Ap)
L’occhio per occhio, le accuse, l’attesa delle prossime mosse: punto per punto.
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La risposta di Pechino La Cina ha rialzato i controdazi sulle importazioni americane dall’84% al 125%, annunciato ricorsi all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e chiarito che non seguirà più gli Stati Uniti nei continui rilanci tariffari: «Ignoreremo ulteriori giochi sui numeri dei dazi Usa» perché sono «privi di giustificazione economica», visto che già ora i beni americani sono fuori mercato.
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Tigre di carta L’accusa all’America è di usare le tariffe come arma di «bullismo e coercizione», ma è significativo che la Cina rispolveri un vecchio slogan di Mao, definendo l’America una «tigre di carta». Serve a dare l’idea che, anche senza altri controdazi, la Cina non teme di perdere il braccio di ferro.
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La risposta Usa Trump l’ha scritta come sempre sul suo social Truth, e nel suo stile consueto: «Stiamo andando davvero bene con la nostra politica sui dazi. Molto entusiasmante per l’America e per il mondo». La portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha aggiunto che il presidente chiede agli americani, «che lo hanno eletto in modo schiacciante», di «fidarsi di lui» anche sui dazi.
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Ma si fidano? Qualche scricchiolio c’è, riporta da New York Viviana Mazza: «Il tasso di popolarità di Trump è sceso di 14 punti percentuali da quando è tornato alla Casa Bianca, secondo un sondaggio di Economist/YouGov realizzato in gran parte dopo l’annuncio dei dazi». Tra i repubblicani comincia a montare il nervosismo per le elezioni di midterm del prossimo anno. Ma è soprattutto la finanza ad agitarsi.
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«Forse siamo già in recessione» A dirlo è Larry Fink, ceo di BlackRock, il più grande gestore di patrimoni al mondo (controlla asset per 11,6 trilioni di dollari). Frase completa: «Siamo molto vicini o addirittura già dentro alla recessione». Insiste anche Jamie Dimon, il ceo di Jp Morgan le cui parole in tv avevano già spinto Trump al dietrofront sui dazi, con la pausa di 90 giorni (per tutti tranne che per la Cina) annunciata mercoledì: «L’economia statunitense sta affrontando notevoli turbolenze», conferma Dimon.
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L’attacco alle pensioni È quello il punto dolente della base trumpiana. «Non si tratta di Wall Street contro Main Street – ha detto Fink citando la frase pronunciata dal presidente per dire che lui sta con la gente comune e non con la finanza –. La flessione del mercato ha un impatto sui risparmi pensionistici di milioni di persone comuni». Sono quelli che hanno firmato i piani di risparmio previdenziale detti 401K, legati in gran parte agli investimenti in Borsa.
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I due pilastri che vacillano Sono il dollaro come moneta di riserva per tutti, banche centrali come istituzioni private, e i titoli di Stato americani come unici valori davvero sicuri: queste due certezze, spiega Federico Fubini, sono messe a rischio dopo 80 anni:
«L’economia globale sta entrando in terra incognita. L’imprevedibilità e apparente carenza di logica con cui i dazi “reciproci” di Trump sono stati imposti, poi ritirati per quasi tutti, ma alzati al parossismo per la sola Cina ha improvvisamente ricordato a molti sui mercati la realtà sottostante: gli Stati Uniti non possono alienarsi i loro creditori; non possono creare in loro dubbi quanto alla competenza di chi governa, perché devono convincere quegli stessi creditori a finanziare gli enormi debiti privati e pubblici del Paese».
«Solo nel 2025, il Tesoro degli Stati Uniti deve emettere nuovi titoli per circa duemila miliardi di dollari per coprire il deficit. Deve anche rinnovare titoli di scadenza per circa ottomila miliardi di dollari. E far fronte ad altri 500 miliardi di dollari in interessi».
«Una delle reazioni è stata nei Treasuries, i titoli di Stato Usa: per la prima volta hanno iniziato a comportarsi come titoli non privi di rischio. Il rendimento a 10 anni è salito dal 3,9% del 2 aprile a un picco appena sotto il 4,6% ieri. Non era mai successo che lo spread con l’analogo Bund tedesco (scarto di rendimento) salisse di oltre lo 0,5% in così pochi giorni».
Il 2 aprile, il cosiddetto Liberation Day, il segretario al Commercio Scott Bessent aveva giurato che i dazi avrebbero ridotto i i rendimenti dei Treasuries.
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Ma chi farà la prima mossa? Trump si aspettava una telefonata di Xi Jinping già in questi giorni. «La Cina vuole fare un accordo. Solo che non sanno bene come procedere, sapete, è gente orgogliosa», ha detto mercoledì durante un evento alla Casa Bianca. Trump pensa di avere costruito un buon rapporto con Xi da quando lo ospitò in Florida nel 2017: da allora ripete spesso che lo stima molto. Ma Xi non si fida: prima di chiamarlo, secondo la Cnn, vuole la certezza che non gli riservi una sfuriata da esibire ai media come quella di cui fu vittima Zelensky a fine febbraio.
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Fino a dove può spingersi Xi? Come scritto nei giorni scorsi, il livello di stress cui può sottoporre i cinesi è più alto di quello di cui dispone Trump. Le carte di Xi sono alte perché si è costruito un bunker: può colpire al cuore l’agricoltura Usa comprando i fagioli di soia dal Brasile; può smettere di collaborare per frenare l’export dei precursori chimici che servono a produrre il Fentanyl, l’oppiaceo che uccide per overdose decine di migliaia di americani all’anno; può bloccare le licenze dell’export per le terre rare, i minerali vitali per la tecnologia Usa; può fare melina su TikTok, sulla cui parte americana Trump vuole assolutamente mettere le mani attraverso amici suoi (qui il corsivo di Martina Pennisi) e certo non gli darà mai l’algoritmo che incatena i giovani di tutto il mondo. Ma l’arma letale è un’altra.
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E qui si torna al debito Se l’escalation non si ferma, il timore è che la Cina cominci a vendere la montagna di titoli del Tesoro americano che ha accumulato. Forse ha già cominciato, scrive Fubini: «Una teoria sul mercato, senza prove né indizi, è che la Cina abbia accelerato lo smobilizzo dei suoi 760 miliardi di riserve in Treasuries proprio per destabilizzarli». Il superfalco trumpiano Peter Navarro, ispiratore dei maxi dazi, lo ritiene impossibile, dice che sarebbe l’inizio della distruzione reciproca. La speranza è che non l’abbia iniziata lui.
Intanto l’Europa
Intanto l’Europa arriva alla battaglia decisva molto più attrezzata di quanto si temesse fino a poche settime fa.
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Lunedì 14 aprile, il D-Day Quel giorno, l’eurocommissario al Commercio Maros Sefcovic sarà a Washington seduto a un tavolo dall’altra parte del quale ci sarà Scott Bessent, la sua controparte americana. Sefcovic, uno slovacco con fama di negoziatore molto abile, indica il quadro generale: «Gli Stati Uniti rappresentano il 13% del commercio globale di beni. L’obiettivo è proteggere il restante 87% e fare in modo che il sistema commerciale globale prevalga per il bene di tutti gli altri».
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Cosa vuol dire? Che l’Europa farà di tutto per recuperare un rapporto normale con l’alleato storico, ma è pronta all’opzione peggiore. Quindi guarda ad accordi che aprano gli altri mercati e torna a guardare anche alla Cina, con cui a luglio terrà un vertice in occasione dei 50 anni di rapporti Bruxelles-Pechino.
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Ci stiamo gettando tra le braccia dei cinesi? No. L’Europa è molto cauta di fronte alla corte smaccata che le fa Pechino, che anche ieri ha chiamato al fronte comune «contro i bulli». Ci sono Paesi come la Spagna (ieri il premier Pedro Sanchez era da Xi) pronti ad approfondire il flirt. Ma l’Unione sa bene che un mercato aperto con i cinesi è impossibile finché loro ci inondano con i loro prodotti sussidiati. Ma può essere l’occasione per convenire nuove regole anche con loro.
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E con gli americani? La pistola è nel cassetto, con i controdazi sospesi in questa pausa di 90 giorni. Ma forse a Washington Sefcovic la poggerà sul tavolo: si tratta dell’ipotesi di una tassa sui ricavi pubblicitari dei giganti tecnologici come Amazon, Google e Facebook, evocata anche da Ursula von der Leyen. La minimum tax concordata nel 2021 – un’imposta almeno del 15% in ogni Paese in cui operano – è stata poi boicottata dagli americani. Ora l’Euroapa farà di tutto, in questo tre mesi, per evitare la guerra.
Intanto l’Italia
Intanto l’Italia assicura di volere contribuire al disgelo Usa-Europa senza giocare in proprio. La prova arriverà presto.
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La visita di Meloni Giovedì 17 aprile la presidente del Consiglio sarà nello Studio Ovale accanto a Trump: il momento più importante di tutta la sua vita politica. Dovrà ottenere qualcosa, muovendosi da italiana. Ma non troppo, perché in Europa c’è chi lo vedrebbe come un tradimento.
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Perché la premier si gioca tanto? Perché fin dalla vittoria elettorale di Trump ha parlato di «relazione speciale» con lui, ha sottolineato l’affinità ideologica e valoriale con la destra americana e si è posta come pontiera tra Usa ed Europa. Ma l’aggressività di Trump ha spiazzato anche lei.
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Con quali obiettivi va in America? Meloni, spiega Marco Galluzzo, «andrà a rappresentare gli interessi italiani, “è chiaro che non tratto a nome dell’Unione europea“, ma questo non significa che nel faccia a faccia con Trump tra i temi non ci possano essere le relazioni transatlantiche tout court, perché “è altrettanto chiaro che mi sono coordinata anche con Ursula von der Leyen”». Un risultato per cui Meloni firmerebbe è convincere Trump a partecipare a un vertice Usa-Europa, dove mgari arivare allo «zero a zero» evocato in questi giorni, ovvero zero dazi per tutti.
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E per l’Italia? L’Italia è un Paese che esporta in America più di quanto importi, ed è una di quelle cose che Trump odia. Per questo Meloni gli parlerà di investimenti di grandi aziende italiane negli Usa, da Eni a Pirelli fino alle armi di Leonardo. Proverà a placarlo anche ufficializzando che arriveremo al 2% del Pil nelle spese per la difesa.
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L’avvertimento di Schlein La scommessa della premier è confermare di essere speciale agli occhi di Trump ma senza dare l’idea di tradire l’Europa. È il senso delle parole della segretaria del Pd: «È l’Europa che deve negoziare con Trump, l’Italia non dia al presidente americano l’impressione di essere disponibile a bilaterali». Matteo Renzi si conferma la voce più pungente dell’opposizione in questa fase: «Che l’incontro Meloni-Trump sia decisivo per le sorti dell’umanità lo credono solo i fratellini della Garbatella. È utile e le auguriamo un grandissimo risultato. Ma contesto la narrazione che i dazi non ce li mettano perché tanto ci pensa Giorgia».
Insomma, ci aspettano giorni di grande fibrillazione. Intanto ecco la buona notizia arrivata ieri sera:
L’agenzia Standard & Poor’s ha migliorato il rating sul debito sovrano dell’Italia, da Bbb a Bbb+, mantenendo l’Outlook, a «stabile». La promozione, dice S&P «riflette il miglioramento dell’economia dell’Italia in un contesto di crescenti venti contrari a livello globale, nonché i graduali progressi compiuti nella stabilizzazione delle finanze pubbliche». Una valutazione che si basa sulla tregua di 90 giorni sui dazi, ma anche sulla «continuità politica» e sulla «stabilità della maggioranza» di governo. Con un avvertimento chiaro: «Le nostre proiezioni riflettono l’ipotesi che i dazi Usa di base sulle merci dell’Ue (incluse quelle italiane) rimangano al 10%».
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha espresso ovviamente tutta la sua soddisfazione: «Il giudizio di S&P premia la serietà dell’approccio del governo alla politica di bilancio. Nel clima generale di incertezza, prudenza e responsabilità continueranno a essere la nostra linea di azione» (qui l’analisi di Enrico Marro).
La tendopoli tra le macerie di Jabalya, a Gaza (Afp)
- Lo scontro sulle regioni La sentenza della Corte Costituzionale, che mercoledì ha stoppato la possibilità di tre mandati consecutivi per i governatori regionali, continua a provocare sussulti nei due schieramenti.Nel centrosinistra, il presidente della CampaniaVincenzo De Lucaha preso atto dello stop definitivo alle sue ambizioni di riconferma, ma non rinuncia certo a dare le carte e a intralciare il Pd, che sarebbe il suo partito ma con i cui vertici è in rotta proprio perché lo vedono come il simbolo dei «cacicchi» locali con troppi poteri. Il Pd è avviato all’accordo con i 5 Stelle per candidare l’ex presidente della CameraRoberto Fico, ma De Luca l’ha bocciato con parole chiarissime: deve governare è «chi ha dimostrato di saperlo fare, non il prodotto della politica politicante». D’altronde, Fico ha esordito dicendosi contrario al termovalorizzatore di Acerra, che vorrebbe dire riportare la Campania all’anno zero sui rifiuti. De Luca, perfido, ha fatto diffondere perfino la voce che potrebbe sostenere il centrodestra se candidasse un suo sodale,Giosy Romano. Probabilmente bluffa, ma Pd e 5 Stelle le carte di De Luca dovranno vederle eccome.Nel centrodestra, un ruolo parallelo a quello di De Luca lo gioca il presidente del VenetoLuca Zaia, anche lui monumento locale destinato alla rimozione. La dipartita del super-governatore leghista risvegliagli appetiti di Fratelli d’Italia, giustificati dal fatto che è il primo partito sia nel Nord-Ovest sia nel Nord-Est ma hazero governatori. Eppure la Lega continua a muoversicome se il Nord fosse cosa sua: suoi sono i governatori in Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino, ma come scrive Cesare Zapperi, «non intende mollare nulla», né il Veneto né la Lombardia. Eppure in Lombardia alle Europee dell’anno scorso Fdi ha preso il31,7%, la Lega si è ridotta al 13. Inimmaginabile che Meloni non provi a prendersela. Ma se c’è una cosa che può davvero spaccare il centrodestra – da 30 anni un’alleanza quasi di ferro – è questa.
- Il calcio e le scommesse Torna l’incubo dei giocatori di pallone che si fanno giocatori d’azzardo, in violazione delle regole del loro sport e delle leggi. Tornano gli stessi nomi dell’anno scorso, con qualche aggiunta e qualche chiarimento necessario: Niccolò Fagioli (oggi alla Fiorentina) e Sandro Tonali (oggi al Newcastle) hanno già scontato le squalifiche inflitte dalla giustizia sportiva e affrontato la battaglia contro la ludopatia. Ma sono al centro dell’indagine della Procura di Milano che ha coinvolto anche Florenzi (Milan), Perin e McKennie (Juventus), Paredes (oggi Roma) e Di Maria (oggi Benfica), Ricci (oggi Torino), Bellanova (oggi Atalanta), Buonaiuto (oggi Padova), Cancellieri (oggi Parma), Firpo (oggi Leeds) e il tennista Matteo Gigante.Sono tutti accusati di avere giocato a poker online su piattaforme illegali organizzate dai gestori Tommaso De Giacomo e Patrick Frizzera, anche loro indagati come i soci della gioielleria milanese Elysium (Antonio Scinocca, Antonio Parise e Andrea Piccini), dove i calciatori pagavano i debiti di gioco simulando acquisti di orologi di lusso. Cosa rischiano? Sul piano penale giusto una multa, su quello sportivo una squalifica, come già capitato a Fagioli e Tonali.
- La guerra a Gaza Ieri altre 26 persone sono state uccise dai raid israeliani nella Striscia. Le agenzie dell’Onu denunciano che sono oltre 400 mila gli sfollati da quando Israele ha ripreso l’offensiva, il mese scorso. La situazione nell’enclave palestinese è tragica, le organizzazioni umanitarie avvertono che le condizioni sanitarie sono insostenibili a causa dell’insufficienza di farmaci e attrezzature mediche.Il Pam (Programma alimentare mondiale) riesce a garantire 900 mila pasti al giorno a base di riso e fagioli, hummus o lenticchie, senza i quali la popolazione morirebbe di fame. In Israele, 250 riservisti ed ex allievi dell’unità d’intelligence d’élite hanno chiesto al governo di dare priorità al rilascio degli ostaggi ancora in mano a Hamas (59, di cui la metà ritenuti vivi) anziché al proseguimento della guerra: il premier Benjamin Netanyahu li accusa di essere «radicali gestiti da organizzazioni finanziate dall’estero».L’Egitto preme per la ripresa dei negoziati, ma si temono attacchi di Hamas in occasione delle prossime festività ebraiche.
Questa guerra è arrivata ormai al 555° giorno.
- La guerra in Ucraina Gli Stati Uniti constatano di giorno in giorno quanto sia complicato indurre i russi ad accettare la tregua già accolta dagli ucraini. Ieri l’inviato americano Steve Witkoff ha incontrato per quattro ore Putin a San Pietroburgo, ma la svolta pare ancora lontana e Trump torna a ipotizzare nuove sanzioni contro Mosca, come fa periodicamente in un continuo gioco dell’oca in cui i combattimenti non cessano mai.Ad oggi, scrive Lorenzo Cremonesi, «gli unici concreti segnali di distensione sono stati gli scambi di prigionieri e dei resti dei soldati caduti. Intanto gli ucraini lasciano intendere di volere protrarre la legge marziale, promulgata nel febbraio 2022. La scadenza è il 9 maggio e ciò impedirà la convocazione delle elezioni, come vorrebbe Putin con la speranza di condizionare i risultati e liberarsi di Zelensky».
Questa guerra è arrivata ormai al 1.142° giorno.
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L’ex ad di Autostrade in carcere La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello che condanna a sei anni l’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia Giovanni Castellucci per la strage del 28 luglio 2013, quando un bus precipitò dal viadotto dell’Acqualonga nella zona di Monteforte Irpino, ad Avellino, causando la morte di 40 persone. I legali di Castellucci hanno annunciato che il manager è pronto a costituirsi. Soddisfazione dei familiari delle vittime, e anche di quelli delle vittime del crollo del Ponte Morandi a Genova: «La giustizia ha fatto emergere un sistema di manutenzione inefficace, viziato da carenze enormi, incompetenza, mediocrità il tutto al fine di diminuire le spese in sfregio alle vite umane».
- Garlasco, Stasi in semilibertà Alberto Stasi, condannato in via definitiva nel 2015 a 16 anni per il femminicidio di Chiara Poggi nel 2007 a Garlasco, potrà stare fuori dal carcere parte del giorno, non solo per lavorare ma anche per attività di reinserimento sociale, e dovrà tornare la sera a Bollate. Lo ha stabilito il Tribunale di Sorveglianza di Milano, nonostante il parere contrario della Procura generale (spiega tutto Cesare Giuzzi).
- Sei arresti tra gli ultrà dell’Inter Una guerra interna alla Curva Nord interista, liti per la gestione dei guadagni degli ultrà. È questo il movente dell’omicidio dell’ex capo ultras Vittorio Boiocchi, ucciso la sera del 29 ottobre 2022 a Milano. Ieri sono stati arrestati sei ultrà, ai quali è contestata anche l’aggravante mafiosa. A ordinare l’esecuzione di Boiocchi sarebbe stato il suo successore Andrea Beretta, oggi collaboratore di giustizia dopo essere stato arrestato nel settembre scorso per l’omicidio del boss della ‘ndrangheta Antonio Bellocco (qui i dettagli).
- Paura per Maignan Il portiere del Milan è stato vittima di uno scontro che gli ha procurato un forte trauma cranico nell’incontro di ieri sera a Udine. Il Milan ha vinto 4-0.
Da leggereL’intervista di Daniele Manca a Patrizio Bertelli, marito di Miuccia Prada, dopo la storica acquisizione di Versace: «Volevamo quel marchio per la sua storia, per quello che rappresenta, non volevamo un marchio solo per crescere. La moda è industria, non solo sfilate. Versace non è in salute splendida? Ci vuole pazienza, non pretendiamo risultati domani mattina. Ma resterà autonoma» (trovate l’intervista tra poco sul sito).L’intervista di Giovanna Cavalli alla sorella di Rino Gaetano, Anna: «Nostra mamma portinaia gli aveva trovato il posto in banca. Scrisse Gianna dedicandola a me, ma quel brano non lo amava».L’editoriale di Angelo Panebianc: «Essere europeisti per davvero».La rubrica di Paolo Lepri: «Il canadese Ivanov e l’app anti Trump».Il Caffè di GramelliniIn vino veritasDal vangelo secondo Lollo abbiamo appena appreso che Gesù moltiplicò il vino, ma è preferibile sospendere ogni giudizio, almeno fino a quando il ministro dell’Agricoltura con delega al buonumore non completerà la revisione del Nuovo Testamento rivelando che alle nozze di Cana l’acqua venne tramutata in pani (e la gasata in pesci).Vale invece la pena soffermarsi sulle dichiarazioni non meno miracolose rilasciate al Senato dal suo collega della Giustizia, Nordio. Se le carceri sono affollate, ha detto, «la colpa non è del governo, ma di chi commette reati e della magistratura che li mette in prigione». Il ragionamento non fa una grinza, anzi, si può agevolmente estendere ad altri settori. La sanità, per esempio: se gli ospedali sono affollati, la colpa è dei pazienti che si ammalano e dei medici che li operano.In effetti, se nessuno rubasse o uccidesse non ci sarebbe più alcun bisogno di costruire nuove carceri, e anche le vecchie, opportunamente ristrutturate, verrebbero riconvertite in airbnb. Poiché però la trasformazione degli esseri umani in cherubini potrebbe ancora richiedere qualche millennio, il modo più rapido per ridurre l’affollamento degli istituti di pena non consiste nell’aumentarli di numero, ma nello smettere di mandarvi i condannati. Senza contare che l’idea di moltiplicare le carceri è un indice infallibile di pessimismo. Meglio non pensarci, e moltiplicare il vino.Grazie per aver letto Prima Ora e buon weekend (qui il meteo).(gmercuri@rcs.it, langelini@rcs.it, etebano@rcs.it, atrocino@rcs.it) |
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venerdì 11 aprile 2025 |
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Il nuovo Rasputin, Trump il grande, Donald Gatsby, Pulse, Vettriano pop, il ritorno dei Cani |
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di Alessandro Trocino
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Buongiorno, oggi è venerdì, giorno di rassegna ricca di arte, cinema e letteratura, ma non si può fare a meno di citare D.J.T., il vero mattatore, nel bene e soprattutto nel male, dei nostri tempi. E allora cominciamo.
Rasputin 2.0 Ci siamo già occupati della «tecnodestra» che, con il secondo mandato di Donald Trump, sembra essere arrivata fin dentro le stanze della Casa Bianca. Oggi andiamo con Luca alla scoperta di uno dei suoi ideologi: l’informatico, filosofo e blogger Curtis Yarvin, profeta dell’Illuminismo oscuro.
Vecchio mio Rileggere «Il grande Gatsby», a 100 anni dalla pubblicazione, è sempre un’emozione. È come tornare a salutare un vecchio amico («vecchio mio», appunto). Ma tra le pagine non può non affiorare l’ombra del tycoon contemporaneo e di quello che sta succedendo a Washington. Proviamo a raccontare le analogie, se ci sono, ma soprattutto la bellezza di un grande romanzo americano.
Trump il grande Ieri, pubblicando la replica di Mauro della Porta Raffo all’intervento di Obama, Gianluca scriveva: «Dal Gran Pignolo ci si aspetta ora che parli di Donald, non di Barack. Riuscirà sicuramente a difendere l’indifendibile, ma da par suo». Detto fatto, ecco il contributo che ci ha mandato della Porta Raffo, che ragiona di Trump, paragonandolo a Ciro il Grande.
La serie medica post #Metoo Pulse è il primo medical drama di Netflix. Ha un enorme debito nei confronti di una serie che ha fatto la storia della tv, Grey’s Anatomy, ma – scrive Elena – mostra anche quanto si è evoluta in vent’anni la nostra consapevolezza sull’intreccio tra relazioni sentimentali e rapporti di potere.
Vettriano e gli haters I critici lo hanno sempre disprezzato, considerandolo tutt’al più un bravo illustratore. C’è una categoria che però lo ha amato alla follia: il pubblico. E così, alla morte di Jack Vettriano, Roberta Scorranese ci racconta l’artista le cui opere sono in mostra in questi giorni a Bologna.
La scomparsa dei lavoratori Donald Trump – è uno degli scopi dichiarati dai suoi dazi – vuole riportare le imprese manifatturiere negli Stati Uniti. Non è chiaro se ci riuscirà. Ma comunque vada – osserva Ferruccio de Bortoli – manca un ingrediente fondamentale: i lavoratori. In una situazione di quasi piena occupazione e con l’obiettivo dichiarato di bloccare gli arrivi dei migranti, è una contraddizione non da poco.
Torna Guadagnino Il suo ultimo film si chiama «Queer» e ha ricevuto un’accoglienza controversa. Ma Paolo Baldini nella sua recensione ci dà tre motivi per amarlo moltissimo (a partire da Daniel Craig).
La Playlist della settimana Quattro brani nuovi per la nostra compilation, come si diceva 30 anni fa. Su tutti, il nuovo album dei Cani, la band di se stesso di Niccolò Contessa, che adoriamo.
Se vi va, scriveteci.
Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it
Luca Angelini langelini@rcs.it
Elena Tebano etebano@rcs.it
Alessandro Trocino atrocino@rcs.it
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Rassegna americana |
Yarvin, l’«illuminista dark» che ispira Trump (a sua insaputa?) |
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Quando, qualche settimana fa, Viviana Mazza le ha chiesto quali fossero i teorici della nuova America trumpiana, la giornalista e saggista Anne Applebaum le ha risposto: «Ce ne sono molti. Vance è uno di loro. C’è questa sorta di movimento neo-reazionario, di cui fa parte Curtis Yarvin. E c’è Peter Thiel. Dietro tutto questo c’è un’intera scuola di pensatori reazionari e antidemocratici, che fanno podcast e sono influenti».
L’informatico, filosofo e blogger Curtis Yarvin
Di J.D. Vance ci siamo già occupati parecchio, in questa Rassegna (qui un ritratto, firmato dalla stessa Viviana Mazza). Dell’imprenditore e investitore miliardario Peter Thiel anche, parlando dell’avanzata della tecnodestra. Forse è il caso, però, di parlare un po’ anche di Curtis Yarvin, informatico-filosofo (e blogger, anche sotto lo pseudonimo Mencius Moldbug), classe 1973, che adora i giubbotti di pelle nera e le idee dello stesso colore. La rivista Le Grand Continent lo presenta così: «È questo che Curtis Yarvin ci chiede di fare. Credere in cose scioccanti e assurde, potenti e violente. Il video generato dall’IA che ha indignato il mondo intero – una Gaza trasformata in una sorta di Riviera del Medio Oriente – si ispira letteralmente al suo piano: Gaza Inc. Già prima della grande invasione del febbraio 2022, Yarvin aveva anticipato la linea brutale dell’amministrazione Trump nei confronti dell’Ucraina, scrivendo che gli Stati Uniti dovevano “dare carta bianca a Putin” sul continente, affinché “ogni vecchia nazione europea trovi una zampa d’orso misericordiosa per restaurare la propria cultura tradizionale e la propria forma di governo – tanto più autocratica, tanto meglio“. La svolta imperiale – o monarchica nel suo gergo – la fine dello Stato di diritto per mezzo di un colpo di Stato esecutivo orchestrato dal mondo tech: è ancora lui ad averla sognata».
Ora, sappiamo che sostenere che Donald Trump abbia un’ideologia e si interessi di filosofia è un filo azzardato. Ma lo stesso non vale per qualcuno della sua cerchia o per i blogger, influencer e podcaster di estrema destra che tanta capacità hanno di sussurrare all’orecchio di The Donald (valga per tutti il recente caso Laura Loomer, la complottista che ha fatto licenziare sei funzionari a suo dire «infedeli»). Perciò, leggere la lunga intervista che Le Grand Continent ha fatto a Yarvin e sta pubblicando a puntate è, insieme, illuminante e raggelante.
Che la «corrente filosofica» di Yarvin si chiami Dark Enlightenment, Illuminismo Oscuro, in pratica una contraddizione in termini, può sembrare, agli occhi di uno come Trump, più un pregio che un difetto. Ma ancor più pregiate devono essergli sembrate le idee di Yarvin sulla «presidenza esecutiva» (o «imperiale» e «muscolare», come l’hanno chiamata, sul Corriere, Sabino Cassese e Massimo Gaggi). Di sicuro, trovasse mai il tempo e la voglia di leggerle, apprezzerebbe queste parole che Yarvin consegna a Le Grand Continent: «L’altro giorno parlavo con una persona a Washington che ha, in teoria, un lavoro molto importante. Mi ha detto: “Ora tutto viene gestito dallo Studio Ovale. Ed è molto efficiente“. Non succedeva dai tempi di Franklin Delano Roosevelt (FDR). Ma Roosevelt aveva la nostra stessa identica Costituzione. Se si guarda alla storia degli Stati Uniti, si nota che ogni 75 o 80 anni circa il Paese ritorna a una monarchia di fatto in termini di funzionamento. George Washington: presidenza esecutiva. Abraham Lincoln: presidenza esecutiva. FDR: presidenza esecutiva. Ogni tanto ci sono personalità forti, ma nessuno può tenere testa a Washington. Nessuno può tenere testa a Lincoln. Nessuno riesce a tenere testa a Roosevelt, soprattutto durante la guerra. Se si guarda a questo sistema, in un certo senso il vero genio della Costituzione americana – e Franklin Roosevelt lo disse nel suo primo discorso inaugurale – è che si tratta di una Costituzione mista. Tutti gli elementi sono presenti. Ma l’equilibrio tra di essi non è fisso, può cambiare. In altre parole, la Costituzione dice solo che ci sono tre poteri, non dice quale sia il più forte».
Quanto al presente, ecco come lo vede Yarvin: «Una delle cose più incredibili del fenomeno Trump-Vance – è ancora troppo presto per chiamarlo rivoluzione – è che sta avvenendo senza alcuno scontro. Bisogna ricordarsi il 2017: enormi proteste, disordini durante la cerimonia inaugurale e una violenza inaudita nel 2020. Credo che a un certo punto Trump abbia dovuto essere portato nel bunker della Casa Bianca perché i manifestanti minacciavano di aggredirlo. Tutto questo accadeva mentre Trump, in realtà, non stava facendo quasi nulla per disturbare il regolare funzionamento del governo. Oggi sta smantellando e distruggendo tutto. E coloro che ieri erano in rivolta stanno a malapena squittendo. Ci sono alcuni gruppi di persone, spesso anziane, che sventolano cartelli, cercando di recuperare la sensazione che avevano nel 1968. Ma non funziona. Sono solo vecchi, che fanno cose da vecchi, e i bambini di oggi guardano inebetiti» (Yarvin, ovviamente, non fa nessun accenno alla grazia concessa agli assalitori del Campidoglio, né alla paura di protestare per timore di arresti di massa, di cui ha scritto Alessandro Trocino nella Rassegna di mercoledì).
Le idee di Yarvin sulla pandemia di Covid-19 come punto di svolta per il successivo affermarsi della presidenza «imperiale» («Serviva qualcuno che dicesse No ai virologi») sono piuttosto al di là della soglia del complottismo spinto. Ma c’è un punto, sulla differenza fra la vittoria di Trump del 2016 e quella del 2024, che vale la pena riportare. Quando gli intervistatori gli fanno notare che il Covid è stato anche il momento in cui l’infrastruttura digitale è diventata d’importanza esistenziale, Yarvin replica: «Non è che queste stesse persone non esistessero o non fossero importanti otto anni fa. La vera differenza è che otto anni fa Elon Musk era un centrista liberal. La cosa importante, riguardo ai guru tecnologici, è che non sono culturalmente conservatori. Prendiamo la vita privata di Elon Musk: non è cattolico, non è cristiano. È più simile a: “Farò dei bambini con i computer”. Questi tizi non sono affatto conservatori e questo permette loro – come a qualsiasi giovane élite emergente – di sentire crescere dentro di sé una nuova fiducia. È molto importante per un’élite sentire di avere il diritto di governare. In questo caso, non solo sente il diritto di governare, ma – come la sinistra in passato – il dovere di governare».
Non stupisce che, in un articolo dedicato al Dark Enlightenment uscito a fine marzo sul settimanale Time, Ed Simon, dopo aver spiegato che «laddove l’Illuminismo prometteva libertà, emancipazione, uguaglianza e solidarietà, l’“Illuminismo oscuro” offre servaggio, gerarchia, schiavitù e spietatezza» abbia scritto: «Non diversamente dai futuristi, Yarvin sostiene la necessità di sostituire la democrazia con una sorta di Stato tecno-feudale, in modo che il governo sia gestito come un’azienda, con il presidente come “amministratore delegato”. Questo nuovo sistema è elitario – “gli esseri umani si adatteranno a strutture di dominio-sottomissione”, ha scritto Yarvin nel 2008; ed è autoritario – “se gli americani vogliono cambiare il loro governo, dovranno superare la loro fobia per i dittatori”, ha dichiarato nel 2012».
Quanto alle connessioni di Yarvin con la tecnodestra, Simon sottolinea: «Ci sono sfumature della filosofia di Yarvin nel saggio di Thiel del 2009 per il Cato Institute, in cui scriveva: “Non credo più che libertà e democrazia siano compatibili”. E Thiel, attraverso la sua società di venture capital, Founders Fund, è stato uno dei primi investitori nella startup Urbit del blogger. Per quanto riguarda le opinioni controverse di Yarvin e il fatto che Thiel le condivida o meno, Yarvin ha detto che il suo mecenate è “pienamente illuminato”, in quanto lui stesso gli ha “fatto da coach”. Inoltre, in una recente intervista alla Hoover Institution, Marc Andreessen (forse il più importante venture capitalist al mondo, ma autore anche di un Techno-Optimist Manifesto, ndr) ha citato Yarvin e lo ha definito “un amico” (lo stesso fa Yarvin nell’intervista a Le Grand Continent, aggiungendo che è anche finanziatore di un suo progetto, ndr). L’aspetto ancora più allarmante è che l’influenza smisurata di Yarvin sui dirigenti del settore tecnologico è arrivata fino a Washington. I segni sono ovunque: Yarvin è stato ospite del cosiddetto “Ballo dell’incoronazione” di Trump nel gennaio 2025. Il vicepresidente J.D. Vance, un protetto di Thiel, ha parlato con ammirazione dell’influenza del blogger sul suo pensiero quando è stato intervistato in un podcast nel luglio del 2024. Sebbene il ruolo di Andreessen nella Casa Bianca di Trump non sia ufficiale, il Washington Post ha riferito a gennaio che “ha reclutato in silenzio e con successo candidati per le posizioni nella Washington di Trump”. Elon Musk, pur senza essersi levato espressamente il cappello davanti a Yarvin, sembra avere una filosofia simile: nel 2020, ha dichiarato al Wall Street Journal che “il governo è semplicemente l’azienda più grande di tutte”. Cinque anni dopo, Musk ha sfruttato la sua posizione di consulente non ufficiale della seconda amministrazione Trump e del Dipartimento per l’efficienza del governo (Doge) per rendere operativo quello che Yarvin ha definito “un duro riavvio” (hard reboot) del governo».
Robert Evans, studioso dell’estrema destra che ha ospitato Yarvin in due puntate del suo podcast Behind the Bastards, ha detto al Guardian: «Ciò che è davvero unico è il suo modo di riorganizzare o riconfezionare le vecchie idee reazionarie in modo da attirare i ragazzi libertari dell’industria tecnologica, e alla fine far sì che alcuni di loro abbraccino molte idee di estrema destra. Questa è la novità di Yarvin e questo è il suo vero successo». In proposito, ricorda anche che, intervistato nel 2021 dall’influencer di estrema destra Jack Murphy, J.D. Vance ha detto: «C’è questo tizio, Curtis Yarvin, che ha scritto di alcune di queste cose. Bisogna fondamentalmente accettare il fatto che tutto quanto sta per crollare su se stesso. Il compito dei conservatori in questo momento è quello di preservare il più possibile e poi, quando arriverà l’inevitabile crollo, ricostruire il Paese in un modo che sia effettivamente migliore».
Simon ricorda che l’Illuminismo Oscuro è di solito associato principalmente al filosofo britannico Nick Land, autore di un saggio con quel titolo. Land è stato uno dei fondatori dell’Unità di Ricerca sulla Cultura Cibernetica dell’Università britannica di Warwick fino al 1995, quando il suo comportamento sempre più irregolare lo ha fatto espellere. «Land è attivamente antidemocratico e desidera un sistema in cui grandi uomini (guidati da algoritmi e intelligenza artificiale) guidino la nave dello Stato. Si tratta di una visione esplicitamente nichilista, un’ideologia che combina l’utopismo tecnologico con una profonda misantropia, una variante di quello che lo storico Jeffrey Herf ha definito “modernismo reazionario”, ma che potremmo anche chiamare autoritarismo cibernetico o fascismo tecnologico». Sul Financial Times, Jonathan Derbyshire ha aggiunto: «Land, come Yarvin, ritiene che lo Stato ideale dovrebbe funzionare come un’azienda. Secondo questa teoria, che Yarvin chiama “neocameralismo”, uno Stato correttamente costituito è quello che è stato depurato dalla democrazia. Il suo principio guida è “nessuna voce, libera uscita”: i residenti o i clienti (non i cittadini) di tale Stato non hanno diritti, ma la facoltà di portare le loro usanze altrove». (Peraltro, Land, dopo essersi trasferito in Cina, ha firmato anche dei peana al capitalismo di Stato con caratteristiche cinesi, «perfetta unione di innovazione radicale e profondo conservatorismo»; ma questo probabilmente a The Donald nessuno l’ha detto)
La tentazione di liquidare una «filosofia» del genere come vaneggiamento estremista (Land si autodefinisce «ingegnere delirante») è comprensibile. Simon pensa, però, che sia una tentazione pericolosa: «Come spesso accade con Trump, gli opinionisti hanno la tendenza a supporre una mancanza di serietà o di intenzione in ciò che il Presidente dice. Lo stesso atteggiamento sprezzante ha talvolta accompagnato i futuristi e anche i fascisti di Mussolini, quando erano in ascesa».
Esagera un po’, con i paragoni storici? È possibile. E senz’altro augurabile. Ma confrontare alcuni precetti dell’Illuminismo Dark con la realtà che sta prendendo forma nell’America trumpiana è, di nuovo, illuminante e inquietante insieme. Ecco la sintesi di Simon: «Yarvin, nel 2021, ha scritto (con molta meno poesia dei futuristi): “Poiché l’università è il cuore del vecchio regime, è assolutamente essenziale per il successo di qualsiasi cambiamento di regime che tutte le università accreditate siano liquidate sia fisicamente che economicamente”. Yarvin parla in modo dispregiativo di quella che chiama “la Cattedrale”, un insieme di organizzazioni educative, mediatiche e non profit che, a suo avviso, definisce il tenore del discorso pubblico, ma che impedisce anche la libertà dei dirigenti di fare ciò che vogliono. La sua aspirazione è piuttosto, come ha scritto nel 2007, che “lo Stato sia semplicemente un’impresa immobiliare su scala molto ampia”. Utilizzando una varietà di metafore, Yarvin sostiene la necessità di una “rivoluzione a farfalla”, un “inizio di pieni poteri” per il governo degli Stati Uniti realizzato “dando la sovranità assoluta a una singola organizzazione”. Questo viene immaginato come un colpo di Stato interno volto a privatizzare il governo e a sostituire la democrazia con una completa autorità esecutiva. Due anni fa, Yarvin ha esposto il suo programma strategico con l’acronimo “RAGE”, ovvero “Retire all government employees”. Yarvin sosteneva che un’ipotetica futura amministrazione Trump avrebbe dovuto licenziare tutti i lavoratori federali non politici per farli sostituire da lealisti. Secondo il blogger, le casse del governo dovrebbero essere confiscate e reindirizzate. Quando i tribunali impediscono ordini incostituzionali, Yarvin dice che dovrebbero essere semplicemente ignorati. Dopo di che, anche la stampa libera e le università dovranno essere limitate». Non troppo diverso da quello che ha detto nell’agosto scorso il solito Vance: «Non c’è modo per un conservatore di realizzare la nostra visione della società se non siamo disposti a colpire il cuore della bestia. Quel cuore sono le università».
Yarvin e Land stanno già barrando le caselle delle cose fatte (o almeno tentate) da Donald II. Forse conviene anche a noi tenere il conto.
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Rassegna letteraria |
La tentazione di rileggere il Grande Gatsby pensando a Trump |
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«Così ci avviammo verso la morte nel crepuscolo rinfrescante».
La tentazione di rileggere in chiave attuale i capolavori del passato è un classico al quale bisognerebbe resistere. Anche stavolta si cercava di evitare, ma poi abbiamo riletto «Il Grande Gatsby», nella traduzione di Fernanda Pivano, e niente, precipitiamo nel gorgo della tentazione, ma solo parzialmente, perché è vero che siamo di fronte al grande romanzo americano, è vero che leggendolo si pensa spesso a Donald Trump, ora nei panni di Jay Gatsby e ora in quelli di Tom Buchanan, ma poi le chiavi di (ri)lettura sono talmente tante che conviene affrontarle con cautela, perché la forza di questo capolavoro è proprio l’ambiguità, la sfuggevolezza. E c’è, certo, il grande sogno americano, c’è la generazione perduta, ci sono gli anni ruggenti, il jazz, il proibizionismo, la grande festa poco prima del crollo di Wall Street. Ma c’è anche la luce verde in fondo al molo di Daisy, «il futuro orgasmico che anno per anno indietreggia davanti a noi». E una lingua incredibile, che qualcuno ha definito art déco, ellittica e opulenta, straordinaria anche se ai limiti del kitsch, piena di sinestesie, simbolismi, impressionismi.
Si riparla di Gatsby anche perché è uscito 100 anni fa tondi, il 10 aprile 1925. Rileggerlo è un tuffo al cuore. Viene da dire che ha uno dei finali più belli della storia della letteratura (l’abbiamo pensato e poi l’abbiamo letto nell’ultimo pezzo di Gabriele Romagnoli). Eccola l’ultima frase:
«Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno arretra davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».

Quando cominciò a pensare di scriverlo, Francis Scott Fitzgerald disse all’editore Maxwell Perkins: «Voglio scrivere qualcosa di nuovo. Qualcosa di straordinario, bello, semplice e dalla trama intricata». Inutile dire che ci è riuscito, forse anche perché l’autore fu convinto a cambiare i pessimi titoli che aveva proposto: «Il trimalcione di West Egg», «Tra ceneri e milionari», «Rosso, bianco e blu». All’inizio il libro fu un flop e solo 20 anni dopo riemerse dall’oblio anche grazie al fatto che fu distribuito in 150 mila copie (quelle invendute) ai soldati americani. Già l’idea che venissero regalati dei libri ai militari in guerra, e che libri, fa quasi commuovere. Comunque nel ’45 Fitzgerald era già morto da 5 anni, stroncato da un attacco di cuore e dalla sensazione opprimente, e infondata, del fallimento.
Sarah Churchwell ha scritto che il suo è «un mondo che confonde l’impresa materiale con il successo morale». Gatsby è un uomo misterioso e innamorato che è stato molto povero ma si è arricchito e ora lotta per essere accettato, convinto che i soldi possano aiutarlo a riscrivere il passato. Qualcosa che ha a che fare con l’immensa ricchezza che comincia ad aleggiare sugli Stati Uniti, ma anche con la diseguaglianza («i ragazzi poveri non dovrebbero neanche immaginare di sposare le ragazze ricche»), i privilegi sociali e il lato oscuro del sogno americano.

Fitzgerald finì di scrivere il romanzo a Roma, all’ombra del regime nascente di Benito Mussolini. In quei giorni stava leggendo «Il tramonto dell’Occidente», di Oswald Spengler. Secondo Churchwell, assimilò «la visione di un mondo in cui leader assetati di potere emergevano da culture divenute ciniche e stanche – idee di cui i nazisti si appropriarono in seguito. Fitzgerald ricordò di aver reagito al senso di senescenza della civiltà espresso da Spengler – quello che lui stesso descrisse come “governo di bande… il mondo come bottino”. Fitzgerald assorbì da queste fonti un senso pervasivo di declino culturale, in cui la speranza appare al tempo stesso essenziale e destinata a fallire».
Gatsby è un contrabbandiere, probabilmente d’alcol, un arrampicatore sociale. La sovrapposizione con Trump è naturalmente suggestiva ma inesatta e forse si può dire che il tycoon si rispecchi in parte nella figura di questo arrampicatore sociale, ma anche in quella di Tom Buchanan, il marito di Daisy, la donna amata da Jay: un personaggio senza scrupoli, egoista, un suprematista bianco, donnaiolo, incarnazione dei privilegi e dello snobismo dell’aristocrazia americana. Il narratore, Nick, le chiama – con una definizione fulminante – «persone negligenti». Uomini “incuranti”, “marci”, che distruggono tutto al loro passaggio, con la disinvolta sicurezza della forza bruta e l’automatismo della sopraffazione. Scrive Nick:
«Erano gente sbadata, Tom e Daisy: sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia sbadataggine e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto».
Sia Financial Times sia The Conversation scrivono che «Gatsby predisse l’America di Trump». Salto in avanti carpiato, che però ha qualche fondamento. Sarah Churchwell, su New Statesment, scrive, fissando il ragionamento al 1920: «Il punto è il passaggio dallo spiritualismo al mercantilismo: l’America ha perso la fede nel suo ideale spirituale e ha costruito un nuovo mondo che è materiale, senza essere reale, poiché ha perso la sua capacità di idealismo e meraviglia. Se il grande peccato del romanzo è la negligenza, l’elegia di Fitzgerald per Gatsby diventa il suo requiem per i sogni utopici della nazione che vi ha ceduto».
Ma leggerlo solo per cercare di capire l’attualità sarebbe un peccato mortale e dunque, meglio lasciarsi trascinare dal flusso delle parole, da quella tecnica di scrittura che allarga la percezione. «Alberi incoraggianti», «corpi crudeli», «rosicchiare i lembi di idee rancide», «il cuore prepotente», «la moglie era stridula, languida, bella, terribile», «scherno emozionante», «la gialla musica da cocktail», «il diamante arrabbiato». E l’allusivo, ambiguo, straordinario «Old sport», che Fernanda Pivano tradusse con «vecchio mio» e Claudia Durastanti, ora, con «socio» (aveva la tentazione, scrive su Tutto Libri, di usare «compadre», ma fortunatamente ha rinunciato).
Churchwell la definisce così: «La prosa di Fitzgerald è una sorta di esperimento di stravaganza contenuta, quasi paradossale nella sua capacità di essere allo stesso tempo eccessiva e riservata, romantica e giudicante. Il suo effetto dipende dal contrasto tra il jazz moderno dell’ambientazione e il romanticismo formale dello stile di Fitzgerald: tutta la sua energia deriva dall’alta tensione tra i due. È proprio questa resistenza che conferisce a Fitzgerald la tensione del romanzo, la sua satira elegiaca finemente calibrata».
La prima edizione italiana risale al 1936 con il titolo «Gatsby il magnifico». Una delle ultime traduttrici, Franca Cavagnoli, scrive: «Il grande Gatsby è un luogo contraddistinto dalla non permanenza: priva di ormeggi, la scrittura non può ancorarsi alla descrizione di una successione di eventi ben delineata. L’ellissi di Fitzgerald nasce da qui, dalla precarietà, ma da qui nasce anche la vaghezza che impregna il romanzo e seduce i lettori». A proposito di traduzione, Maremosso aveva fatto un gioco interessante, mettendo a confronto cinque versioni della frase finale, che in inglese recita «So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past». Ne riportiamo tre: «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato». (Fernanda Pivano); «Così seguitiamo a bordeggiare come barche controcorrente, sospinte di continuo nel passato”. (Tommaso Pincio); «Così navighiamo di bolina, barche contro la corrente, riportati senza posa nel passato”. (Franca Cavagnoli).
Parte del fascino e della fortuna del romanzo sono nell’ambivalenza dei protagonisti, a parte Tom. A cominciare da Gatsby, che ci affascina e ci fa stare al suo fianco nella ricerca impossibile di un amore romantico, ostinato e malinconico, nella sua solitudine piena di mistero, e che però ci ripugna anche, per quel modo superficiale, barbaro e «negligente» di vivere. Nick, in fondo, disprezza Gatsby, lo trova vuoto, fastidioso. Dice: «L’ho disapprovato dal principio alla fine». Eppure, quando muore e tutti lo abbandonano, urla:
«Sono un branco di porci. Tu, da solo, vali più di tutti quanti messi insieme».
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Rassegna politica |
Trump come Ciro il grande |
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L’inquilino della Executive Mansion è eletto dagli americani! (Non direttamente dal popolo, a partire dal 1848 convocato alle urne il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno bisestile, ma, essendo quella del Presidente una elezione di secondo grado, dagli Elettori – con l’iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni proprio perché loro specifico compito è nominarlo – in quella circostanza scelti Stato per Stato in proporzione al numero degli abitanti, il primo martedì dopo il secondo mercoledì del successivo mese di dicembre).
L’iniziale affermazione, lungi dall’essere pleonastica o addirittura ridicola, è necessaria in un mondo nel quale, giusta l’importanza planetaria della nomina, tutti per il dovunque vorrebbero avere voce determinante in capitolo dovendo invece, obtorto collo, in verità ignoranti storicamente parlando delle vicende dell’Unione e per conseguenza assolutamente a favore dei democratici, in qualche modo sottomettersi al volere del montanelliano lattaio dell’Ohio o della dal sottoscritto decisamente a tal riguardo considerata casalinga, probabilmente basca, di Boise, Idaho.
Ohio e Idaho, guarda caso, da ricomprendere nel novero dei «Flyover States», usualmente appunto sorvolati quasi non esistessero da quanti atterrati a New York, dopo, si spostano direttamente a Los Angeles o San Francisco, desiderosi e certi di conferme, parlando colà e laggiù con i soliti noti intellettuali e artisti di fede democratica, e restano basiti, più che sorpresi eccome, quando le loro convinte previsioni elettorali vengono smentite dalla invariabilmente trascurata onda rossa.
(Per inciso, il rosso è il colore del partito di Abraham Lincoln mentre il blu è quello del movimento politico di Kamala Harris).
Cosa che accade con bella regolarità ove si badi ai fatti e non alla narrazione costantemente falsa, visto che – a partire dal 1856, la prima volta nella quale democratici e repubblicani si sono confrontati direttamente per White House – contando l’amministrazione in corso, ben ventiquattro anni in più hanno governato e governano il Paese gli appartenenti al Grand Old Party oggi sul massimo scranno rappresentato da Donald Trump.
Per un secondo mandato, a distanza di quattro anni dalla precedente defenestrazione come in passato era riuscito una sola volta al democratico Grover Cleveland, vittorioso nel 1884, battuto nel 1888, nuovamente in sella dopo aver ribaltato l’esito nelle urne nel 1892. Per un nuovo quadriennio, essendo Donald Trump sopravvissuto – oltre che al martellamento dei media ostili con rarissime eccezioni – ad una serie di avversità politiche (compresi, caso unico, due Impeachment) e giudiziarie che avrebbero stroncato chiunque non avesse il suo particolarissimo feeling con il popolo repubblicano più vero, con la gran parte degli umili che incredibilmente in un miliardario si riconoscono, con quanti una elitaria democratica quale è Hillary Rhodam Clinton ha deplorevolmente definito «deplorables».
«Maverick» (così era indicato il capo di bestiame non marchiato del quale pertanto non si conosceva il padrone e in cotal modo è gergalmente chiamato il politico la cui appartenenza è poco se non per nulla certificata) quant’altri mai, soggetto estraneo alla politica, il tycoon non è assolutamente compreso dai più (sicuramente dagli elettori, comunque) ed essendo inoltre approdato (altri lidi avendo in precedenza frequentato, quelli democratici compresi) al vituperato Grand Old Party incarna il lupo cattivo.
Infine, per quanto eletto e rieletto, l’usurpatore.
Necessita a questo punto, avanti di trattare più compiutamente il soggetto, sottolineare l’importantissimo aspetto in qualche modo religioso che lo riguarda e che nella miracolosa sua sopravvivenza all’attentato di Butler ha trovato per larga parte della destra formata dai credenti piena conferma.

Ricorderete Ciro secondo di Persia. Allorquando assai abilmente senza guerreggiare si impossessò di Babilonia, concesse agli ebrei in cattività di tornare nelle loro terre e addirittura di ricostruire il Tempio. Fu per tale ragione definito «vascello imperfetto». Imperfetto in quanto personalmente peccatore. Vascello, però, per mezzo del quale la volontà del Signore veniva realizzata. È – lo so, incredibilmente per i più ma veramente – per i predetti appartenenti alla destra religiosa Trump il «secondo vascello imperfetto». Peccatore altroché, ma, per esempio, capace nel corso del primo mandato di eleggere addirittura tre giudici della Corte Suprema che garantiscono decenni (sono giovani e nel ruolo, salvo dimissioni, si resta a vita) di sentenze contrastanti l’insopportabile politicamente corretto, le aperture nei confronti delle pratiche abortive, il deterioramento dei valori etici d’opera democratica.
Detto ad abundantiam che non pochi vedono nel suo avvento perfino la conferma della straordinaria intuizione di Otto von Bismarck che reca «Es gibt eine göttliche Vorsehung, welche die Dummen, die Kinder, die Betrunkenen und die Vereinigten Staaten beschützt» («esiste una particolare Provvidenza divina a favore dei dementi, dei bambini e degli Stati Uniti d’America»), mi soffermo su una considerazione afferente la democraticità (orrore!) del soggetto. Orbene, cercare di dare seguito alle promesse elettorali (non si fa mai e per questo è ritenuto inaccettabile), al programma proposto sulla base del quale si è stati votati non è forse veramente democratico?
Lo sarebbe invece, come a gran voce chiedono, pretendono i sinistri, tradire il promesso operando in modo difforme?
E veniamo ad esaminare dapprima il comportamento del nostro nel corso della campagna elettorale, la recente non dimenticando quella del 2016. «Potrei sparare a una persona per strada e non perderei un voto», disse all’epoca orripilando i benpensanti. Allora e lo scorso anno, nei comizi e nei dibattiti Donald Trump ha preso in giro e insultato gli avversari usando espressioni decisamente volgari (quanto l’ultima appena vocata a proposito dei Paesi che gli chiedono oggi di trattare).
Le anime belle, però, non considerano che nelle circostanze predette, la sola finalità è quella di conquistare i voti e che essendo tutti i suffragi uguali (quelli dell’intellettuale come del bracciante agricolo), necessita utilizzare per la bisogna il linguaggio più adatto e che larga parte dell’elettorato che l’ha scelto se l’avesse sentito esprimersi forbitamente non l’avrebbe affatto seguito. Come accennato, dal trascorso 20 gennaio, praticamente da quando insediato (e in qualche modo, in precedenza), Trump ha terremotato la politica nazionale ed internazionale cercando di dare seguito alle promesse fatte, qui, ancora maggiormente, scontrandosi con quanti si aspettavano, chissà perché, che cambiasse pelle.
I dazi a cascata a chiunque imposti rappresentano concretamente la sua personalità, la formazione di operatore economico entrato in politica (a sorpresa? esiste una intervista datata 1988 nella quale ne parla) per rovesciare il tavolo e buttare a terra carte e fiche. Spara cento dalla posizione di forza conquistata ed aspetta la controproposta per trattare comunque a vantaggio del proprio Paese.
Pochi i contraltari politici che comprendono. Molti quelli che si irrigidiscono. Infiniti i giornalisti che, non avendo mai capito che avrebbe vinto (molto sagaci, indubbiamente), schierati, lo avversano inventando sue ritirate e quant’altro. Non sanno, si confondono, che è impossibile batterlo con un voto di fiducia.
Tutto ciò detto, ovviamente non è possibile dire quali risultati concreti otterrà. È certo comunque che guardare oggi alle borse che scendono e salgono non ha significato alcuno. Occorreranno mesi (in specie per il contrasto con la Cina probabilmente una delle massime, sottese ragioni del fare) per le verifiche.
Con buona pace delle anime belle.
Nel testo, ho fatto cenno a falsità storiche sulle quali si basano convinzioni sinistre neppure scalfibili.
Due soprattutto. Per cominciare, come mai se i repubblicani USA sono per definizione guerrafondai, sempre pronti a tirare fuori la colt, praticamente in occasione di ogni entrata in guerra degli Stati Uniti nel Novecento il Presidente era democratico?
Woodrow Wilson, prima mondiale, Franklin Delano Roosevelt, seconda, Harry Truman, Corea, John Kennedy e Lyndon Johnson, Vietnam, Bill Clinton, ex Jugoslavia?
Poi, come mai per quanto i democratici vengano ritenuti decisivi nell’operare a favore delle minoranze, in particolare dei neri, tutte le principali determinazioni in merito sono dovute a repubblicani? Abraham Lincoln, ricordate?
Venendo maggiormente a noi, il Presidente della Corte Suprema che ha emesso le sentenze avverse al segregazionismo degli Stati del Sud negli anni Cinquanta governati da democratici, Earl Warren.
Il Presidente che ha fatto in modo che quei deliberati fossero applicati, Dwight Eisenhower. Il Presidente che ha nominato il primo nero (Colin Powell) Segretario di Stato, George Walker Bush, che ha subito dopo voluto una donna nera (Condoleezza Rice) nel medesimo ruolo?
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Rassegna delle serie tv |
Pulse, Grey’s Anatomy dopo il #Metoo |
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La scorsa settimana è uscito Pulse, il «primo medical drama americano di Netflix», incentrato su un gruppo di medici di un ospedale fittizio di Miami, il Maguire. Nella seconda puntata della serie, la protagonista Danny ordina a una tirocinante di cercare un posto dove far dormire i dottori, bloccati in ospedale a causa di un uragano. La tirocinante le chiede se non possono dormire «nelle stanze dei medici di guardia, quella con i letti a castello».
«Hai guardato un sacco di Grey’s Anatomy da piccola? Cerca di disimpararlo» ribatte Danny sferzante. È insieme una strizzata d’occhio ai fan di Grey’s (la stanza dei medici di guardia è insieme all’ascensore il luogo dove si consumano i drammi sessual-sentimentali di Grey’s Anatomy ) e un’excusatio non petita, che ammette il debito di Pulse nei confronti della serie di Shonda Rhymes ma insieme proclama la propria differenza.
Il debito è innegabile, ma le differenze sono decisive, e forse ancora più interessanti. La prima riguarda la qualità della scrittura (e su questo torneremo). La seconda è dovuta al fatto che Pulse, arrivato sugli schermi vent’anni dopo l’esordio di Grey’s Anatomy, è stato scritto dopo il movimento #Metoo. E filtra lo schema di base della serie di Rhymes con ciò che abbiamo collettivamente imparato sull’intreccio tra sesso, amore e potere. (Seguono spoiler)
In Grey’s Anatomy la protagonista Meredith Grey (Ellen Pompeo) arrivava nell’ospedale a Seattle dove doveva iniziare la specializzazione in chirurgia e scopriva che l’uomo con cui aveva avuto un rapporto di una notte la sera prima, Derek Shepherd (Patrick Dempsey), era il medico a capo della neurochirurgia. Seguivano montagne russe puramente sentimentali. In Pulse Danielle «Danny» Simms (Willa Fitzgerald) è una specializzanda in medicina d’urgenza che viene temporaneamente promossa subito dopo aver denunciato per molestie sessuali il suo ex mentore e compagno, il dottor Xander Phillips (Colin Woodell). Lo sguardo sulle relazioni tra i medici – che sono le vere protagoniste di entrambe le serie – è molto più ambiguo e teso. Così come è più teso il ritmo della serie, che si apre sul pronto soccorso mentre deve affrontare le conseguenze di un uragano, un momento di massimo dramma (in Grey’s Anatomy c’è sempre un simile climax, ma di solito arriva nelle ultime due puntate di ogni stagione).
Oggi, sembra dirci Pulse, non è più possibile guardare alle relazioni tra superiori e sottoposti (più spesso le sottoposte) sul mondo del lavoro con la stessa innocenza di vent’anni fa. Non possiamo più pensare che i sentimenti siano indipendenti dai rapporti di potere. Sappiamo che quei rapporti sono anche inevitabilmente un rischio, soprattutto per chi di potere ne ha meno (di solito le donne).

Uno dei meriti della serie è non rinunciare all’ambiguità: mostrare che rischi e opportunità, sentimenti e potere sono intrecciati indissolubilmente. Se c’è stato un errore nel #Metoo è stato infatti pensare che quell’ambiguità potesse essere risolta una volta per tutte, come se non fosse connaturata ai rapporti umani. «Molte volte, quando viene rappresentato un rapporto di potere, è sempre molto bianco o nero. C’è sempre un “cattivo” e un “buono’, e c’è sempre una sorta di giudizio da dare. Penso che quando le persone hanno relazioni di questo tipo, ci sono molti sentimenti complicati. È un motivo per cui molte persone come Danny non rendono pubblica questo tipo di relazione, perché c’è la sensazione di dubitare di se stessa, così come lei sente che gli altri dubiteranno di lei» ha detto a Tv Guide Zoe Robyn, co-autrice della serie insieme a Carlton Cuse. «L’ambientazione del Pronto Soccorso, l’uragano, l’inaspettata promozione: tutto questo è una manifestazione esteriore della pressione che lei sente stratificata su di lei, e crea anche una pentola a pressione per tutti gli altri personaggi e tutte le altre relazioni che stiamo costruendo».
Il limite di Pulse è che non sempre la scrittura riesce a reggere questa ambiguità. Ma rimane una serie medica godibile, con personaggi che meritano almeno un’altra stagione. Non altrettanto si può dire purtroppo di Grey’s Anatomy, che pur avendo avuto alcune delle sceneggiature più innovative della tv generalista americana (e avendo rivoluzionato il modo di raccontare le donne in tv), al ventesimo anno e alla ventunesima stagione ha ormai perso la capacità di creare storie davvero interessanti.
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Capolavoro! |
Derivativo, autodidatta, fumettistico: ecco Jack Vettriano, amato da nessuno tranne che dal pubblico |
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«Nessuno lo ama tranne il pubblico». Il New York Times ha trovato le parole più adatte per definire la carriera di Jack Vettriano, uno degli artisti più snobbati dalla critica e, al tempo stesso, più citati, amati, riprodotti al mondo. Tanto è vero che Vettriano, nato in Scozia nel 1951, è morto lo scorso 1° marzo quattro giorni dopo l’inaugurazione della prima retrospettiva italiana, in corso a Palazzo Pallavicini, Bologna. Era abituato ai dinieghi e alle reticenze: critiche feroci sulla stampa specializzata, frecciate più o meno velate da parte dei colleghi, un certo imbarazzo nei divulgatori d’arte nel descrivere alcuni dei suoi dipinti più famosi, quelli che certamente avrete visto almeno una volta.

Come The singing butler, una fantasia onirica in cui un uomo e una donna improvvisano un passo di danza sotto la pioggia, con la servitù che ripara la coppia dagli ombrelli. Le atmosfere vagamente vintage sono un tratto distintivo di Vettriano: donne in reggicalze, uomini che fumano e bevono, approcci sessuali espliciti, pettinature che ricordano i noir americani degli anni Quaranta. Ecco, queste ambientazioni da fumetto sono uno dei tratti distintivi che la critica non gli ha mai perdonato.
Perché? Lo ha detto benissimo lui stesso in una intervista alla radio scozzese: «Preferirebbero – dichiarò Vettriano – che mi occupassi del degrado delle periferie e delle disuguaglianze». No, Vettriano non è mai stato un artista impegnato, come la maggior parte dei suoi coetanei: pensiamo solo al gigantesco lavoro sulla memoria che fa il tedesco Anselm Kiefer, di pochi anni più grande di Jack. Il quale, a proposito, all’anagrafe era Jack Hoggan ma quando prese a dipingere sul serio rielaborò il cognome della madre, originaria di Cassino, in Ciociaria. Nato in una famiglia scozzese di estrattori di carbone, Vettriano cominciò a lavorare nelle miniere a soli undici anni. A venti ricevette in regalo una scatola di colori e intraprese così la sua carriera di artista. Rigorosamente autodidatta: seconda colpa, almeno agli occhi di certa critica. «Sono entrato nell’arte dalla porta di servizio – dichiarò una volta – e per questo non sono riusciti a plasmarmi».
Però le critiche lo ferivano, eccome. E così la sua carriera è stata un lento sedimentare (e, diciamolo, un ripetersi) dei suoi soggetti preferiti: le donne eleganti, gli uomini virili, le spiagge idealizzate, i corteggiamenti espliciti. Ammetteva senza remore la sua inclinazione a copiare i grandi. «Degas, Caravaggio, Monet: mettili in un calderone e otterrai la mia pittura», diceva. Terza colpa, per la critica: Vettriano è derivativo, non ha la capacità di mettersi in gioco e di sperimentare, propria di altro grande figurativo contemporaneo David Hockney.

È vero, però oggi la maggior parte della gente riconosce Vettriano, mentre di fronte a un dipinto di Hockney fa più fatica. La rete è piena di gadget, carte da parati, manifesti e copie che riproducono The singing butler e forse è questo il nodo: Vettriano assomiglia più a un geniale illustratore, uno che coglie le atmosfere e le restituisce fresche, intatte, pronte per essere riprodotte da una cultura che oggi consuma l’arte, più che contemplarla e assimilarla. Kiefer ci richiede uno sforzo intellettuale quando ci propone le sue interpretazioni del mito e della storia, Vettriano no. E così, quando The Singing Butler, che venne rifiutato nel 1992 alla mostra della Royal Academy, fu battuto all’asta per la cifra record di 750.000 sterline, tutti gridarono allo scandalo. Tranne lui.

Lui non ci vedeva nulla di male nell’aver copiato il soggetto da un manuale per illustratori, l’importante, diceva, è che piaccia alla gente. Non solo alla gente comune, per la verità: Jack Nicholson e Tim Rice sono solo alcune delle star che in casa hanno le sue opere appese al muro. E così Jack Vettriano è morto a 76 anni, ricchissimo, famoso e riprodotto dappertutto, dai tappetini per mouse alle magliette alle tazze. Ogni giudizio, ora, sarebbe non solo ingeneroso, ma anche poco intelligente. «Io ho quello che voglio, ripeteva». E in un tempo come il nostro, in cui chiediamo che ogni cosa sia fatta su misura, compresi i sentimenti e i desideri, diciamo che in fondo aveva ragione lui.
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Frammenti |
Non c’è dazio che tenga se non c’è chi lavora |
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È il grande paradosso di questi giorni così convulsi e drammatici. Una sorprendente rivincita. I dazi avrebbero lo scopo dichiarato (usare sempre il condizionale) di creare lavoro nel proprio Paese sottraendo reddito e occupazione agli altri. Peccato che manchino i lavoratori. Gli Stati Uniti hanno un tasso di disoccupazione intorno al 4 per cento, cioè sono vicini alla piena occupazione. Si propongono di attirare investimenti per aumentare le opportunità d’impiego locale. Ma, a sentire molti degli industriali italiani che hanno già impianti produttivi nel Nord America, la difficoltà di trovare manodopera è a volte insuperabile. Ci sono i capitali, ci sono i macchinari, non c’è chi li faccia andare avanti. Quasi un’affermazione postuma del luddismo, senza il bisogno di distruggere alcunché. E, per giunta, in piena era dell’intelligenza artificiale che farebbe strame di molti mestieri e professioni.
Alcune grandi multinazionali americane, dalla Nike alla Apple, saranno costrette a rimpatriare parti della lavorazione dei propri prodotti. Quello che non riusciranno a rimpatriare saranno i lavoratori. Né potranno offrire le loro attuali paghe a eventuali candidati in patria, per la semplice ragione che sono, in Occidente, da fame. In Vietnam o in Bangladesh ovviamente no. Sulla rete circola un divertente e amaro meme che ritrae l’americano medio, di robusta costituzione – e c’è anche Trump – intento ad assemblare un iPhone o a mettere le stringhe alle sneakers. L’alternativa ci sarebbe: quella di aprire all’immigrazione, ma l’obiettivo dell’amministrazione è di bloccare gli arrivi, non di incentivarli. Le espulsioni (meglio usare questo termine anziché deportazioni) sono celebrate come un successo. Il lavoro manuale è ricercatissimo non solo negli Stati Uniti.
Tornando alle vicende di casa nostra, l’ultimo rapporto Excelsior, a cura di Unioncamere e ministero del Lavoro, segnala che quasi la metà delle richieste non trova una corrispondente offerta. Nell’industria del legno e del mobile, che in questi giorni è meravigliosamente in vetrina al Salone di Milano, la percentuale di chiamate a vuoto arriva al 57,4 per cento. Gli specialisti si interrogano su come ridurre questo mismatch. Intanto paghiamo di più chi lavora.
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La Rassegna cinematografica |
Chi ha paura di Luca Guadagnino? Tre ragioni per farvi conquistare da «Queer» (e da Daniel Craig post 007) |
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Chi ha paura di Luca Guadagnino? Chi ha paura del suo talento sarcastico, spiazzante, irriverente? È azzardato dire che Guadagnino è tra i migliori registi in circolazione, che i suoi temi, sia che parli di cannibali o di tennisti in panne sentimentale, allarmano, scuotono, interessano? E allora partiamo dicendo che i punti forti di Queer, al cinema dal 17 aprile con Lucky Red, sono tre: 1) un Daniel Craig centrifugato, levigato, talvolta sorridente, trasformato in un sofferto dandy sessantenne; 2) il riflesso della vita straordinaria / letteraria / fricchettona di William S. Burroughs, dal cui romanzo omonimo è tratto il film; 3) infine i corpi. Sì, proprio loro, i corpi che si toccano, si attraggono, si intersecano, si amano e si respingono. I corpi che ballano, s’innamorano, si distruggono, cadono e si rialzano.
In proposito, Guadagnino ha più volte dichiarato che l’immagine del corpo è un elemento centrale nel suo modo di interpretare il cinema, «com’è stato anche per Bertolucci, Demme, Rivette». Spiegando: «Scelgo gli attori in base a una tridimensionalità che loro trasmettono e io posso catturare. Sono interessato ai corpi che agiscono nello spazio, a come si muove una nuca, a come vibra un collo, a come una mano si lascia andare».
Un’altra certezza è che Guadagnino è un regista che va veloce, molto veloce. Dopo due opere poderose / clamorose come Bones and All (sui cannibali metropolitani) e Challengers (sul tennis e il triangolo d’amore), ha realizzato questo Queer, rimasto bloccato a lungo ai box per problemi produttivi legati anche allo sciopero degli attori e degli sceneggiatori di Hollywood, e adesso ha sulla rampa di lancio due documentari e un altro film. I due doc sono Joie de vivre sulla lezione di Bernardo Bertolucci, maestro di Guadagnino, «che agli amici sul set chiedeva: abbiate joie de vivre», e poi Intimité, che parte dalla notte tragica dell’attentato al Bataclan di Parigi per raccontare l’universo giovani. Il film è un thriller pirotecnico, After The Hunt, sceneggiato da Nora Garrett e interpretato da Julia Roberts, docente universitaria alle prese con un caso di coscienza, un film definito «un omaggio al cinema di stampo bergmaniano di Woody Allen».
Se dunque «queer» è il termine britannico per indicare i gay, allora il film di Guadagnino si può definire come un trattato sintetico di amore omosessuale, ambientato a Città del Messico negli Anni Quaranta ma sulle quinte posticce di Cinecittà e sceneggiato da Justin Kuritzkes. Craig è il misterioso avventuriero William Lee che ogni giorno attraversa la città con il suo abito di lino color avorio, la sigaretta sulle labbra e il panama da viveur, cercando di rimorchiare giovanotti disponibili. Fino a un certo punto, si è trattato di incontri occasionali, seppure esplosivi, contesi ad altri clan di omosessuali. Poi un giorno Mr. Lee adocchia il giovane Allerton (Draw Starkey) e ne resta come fulminato. Non sa più fare a meno di lui. Lee beve tequila e mescal, e si droga: è perso in una dissipatio che è legata a un malessere interiore, a una dolorosa ricerca di sé stesso attraverso esperienze estreme, in definitiva a un riposizionamento dell’anima. Allerton, il ragazzo delle meraviglie, cede alla corte insistente di Lee, ma cerca alternative anche nell’altro campo: è annoiato, si concede a quella relazione perché Lee è facoltoso, ha relazioni e grandi idee. Un uomo di mondo che promette di aprirgli le porte e la mente.
Il che avverrà con un lungo viaggio in Sudamerica che assomiglia al Tè del deserto, uno dei film che Guadagnino ama di più, in cui Lee rischia di morire divorato dalla dipendenza dagli oppiacei, si fa largo tra vipere, bisce e altri animali in una soffocante simbologia di amore e morte, trascinando Allerton in un’esperienza sciamanica nella giungla dell’Ecuador: con una sedicente dottoressa che inizia i due agli effetti del potente Yange, un allucinogeno vegetale capace di produrre sensazioni e percezioni mai sperimentate e di far arrivare alla compenetrazione dei corpi attraverso la compenetrazione delle anime. Guadagnino si conferma virtuoso della cinepresa, eclettico per temi e visione complessiva. In un articolato passo a tre, Lee, Burroughs e Guadagnino sono la stessa persona, uno alter ego dell’altro.
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Rassegna musicale 47 |
La playlist della settimana: fermi tutti, è tornato Contessa con i Cani |
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Sono in arrivo una tonnellata di musica (ben sette album), un film biopic e non poche polemiche sui prezzi dei biglietti e su un’immagine di rocker popolare di sinistra un po’ appannata. Nel frattempo è uscito il singolo «Rain in the river». Ve lo segnaliamo per dovere di cronaca, che da queste parti non si è fan del Boss (da sempre, tranne «Nebraska», ci è sembrato un inutile spreco di testosterone, muscoli e sudore). Del film, però, ci incuriosisce il cast: nei panni di Bruce Springsteen ci sarà Jeremy Allen White (già, lo chef di The Bear) e il padre è interpretato da Stephen Graham (lo spettacolare padre del ragazzo di The Adolescence).
Detto questo, veniamo a noi. Non possiamo non cominciare dalla novità più clamorosa della settimana, l’arrivo a sorpresa del nuovo album dei Cani, ovvero di Niccolò Contessa. Un gran bell’album, che segna la differenza con molti dischetti indie che non lasciano traccia. Ma insomma, eccoci alla nostra Playlist della settimana, con le nuove canzoni selezionate secondo il nostro sindacabilissimo gusto. La trovate qui.
I Cani – «Post mortem» – «Nella parte del mondo in cui sono nato»
«Nella parte del mondo in cui sono nato degli artisti ci interessa essenzialmente che cos’hanno mangiato»
Ci si ritrova, di questi tempi, a divorare un disco, per cercare di capire che diavolo ci sta succedendo intorno. Contessa, aiutaci tu. Certo, non sei un maître à penser, un venerato maestro, un intellettuale con il patentino, ma c’è più sostanza e intelligenza in queste canzoni che in tonnellate di riflessioni pensose. Come scrive Luca Piras sull’Huffington Post, Contessa – esordio 15 anni fa con i «I pariolini di 18 anni – è il vero padre nobile dell’indie italiano»: «I Cani raccontano le difficoltà delle relazioni nei nostri anni in “Le coppie”, l’esistenzialismo filosofico in “Calabi-Yau”, il rapporto con gli ansiolitici in “Lexotan”, la monetizzazione dei sentimenti sui social in “Questo nostro grande amore”, i disagi familiari in “Il pranzo di Santo Stefano”». E ora? Scrive Piras che «l’indie italiano è diventato così mainstream da essere persino passato di moda. “Post mortem” è il requiem definitivo di un’epopea musicale, l’indie appunto, creato e ora distrutto dallo stesso Contessa. La messa è finita, andiamo in pace».
Noi, però, rimaniamo, che c’è da sentire il disco. Per nulla facile, nervoso, duro, a volte scontroso, ma mai inutilmente pretenzioso, spesso geniale negli arrangiamenti e, ça va sans dire, nei testi, arrabbiati, cinici, ironicamente acidi. Testi cupi, violenti, sinceri. Noi scegliamo per ora «Nella parte del mondo in cui sono nato», che non vediamo l’ora di cantare in coro sotto un palco.
Mt Joy – «Hope we have fun» – Coyote»
Il primo singolo del quarto album dei Mt Joy – quintetto di Philadelphia – è stato ispirato dai suoni dei coyote di San Rafael Hills a Los Angeles. Negli States hanno cominciato una lunga tournée, e sono popolarissimi, da noi invece non li conosce nessuno, o quasi. Proviamo a rimediare, ascoltando questo «Coyote», brano energico e trascinante.
Franco 126 – «Futuri possibili» – «Ancora no»
«Ho sognato di affogare in una vasca, con il tuo nome su un biglietto in una tasca»
Noi che abbiamo consumato «Stanza singola» e «Senza di me», aspettavamo al varco questo disco di Franco126. Per nulla entusiasmante, ma neanche deludente, nel senso che rispecchia perfettamente le aspettative. Sono le sue atmosfere e i suoi testi poetici e intelligenti, malinconie ironiche, letti disfatti, piante di basilico che muoiono di sete, netturbini in giro per la città, orologi che vanno al contrario. Viene da pensare a un moderno Baglioni, meno svenevole, a un moderno Battisti, meno geniale. Languori, malinconoie, rimpianti e una voglia di cantare che non passa mai. Sentireascoltare sintetizza così: «Un itpop che odora di cantautorato». Un disco primaverile, ma davanti al tramonto.
Giulia Mei – «Della musica non ci ho capito niente» – «Un tu scuiddare»
Cantautrice e pianista di origini palermitane, Giulia Mei ha raggiunto una certa notorietà con «Bandiera», diventato – scrive Repubblica – «un inno femminista potente e con un linguaggio molto esplicito». E ora esce un suo disco dove conferma molte doti, ancora acerbe ma promettenti. Si nota, in molte canzoni, la sua formazione al Conservatorio, come in questo «Un tu scuiddari», con passaggi di pianoforte quasi classici e testi forti, arrabbiati, femministi. Si vedrà se è solo moda, solo un modo per stare nell’onda, o se c’è sostanza vera.
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