sabato, 19 Aprile 2025
Home Attualità LA RASSEGNA STAMPA DI OGGI DA “Il Fatto”, “Dagospia”, “Notix” e...

LA RASSEGNA STAMPA DI OGGI DA “Il Fatto”, “Dagospia”, “Notix” e “Cronachedi” e le prime pagine dei giornali di oggi a cura della redazione dell’Agenzia Cronache / Direttore Ferdinando Terlizzi

Marco Travaglio

Dal Vangelo secondo Lollo

Di Marco Travaglio

Direttore del Fatto Quotidiano

Profittando della confusione generale, il cosiddetto ministro Lollobrigida, che è un po’ l’angolo del buonumore del governo, s’è liberato della mordacchia che gli aveva imposto Palazzo Chigi e ha ricominciato a esternare da par suo. Dopo il celebre monito contro “l’abuso di acqua che può portare alla morte” (soprattutto se non sai nuotare), è rimasto in tema liquidi con un’esegesi evangelica a dir poco rivoluzionaria: “Erano i cattolici nel Diritto canonico che disciplinavano il vino, questo prodotto fondamentale per la religione cristiana e che era stato ovviamente oggetto del primo miracolo di Cristo nella moltiplicazione di quello che, per chi crede come noi, certamente non può essere un veleno, altrimenti avremmo un problema con chi l’ha moltiplicato”. Da duemila anni si pensava, alla luce del Vangelo di Luca, che il primo miracolo di Gesù fosse la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana. E che poi, in almeno due occasioni, il Cristo avesse moltiplicato pochi pani e pesci per sfamare migliaia di discepoli sprovvisti di pranzo al sacco. Ma ora l’evangelista Lollo ha scoperto che Gesù moltiplicò direttamente il vino, non si sa se sfuso o imbottigliato. Ergo l’alcol, regolamentato nientemeno che dal Diritto canonico, fa benissimo alla salute e l’acqua fa malissimo: infatti Gesù mica la moltiplicò. Né, a Cana, si sognò di tramutare il vino in acqua, per evitare una strage di invitati che avrebbe trasformato il matrimonio in un funerale di massa.

A proposito di vino. Il cosiddetto ministro Nordio, che sostituisce Lollo quando è in pausa, ha spiegato al Senato la vera causa del sovraffollamento carcerario: “Se aumenta il numero dei detenuti non è colpa del governo, ma di chi commette reati e della magistratura che li mette in prigione. Non mi risulta che siano stati imprigionati in base a nuove leggi di questo Parlamento”. In attesa che il ministro della Salute spieghi che le liste d’attesa negli ospedali sono colpa dei cittadini che decidono di ammalarsi e dei medici che decidono di curarli, seguiamo il ragionamento del Guardagingilli. Lui e il suo governo, in 30 mesi, hanno aggiunto al Codice penale 48 reati per un totale di 417 anni di carcere, a cui ora – col dl Sicurezza avallato ieri da Firmatutto Mattarella – si aggiungono altri 14 reati e 9 aggravanti. Ma Nordio assicura che nessuno dei 62.400 detenuti è dentro per i nuovi reati. Ma allora, se già sapeva che nessuno li commette o nessuno viene beccato o nessuno fa un giorno di galera, che li ha introdotti a fare? Sia come sia, i detenuti sono troppi perché commettono troppi reati (vecchi) e i giudici ne arrestano e ne condannano troppi, anziché uno sì e uno no. Ma non sarà che Nordio, digiuno del Vangelo secondo Lollo, ha di nuovo esagerato con l’acqua?

Femminicidio: il patriarcato va smontato anche tra le donne

Leggo sulle motivazioni della condanna di Filippo Turetta commenti, anche dal “campo progressista”, improntati a quello che definirei populismo penale, in particolare per la decisione della corte di non riconoscere l’elemento della “crudeltà”. Naturalmente sono perlopiù dovuti a ignoranza della tecnicità di uno strumento, il diritto, che ha un suo linguaggio specifico, una sua semantica. Faccio un esempio: nel linguaggio comune, “strage” è un’ammazzatina; nel linguaggio giuridico no (si ricordi la polemica su Cospito: “Strage? Ma se non ha ammazzato nessuno!”), poiché esso è un reato di pericolo, che si configura quando qualcuno mette in atto determinate condotte anche se esse non producono l’evento progettato. Ma non mi dilungherò, dal momento che anche in Rete circolano diverse ed efficaci messe a punto di questo ragionamento a proposito della questione ‘crudeltà’.

Quello che però continua a stupirmi della discussione sul femminicidio non è certo l’annidarsi di quel populismo penale anche nel ‘campo progressista’, ma il tacere il tema più scabroso, quello che non si può dire a proposito della violenza contro le donne. Naturalmente non è dicibile perché appena pronunciato esso rischia di ingenerare nel lettore comune la volgare accusa di victimblaming. Eppure – e qui mi sia permesso andare oltre il caso specifico di Cecchettin – il punto è centrale e riguarda non tanto il tema della repressione di tali reati, ma quello della loro prevenzione attraverso l’azione pedagogica. Su questo piano occorre infatti chiedersi: basta, nel contrasto al fenomeno del femminicidio, proporsi di agire soltanto nei confronti del portatore ‘attivo’ della tabe? In termini più brutali, basta educare i figli maschi? Ecco, mi pare che la risposta possa essere una sola: no. Questa risposta così tranchant sembra tuttavia essere ammessa solo se produce l’unica risposta accettabile, quella meno controversa: occorre educare anche le figlie, ma solo nel senso di costituire i mezzi per difendersi materialmente.

In altri termini, spesso si legge che le donne dovrebbero imparare letteralmente a reagire, cioè a usare arti marziali o altre forme di difesa fisica. Ma c’è un’altra dimensione, un altro corno del dilemma, oscuro e taciuto, ed esso riguarda la domanda: come agire sul piano culturale, se il maschile colonizza il femminile costringendolo a leggere il mondo con le proprie categorie? Ovvero, occorre imparare a difendersi solo sul piano fisico, oppure è necessario anche e prima – perché a monte – respingere la pervasività del dominio maschile nella sfera simbolica delle donne? Detto ancora diversamente: siamo sicuri che il patriarcato non si sconfigga anche debellando quella parte di esso che si annida nei codici interpretativi della realtà utilizzati dalle donne, il cui universo semantico è vittima di una violenza uguale a quella fisica? E di nuovo, non c’entra nulla il victimblaming: qui si sta sostenendo l’esatto opposto, ovvero che la violenza sulle donne inizia nel momento in cui il dominio maschile le costringe ad accettare una visione patriarcale del mondo. Può capitare che, sopportando condizioni di sopruso che sfociano in aggressioni fisiche fino al femminicidio, le donne non denuncino non solo per le difficoltà che la società e le istituzioni frappongono all’esercizio di quel diritto, ma perché esse condividono coartatamente l’ordine simbolico maschile. Attribuire un ruolo sacrale, dunque sacrificale, alla vittima disconosce questa ulteriore dimensione che, lungi dal costituire una ‘colpa’, è il segno di un’altra, più penetrante forma della violenza, e non aiuta a risolvere il problema.

 

DAILY MAGAZINE

 

Il pentito Di Grazia: “Di Tella estromise De Santis dal racket dei videopoker e gli inviò un proiettile”.

DI giovanni maria mascia

TEVEROLA – Il nuovo collaboratore di giustizia Francesco Di Grazia sta facendo luce sul clan retto da Aldo Picca e da Nicola Di Martino in merito al traffico di sostanze stupefacenti e al racket delle estorsioni.

“La cassa derivante dalle estorsioni e dalla compravendita di stupefacente era gestita prima da Aldo Picca e Nicola Di Martino. Dopo il loro arresto fu gestita da Salvatore De Santis. Le persone che ricevevano uno stipendio per le attività illecite erano Antonio Zaccariello, Nicola Di Martino, Salvatore De Santis, Michele Vinciguerra, Carmine Di TellaRaffaele Di Tella e ovviamente io. Altri invece percepivano una percentuale sulla piazza” il pentito ha spiegato che gli stipendi andavano dai 2500 euro percepiti da Aldo Picca ai 2000 di Di Tella, De Santis e Di Martino, ma c’era anche chi ne percepiva 1000. Di Grazia ha anche riferito che dopo gli arresti di Picca e Di Martino, Raffaele Di Tella rivendicò per sé gli incassi dei videopoker “Disse ad Antonio Zuppa di riferire a De Santis che da quel momento in poi i soldi provento delle macchinette, cioè le somme consegnate dai commercianti Mario D’Anzi e da Giuseppe Oliva le doveva prendere Di Tella, mentre le restanti le poteva prendere lui. Per mostrare la serietà di quanto stava asserendo, consegnò un proiettile a Zuppa dicendo di darglielo a De Santis e di intimargli di non recarsi più da D’Anzi e Oliva”.

 

 

Una videochiamata di Bidognetti dal carcere per ‘incoronare’ il nuovo reggente del clan

2190

 

 

CASAL DI PRINCIPE – Veleni e poca fiducia nella cosca. Gianluca Bidognetti Nanà, figlio ed erede mafioso dell’ergastolano Cicciotto ‘e mezzanotte, mentre era recluso nel reparto di ‘alta sicurezza’ di Terni, riusciva agevolmente a dettare la linea ai suoi affiliati. Nel 2022, poco prima che l’inchiesta della Dda di Napoli certificasse proprio il suo ruolo al vertice della catena mafiosa (che partiva dalla prigione umbra e arrivava nell’Agro aversano), Nanà iniziò a non essere più soddisfatto dell’operato di uno dei suoi principali esecutori, Giosuè Fioretto, ex marito della zia. Non si fidava. E così decise di sostituirlo nella gestione della compagine. Al posto di Fioretto scelse Nicola Gargiulo Capitone, storico esponente del clan.

A raccontare questo spaccato criminale ai magistrati della Dda di Napoli sono stati i collaboratori di giustizia Vincenzo D’Angelo Biscottino, genero del capoclan Francesco Bidognetti (padre di Gianluca), e Antonio Lanza, capozona di Lusciano e amico di Nanà.

D’Angelo ha indicato nel 2023 Gargiulo come attuale “reggente” dei Bidognetti. Tale investitura, ha riferito il collaboratore, avvenne nei primi mesi del 2022. Una decisione che fu presa da Nanà durante una videochiamata con Capitone, sul telefono di Giovanni Sabile mentre si trovavano, ha raccontato Biscottino, a casa di Giuseppe Carrano a Chiaiano. In cosa consisteva questa reggenza? Gargiulo raccoglieva i proventi delle attività gestite dal clan, li distribuiva agli affiliati e risolveva controversie in ambito di spaccio e estorsioni. Racconto confermato anche da Lanza, che ha detto di aver avuto contatti con Gargiulo fino alla sera prima del blitz del novembre 2022, che lo portò in carcere. Insieme, ha dichiarato, gestivano la cosca eseguendo le direttive che Nanà impartiva telefonicamente. Le chiamate venivano ricevute o presso l’abitazione di Federico Barrino o da tale ‘Peppe di Miano’. Lanza ha chiarito che, data la storica vicinanza di Gargiulo a Cicciotto, era lui a occuparsi di riscuotere le entrate provenienti dai servizi funebri e che possedeva le chiavi dell’ufficio di una società di pompe funebri, utilizzato per riunioni con esponenti del gruppo Schiavone.

Le informazioni fornite dai pentiti, oltre a tracciare un clima poco sereno nell’organizzazione criminale, hanno portato la Dda a contestare a Gargiulo il reato di associazione mafiosa. Con lui, nella stessa indagine condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo di Aversa, sono stati coinvolti Nicola Pezzella e Antonio Fusco. Il primo, di Casale, è ritenuto referente degli Schiavone, mentre il secondo, di Castelvolturno, è un imprenditore considerato vicino a Bidognetti. L’inchiesta è sfociata lunedì scorso in un’ordinanza cautelare per i tre appena citati, e anche per Hermal Hasanay, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, e per Umberto Meli, che risponde di estorsione in concorso con Hasanay. Operazione che ha avuto come obiettivo quello di infliggere l’ennesimo colpo al clan dei Casalesi per renderlo ulteriormente debole.
Gli indagati sono da ritenersi innocenti fino a un’eventuale sentenza di condanna irrevocabile. Nel collegio difensivo, gli avvocati Ferdinando Letizia e Danilo Di Cecco.