Castelvolturno, 1999. Della madre dei suoi figli ne fece una pizza. Il Pubblico Ministero chiese l’ergastolo ma fu condannato a 25 anni. Coinvolto anche un maresciallo dei carabinieri di Ferdinando Terlizzi(*)
Questo capitolo si occupa del barbaro omicidio della povera Katia Gabrielli. Ho lavorato per un certo tempo con il dossier dell’intero processo sulla mia scrivania (la sentenza, di 149 pagine e la requisitoria, di 51 pagine); ho visto e rivisto le puntate di “Chi l’ha visto?”. Ci sono state notti che non ho chiuso occhio, pensando al crudele gesto di immolare la madre dei propri figli in un forno che ardeva. Che orrore! Solo al pensiero. Spesso ero turbato dalla mia fantasia avvelenata dalla lettura delle carte giudiziarie. E pure Giuseppe Cervice non è il solo ad aver agito con questa crudeltà. E pure a lui non è stata contestata l’aggravante della crudeltà, come è stata invece contestata a Paolo Pietropaolo, 40 anni da Pozzuoli (c’è un fil rouge che lega questi delitti: Pozzuoli) che a febbraio 2016 ridusse in fin di vita (dandole fuoco) la sua compagna Carla Elenia Caiazzo di 38 anni (in stato interessante). Tentato omicidio, con l’aggravante della crudeltà. Se gli inquirenti avessero usato lo stesso metro il Cervice sarebbe stato certamente condannato all’ergastolo. Bruciare la madre dei propri figli, in un forno per le pizze, non è forse crudeltà? Già. Spesso mi sono accartocciato su me stesso, mi sono arrovellato il cervello, (capiterà anche a chi si faccia a leggere attentamente il pezzo che segue) conoscendo la sentenza: 24 anni? Sono pochi! Passeranno presto. Anzi sono già quasi passati… forse è già uscito e se la gode. Tra sconti di pena e liberazione anticipata (75 giorni ogni sei mesi, 5 mesi all’anno di abbuono; in tutto potrà scontare al massimo 14 anni. E anche prima potrà uscire e essere affidato ai servizi sociali) e pur avendo qualche cognizione giuridica sul ruolo delle aggravanti e delle attenuanti non ho trovato equa questa condanna. Forse ha giocato un ruolo importante la prescrizione? Vediamo. Novemila pagine di atti processuali (seimila solo di intercettazioni), una rogatoria in Polonia, due denunce e una serie di reperti tra cui alcune registrazioni audiovisive. Dopo sette anni di indagini (e undici anni dall’accaduto) è arrivata oggi, giovedì, la sentenza della prima sezione della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere che ha condannato a 24 anni (la richiesta era stata quella dell’ergastolo), Giuseppe Cervice, accusato del delitto della sua compagna, Katiuscia Gabrielli, 25 anni, originaria del Napoletano, ma trapiantata a Castelvolturno. L’uomo, che non è mai stato arrestato ma soltanto incriminato sulla scorta di una serie di meri indizi – come sostiene il suo difensore Ferdinando Trasacco – era accusato di omicidio e occultamento di cadavere: reato, quest’ultimo, che è andato in prescrizione e che insieme alle attenuanti gli ha evitato la condanna dell’ergastolo. Ad emettere la sentenza è stata la corte presieduta da Elvi Capecelatro (giudice a latere Maria Francica) dopo il rinvio a giudizio dell’uomo che era indagato inizialmente con il padre ed un carabiniere che avrebbero coperto la vicenda (entrambi usciti dal procedimento per l’intervenuta prescrizione). Quando Katiuscia scomparve da Castelvolturno era l’8 settembre del 1999: indossava un paio di pantaloni neri, un top grigio, una maglietta bianca e dei sandali neri. Occhi e capelli neri, alta un metro e 55, la giovane donna si sarebbe allontanata intorno alle 6,30 del mattino, a seguito di una discussione avvenuta la sera prima. A riferirlo fu lo stesso suo convivente dalla quale ebbe due figli. Agghiaccianti le presunte modalità: Katia sarebbe stata gettata nel forno della pizzeria dove sarebbe morta carbonizzata.
Secondo il racconto del convivente, la donna – a seguito di un ‘ennesima’ lite scoppiata questa volta sull’organizzazione della festa di compleanno del loro piccolo – dopo avere minacciato di andare via subito portando con sé i due figli, si sarebbe convinta a restare, ritirandosi nell’abitazione al piano superiore della pizzeria dove entrambi lavoravano. L’uomo avrebbe trascorso la notte nei locali della pizzeria e avrebbe rivisto Katiuscia solo il mattino dopo, verso le sei, prima che lei si incamminasse a piedi lungo la Domitiana mentre lui saliva al piano superiore, dove il figlio si era svegliato e stava chiamando i genitori. Ma i familiari della donna scomparsa, assistiti dall’avvocato Raffaele Russo, non hanno mai creduto a questa versione, come hanno ribadito anche in passato davanti alle telecamere della trasmissione Rai Chi l’ha Visto. I genitori di Katia, infatti, sono sempre stati convinti che in quel racconto c’erano delle contraddizioni. Convinzioni emerse dopo il racconto del figlio più grande della coppia che durante la notte avrebbe cercato invano la madre trovando solo il conforto della baby sitter ucraina. Quest’ultima, prima irreperibile poi interrogata in Polonia per rogatoria, avrebbe detto ai carabinieri che la Gabrielli non era più in casa già alle quattro di quella notte. Secondo l’accusa, convivente di Katia avrebbe assassinato la giovane donna dopo una violenta lite. Poi, con l’aiuto del padre, avrebbe fatto sparire il corpo. Il carabiniere indagato, amico di Giuseppe, avrebbe cercato invece di ritardare le indagini sulla scomparsa. Dopo la condanna, Cervice che non aveva ancora scontato alcun giorno in carcere, è stato arrestato. Decaduta la patria potestà resta da decidere il destino dei bambini avuto da Katiuscia Gabrielli che ora restano soli, senza più madre e con un padre riconosciuto suo assassino in prigione.
(*) Fonte: Ferdinando Terlizzi, Delitti in bianco e nero a Caserta, prefazione di Ugo Clemente, Edizioni Italia, 2017
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I processi de la cronaca è un libro in preparazione di Ferdinando Terlizzi ( inedito la cui uscita è prevista per fine anno) e di cui vi anticipiamo la Sinossi qui di seguito, recherà una prefazione del criminologo Carmelo Lavorino il quale ha firmato anche il capitolo dedicato al processo Mollicone.
Sinossi I processi de la cronaca
In un’opera avvincente e drammatica, l’autore si erge a cronista dei delitti più sordidi e scandalosi, infondendo le sue parole di una potenza narrativa travolgente e scintillante. La tavolozza di crimini descritti è variegata: dalla brutalità passionale, alla prevaricazione arrogante, fino alle tragedie assurde e deliranti.
La narrazione prende vita con un casus belli che rasenta il grottesco: un individuo sventurato, infuriato per una cavalla che ha pascolato sul suo terreno, si trasforma in un omicida crudele, uccidendo un padre di quattro figli – un gesto che grida vendetta e cattiveria.
Gli eventi si susseguono con un ritmo frenetico, mostrando come la passione possa condurre a scene di orrore. Le violenze su donne e le vendette tra amanti si mescolano in una danza macabra, affrontando temi di tradimento e onore attraverso omicidi premeditati e vendette efferate. La descrizione di questi atti riempie il lettore di un inquietante senso di invadenza, come se ogni crimine fosse un tassello del più grande puzzle della follia umana.
L’autore, con un linguaggio incisivo e straziante, riesce a ritrarre non solo la brutalità degli atti, ma anche l’inevitabile caduta nell’abisso morale di un’umanità priva di scrupoli. Queste storie di privazioni, follia, e rancore assumono quasi dimensioni mitologiche, facendo apparire i protagonisti non solo come uomini e donne, ma come figure tragiche in un dramma senza tempo.
Con audaci tocchi di realismo, l’autore non si limita a raccontare fatti di sangue. Egli scruta nel profondo dell’animo umano, mettendo in luce le contraddizioni e le debolezze che portano a tali atrocità. Ogni omicidio, ogni inganno, diventa un riflesso della banalità del male, un richiamo a esplorare le gabbie sociali e familiari che imprigionano gli individui.
In questo affresco di oscurità e speranza perduta, il lettore è invitato a interrogarsi sulle dinamiche che portano a simili crimini, ragionando su quanto il male possa annidarsi nel quotidiano, assurgendo a un tema universale e inquietante. Un’opera monumentale, che merita di essere letta e studiata, non solo per i fatti che racconta, ma per le verità scomode che mette in luce.