Il pentito cinese di Prato: “Ecco la guerra delle grucce”

Il conflitto esploso dieci anni fa in Toscana è all’origine del duplice omicidio di Roma: un salto di qualità che adesso preoccupa gli inquirenti

“Diciannove centesimi di guadagno per una gruccia”. Alla fine l’uomo ha parlato. È diventato uno dei primi pentiti della mafia cinese. Di fronte a lui c’erano il procuratore di Prato, Luca Tescaroli, e gli investigatori. Forse non credevano alle loro orecchie. Sì, il conflitto di mafia che sconvolge Prato, che ormai interessa altre città d’Italia, che sta arrivando in Spagna, Francia e Ungheria, è nato per le grucce. Quegli arnesi di metallo ai quali appendiamo i vestiti. “Due anni fa i concorrenti vendevano le grucce a 27 centesimi al pezzo, poi siamo arrivati noi e siamo scesi a 6 centesimi. Oggi siamo a 5,8”, ha aggiunto il pentito. Sì, 19 centesimi che hanno fatto scoppiare la guerra delle grucce. Perché messe insieme fanno cento milioni l’anno.

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Quelle parole, poche pagine di verbale, spalancano un mondo: potrebbe essere un primo anello che si collega con droga, estorsione. Forse addirittura, lo vedremo, con il business colossale della produzione e della distribuzione dei vestiti di marca: un miliardo e mezzo l’anno. Una catena che tiene insieme Camorra, ’Ndrangheta, Sacra Corona Unita e Triade cinese.

Ma sono tanti soldi, troppi. La fame di denaro ha fatto esplodere il conflitto nella mafia cinese. Ha portato linciaggi, bombe, incendi. Alla fine un duplice omicidio.

Colpi di pistola alla nuca. Un uomo e una donna giustiziati in via Prenestina, nel cuore di Roma. I due corpi in un lago di sangue sul pianerottolo del condominio. Lui si chiamava Zhang Dayong, aveva 53 anni; sua moglie, Gong Xiaoqing, ne aveva appena 38. “Un delitto passionale”, si è lasciato scappare uno dei primi soccorritori. No, non è così. È molto più di un fattaccio di nera. È il segnale che la mafia cinese ha deciso di venire allo scoperto. Difficile dire se sia un atto di forza o di arroganza. Oppure la dimostrazione che la Triade cinese ha perso il controllo della faida interna. Un conflitto esploso due anni fa, prima sottotraccia, ma che ormai ogni giorno riempie le pagine di cronaca, non solo a Prato. Un fenomeno a lungo ignorato, perché la criminalità cinese era riuscita, come sua tradizione, a confinarlo nella propria comunità. Soltanto in pochi, come il procuratore di Prato, Luca Tescaroli, da anni lanciavano allarmi. Voce che grida nel deserto.

Già, sono passati i tempi in cui la criminalità cinese teneva il profilo basso. Fino a dieci anni fa, quando camminavi per Prato e i borghi della campagna, quasi non ci facevi caso: dopo il tramonto gli italiani sembravano sparire; ovunque nei bar, per le strade, pareva di essere piombati in un Paese asiatico. Del resto i cinesi in città sono 30 mila, l’11% della popolazione. Eppure le due comunità convivevano, due esistenze parallele. Magari non si amavano, ma facevano affari insieme. Leciti o illeciti: vestiti, lavorazione della pelle, tutto prodotto in laboratori più o meno clandestini dove i dipendenti – quasi schiavi senza nome – lavoravano fino a venti ore al giorno.

Reati e violenze ce n’erano eccome, ma restavano in famiglia. A Prato come a Milano. Raccontava un investigatore lombardo vent’anni fa: “Nella comunità cinese succede di tutto, pestaggi, linciaggi, ferimenti, ma si curano da soli, nelle case, in ospedali clandestini. Usano perfino armi tradizionali, i loro machete Dao, il Guan Dao, che derivano da attrezzi contadini. Si fanno a pezzi, ma non esce fuori niente”.

Poi, nel 2013, a Prato arrivò la prima maxi-inchiesta: quasi 300 cinesi indagati. L’accusa: aver riciclato e trasferito in Cina, magari passando per San Marino, 4,5 miliardi in quattro anni. È finita, purtroppo, con la prescrizione.

Se, però, i soldi puoi nasconderli, la smania che producono viene fuori: ovunque per strada a Prato si incrociano Mercedes, Audi, Porsche. Ma c’era ancora qualcuno che faceva finta di non vedere. Almeno fino al 5 agosto 2022, quando a Prato poco prima della mezzanotte, quattro uomini assaltano un furgone e lo incendiano con bottiglie di benzina. Il titolare della società sotto attacco aveva appena costituito una srl: produceva grucce. Da allora le cronache cittadine sono un continuo ripetersi di fatti di sangue. Ci sono di mezzo sempre quelle maledette grucce quando il 23 aprile 2024 viene linciato un imprenditore cinese: aveva rifiutato di vendere la merce agli emissari della Triade. Il 14 giugno e poi ancora l’8 luglio tocca a un altro produttore di grucce. Il 15 luglio al magazzino della sua società. Ormai si agisce in pubblico, senza timore di essere visti. Anzi, cercando proprio di diffondere il panico: il 18 giugno, all’hotel M2 di Prato, un imprenditore che lavora nel settore logistica, trasporti e grucce viene riempito di botte davanti a tutti. Un’escalation continua. Finché il 6 luglio 2024 arriva il primo tentato omicidio: uno dei principali produttori di grucce viene aggredito in un bar da cinque persone. Lo colpiscono alla testa con una bottiglia, poi lo tempestano di calci, alla fine lo accoltellano al ventre: “Gli uscivano fuori le budella”, è scritto nei rapporti delle forze dell’ordine. L’uomo si salva, nonostante i tentativi dei suoi amici di portarlo a casa invece che in ospedale.

Di più, sempre di più. Il 16 febbraio di quest’anno va in scena un triplice attentato: in tre comuni diversi (Prato, Seano, Campi Bisenzio) vanno a fuoco tre capannoni. Gli inquirenti notano subito che gli incendi sono avvenuti alla stessa ora. E scoprono che i congegni incendiari erano contenuti in pacchi inviati da finti indirizzi in Francia. Le ditte colpite erano tutte impegnate nel business delle grucce. Il 9 aprile scorso un cinese viene ridotto in fin di vita a colpi di mazza. Appena tre giorni dopo un altro attentato con coltelli e pistole.

Ma no, è molto più che una guerra locale: il 28 febbraio scorso Madrid si risveglia sotto a una colonna di fumo alta centinaia di metri. È un incendio che distrugge un capannone di 8 mila metri quadrati. Le modalità? Le stesse degli attentati italiani di pochi giorni prima. Se ne accorgono subito Tescaroli e i suoi uomini che cominciano a collaborare con i colleghi spagnoli. A spalancare, però, le porte sullo scenario della guerra è proprio il pentito (ce n’era già stato uno a Roma, nel marzo 2023): “Sono stato rapinato”, dice quando viene soccorso dopo l’aggressione. Poi decide di raccontare la verità. Perché è stato aggredito? “Lavoro nel settore delle grucce e c’è una concorrenza molto forte nel settore. C’è una persona che detta legge nell’ambiente. Quella sera nel locale c’erano molti dei suoi uomini e c’era anche lui”. L’imprenditore comincia a raccontare di giri di denaro, di finanziamenti da centinaia di migliaia di euro arrivati dall’Ungheria. Infine svela il meccanismo che ha scatenato la guerra: la concorrenza al ribasso per lucrare 19 centesimi su ogni pezzo.

C’è tutto questo dietro la morte di Zhang Dayong e di sua moglie. Lui era già stato coinvolto in un’inchiesta del 2018 sulla criminalità cinese. Era stato indicato come uno dei più stretti collaboratori di un boss.

Sì, le grucce hanno spaccato i patti della mafia cinese. Ma gli inquirenti sono convinti che sotto ci sia qualcosa di più grosso. Molto più grosso. Tanto per cominciare, la gigantesca partita per il trasporto e la logistica nel settore della moda. E qui non parliamo solo di cinesi, perché entrano in gioco interessi europei. Italiani in particolare. È un settore da un miliardo e mezzo ogni anno. Dalle grucce si sta passando a quello che ci va appeso: i vestiti. Non soltanto imitazioni, ma anche abiti di lusso.

E qui entrano in gioco le nostre mafie. Del resto in Toscana aveva già messo le radici Cosa Nostra, poi sono arrivate ’Ndrangheta e Camorra. Da sempre la più attiva nella produzione e contraffazione dei vestiti. E la mafia cinese non aveva interesse a entrare in contrasto con le organizzazioni italiane. Meglio collaborare. La Triade si è tenuta la produzione in quegli infernali laboratori, il trasporto. Poi, visto che gli accordi sembravano rispettati, si è allargata la prospettiva alla droga, l’usura, l’estorsione. Dayong era stato accusato proprio di estorsione. Lui era uno di quelli della vecchia scuola, girava in bici, viveva sotto la superficie, ma non gli è bastato.

Ora è impossibile ignorare quello che sta succedendo. “Serve un ufficio dell’antimafia specifico in Toscana”, chiedono le forze dell’ordine. Ma occorre anche fare breccia nel muro impenetrabile di omertà. Trovare, come per le nostre mafie, dei ‘pentiti’. I primi si stanno facendo avanti, per salvarsi la vita. Ma in Italia non esiste una legge che tuteli i collaboratori di giustizia cinesi: “Occorre estendere la legge sui pentiti agli stranieri”, chiede Tescaroli. Bisogna agire subito, ormai il confine è stato superato lunedì in via Prenestina. Ormai si uccide.