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venerdì 18 aprile 2025
Le aperture di Trump a Meloni
President Donald Trump meets with Italy's Prime Minister Giorgia Meloni in the Oval Office of the White House, Thursday, April 17, 2025, in Washington. (AP Photo/Alex Brandon) Associated Press / LaPresse Only italy and Spain
editorialista
di   Elena Tebano

Bentrovati. La visita della premier Giorgia Meloni al presidente americano Donald Trump a Washington, per fare da tramite all’Unione europea (senza trattare sui dazi al suo posto); il taglio dei tassi d’interesse da parte della Bce, che rende meno costoso investire nell’area euro; lo scontro tra governo e Regioni (anche di centrodestra) sulla legge per ridurre le liste di attesa in sanità. E ancora: l’incidente della funivia sul monte Faito, in Campania, che è costato la vita a 4 persone; il rientro al Quirinale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo l’operazione per il pacemaker; le rivelazioni sul piano israeliano per attaccare i siti atomici dell’Iran (fermato dagli Usa). Sono queste le notizie principali sul Corriere di oggi. Vediamo.

Sì al dialogo con l’Europa

Da un punto di vista politico l’incontro della premier Giorgia Meloni con il presidente americano Donald Trump, ieri a Washington, è stato un successo. Più difficile dire se riuscirà ad andare oltre le dichiarazioni (che di per sé non erano scontate) e a portare risultati concreti sui dazi. Trump ha tributato a Meloni tutti gli onori, confermando la relazione speciale con lei, e i due hanno convenuto di essere fiduciosi che gli Stati Uniti e l’Europa troveranno un accordo sul commercio. «Loro lo vogliono fortemente. E noi faremo un accordo commerciale. Me lo aspetto pienamente. E sarà un accordo equo», ha detto Trump ai giornalisti nello Studio Ovale dopo i colloqui con Meloni. Ma ha anche aggiunto di non avere nessuna fretta di arrivare all’accordo perché considera i dazi un modo per arricchire gli Stati Uniti.

La premier Meloni, che ha detto di essere a Washington «per fare incontrare gli Stati Uniti e l’Unione europea», si è mostrata altrettanto fiduciosa, anche se ha rimarcato di non poter trattare per l’intera Ue. «Sono sicura che possiamo trovare un accordo e sono qui per aiutarvi», ha dichiarato (qui il racconto dell’incontro). I 27 Paesi dell’Unione europea devono far fronte a dazi del 25% su acciaio, alluminio e automobili, e ad altri dazi di almeno il 20% (ora ridotti al 10% per 90 giorni) su quasi tutti gli altri beni, dopo che Trump ha voluto colpire i Paesi che vendono agli Stati Uniti più merci di quelle che acquistano da loro. Trump è convinto che i suoi dazi produrranno una ricchezza senza precedenti per il suo Paese, ma intanto il mercato azionario è crollato, gli interessi sul debito statunitense sono aumentati e gli amministratori delegati mettono in guardia sugli aumenti dei prezzi e le perdite di posti di lavoro in arrivo.

Spiega Giuseppe Sarcina che l’apertura al dialogo con l’Ue non era scontata (Trump, secondo Meloni, «ha accettato l’invito a venire presto in Italia» e, in quell’occasione, il presidente Usa potrebbe incontrare anche i vertici dell’Unione europea). E che:
Alla vigilia del summit i media americani e gli stessi funzionari del Dipartimento di Stato avevano creato un clima di attesa che da tempo non si vedeva per l’arrivo di un presidente del Consiglio italiano a Washington. Per una serie di ragioni. La prima è che le comunicazioni tra Washington e Bruxelles sembrano interrotte. Nelle ultime settimane il vice presidente J.D.Vance, che oggi sarà a Roma, aveva liquidato gli europei come «parassiti». E lo stesso Trump aveva detto che l’Unione europea era stata costituita per «fregare gli Stati Uniti». E, naturalmente, c’erano molte aspettative nelle istituzioni dell’Unione europea, visto che da settimane von der Leyen sta cercando di organizzare un incontro formale con Trump. Ma non vanno dimenticate le diffidenze che hanno accompagnato l’iniziativa di Meloni, coltivate in particolare dal presidente francese Emmanuel Macron.
Si temeva anche una sfuriata trumpiana contro il Vecchio Continente o un pericoloso tentativo di dividere i Paesi dell’Unione europea tra amici e nemici dell’America. Tutto in diretta televisiva, con effetti devastanti. In realtà il presidente Usa si è contenuto rispetto ai suoi standard. Ha riservato solo pochi e circoscritti affondi velenosi all’«Europa». Per esempio sull’immigrazione illegale: «Su questo fronte hanno agito in modo terribile, non condivido nulla di quello che hanno fatto». Oppure sul commercio, naturalmente: «Siamo stati a lungo imbrogliati, anche dall’Europa, ma non accadrà più».

Meloni ha tenuto il punto sull’Ucraina («Sapete come la penso. L’Ucraina è stata invasa e l’invasore si chiama Vladimir Putin») anche se Trump è tornato ad attaccare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky («Ha agito malissimo, non sono proprio un suo fan»). E ha annunciato che a breve l’Italia ufficializzerà l’aumento delle spese militari al 2% del Pil.

Sicuramente la visita a Trump rafforza Meloni dal punto di vista interno, scrive Massimo Franco:
Al netto dei complimenti tipici di Donald Trump quando vuole piacere e compiacere, il viaggio di Giorgia Meloni a Washington la rafforza sul piano interno; su quello europeo, si vedrà. La visita alla Casa Bianca e il colloquio di oggi a Roma col vicepresidente Usa, J.D. Vance, oscura il rapporto privilegiato cercato dall’alleato Matteo Salvini con l’Amministrazione repubblicana. L’altro risultato è che Meloni sembra riemergere indenne come esponente dell’Ue. Anche perché Trump è apparso più moderato verso l’Ue, oltre che cordiale con la premier.

Un bilancio positivo per la premier italiana, nel complesso. Ma con un’avvertenza, come nota Sarcina:
L’esperienza di questi ultimi tre mesi, però, consiglia prudenza. Il Trump che abbiamo visto ieri, dialogante e ben disposto verso il negoziato con l’Europa e con la Cina, potrebbe cambiare repentinamente atteggiamento al primo intoppo. Adesso potrebbe iniziare la fase più difficile, perché bisognerà affrontare dossier complicati per tutti. 

Oggi intanto la premier vedrà il vicepresidente americano J.D. Vance a Roma e i due parleranno ancora di dazi.

I prestiti costano meno (in Europa)

La Banca Centrale Europea ha tagliato i tassi d’interesse  per la settima volta di seguito per contrastare i rischi di decrescita economica causati dai dazi del presidente americano Donald Trump. Il tasso di riferimento, quello sui depositi bancari, è sceso dal 2,5% al 2,25%. La mossa della Bce mira a sostenere l’attività economica nei 20 Paesi che utilizzano l’euro, rendendo il credito più accessibile per i consumatori e le imprese. Tassi di interesse più bassi rendono meno costoso prendere in prestito denaro e acquistare beni, dalle case alle nuove attrezzature delle aziende. Questo sostiene la spesa, gli investimenti delle imprese e si spera le assunzioni.

La presidente della Bce Christine Lagarde ha detto in conferenza stampa che «la forte escalation delle tensioni commerciali globali e l’incertezza ad esse associata ridurranno probabilmente la crescita dell’area dell’euro, frenando le esportazioni» e che questo «potrebbe trascinare al ribasso gli investimenti e i consumi». Ora che l’inflazione è diminuita (a marzo è stata del 2,2%, vicina all’obiettivo europeo del 2%), le preoccupazioni per la crescita sono tornate in primo piano. L’economia dei 20 Paesi che utilizzano l’euro è cresciuta solo dello 0,2% negli ultimi tre mesi del 2024.

Commenta Federico Fubini:
È fra le righe del messaggio che si avverte il cambio di umore in Europa, perché nessuno ha intenzione di farsi mettere da Trump di fronte all’alternativa più brutale: alzare un muro tariffario contro la Cina, se si vogliono eliminare o ridurre i dazi americani contro di noi. Il clima che si avverte nell’Unione europea è piuttosto di provare ad affermare un po’ di autonomia, perché magari possiamo. La Bce ieri ha ricordato che qualche segno di tenuta in area euro c’è e la rivalutazione dell’euro non aiuta l’export, ma segnala che una moneta gestita con «ragionevolezza e prevedibilità» (parole di Lagarde) oggi interessa anche al resto del mondo.
Poi ci sono le azioni che s’intravedono. Ieri la capa della Bce ha incoraggiato i governi a sviluppare un mercato finanziario integrato e smettere di sprecare il potenziale europeo. Ha chiesto di accelerare sull’euro digitale, per non permettere agli stablecoin di insinuare l’uso del dollaro in Europa. Lagarde infine si è raccomandata di facilitare la vita del sistema produttivo. Certo non va mai sottovalutata la capacità dell’Europa di deludere e i ritardi restano, dalle tecnologie allo spazio. Ma oggi non è più escluso nulla: neanche una maxi emissione di debito europeo per la difesa e per far crescere l’euro come valuta di riserva globale a spese del dollaro. Le quotazioni dell’Europa erano così giù che Trump, pensando di bullizzarci con poco, potrebbe aver commesso il suo ennesimo errore di superficialità.

Ma non negli Usa (e Trump minaccia)

Il costo del denaro non scende invece negli Stati Uniti. Mercoledì il presidente della Federal Reserve Jerome Powell ha detto che la banca centrale americana manterrà invariato il suo tasso di interesse di riferimento mentre cerca «maggiore chiarezza» sull’impatto dei cambiamenti politici in settori quali l’immigrazione, la tassazione, la regolamentazione e le tariffe.

La dichiarazione ha mandato su tutte le furie Trump, che in  un post sul suo social media ha invitato Powell ad abbassare il tasso di interesse e ha detto: «Il licenziamento di Powell non arriverà mai abbastanza in fretta!». Ieri ha aggiunto che potrebbe licenziarlo se volesse. Powell è stato inizialmente nominato da Trump nel 2017 e poi per un altro mandato di quattro anni dal presidente Joe Biden nel 2022. A novembre, Powell aveva dichiarato che non si sarebbe dimesso se Trump gli avesse chiesto di farlo. Ha anche affermato che la rimozione o la retrocessione di alti funzionari della Fed «non è consentita dalla legge» (la Corte Suprema americana sta esaminando in questi giorni un caso che potrebbe rendere più facile per i presidenti licenziare i capi di agenzie indipendenti come la Fed).

Powell ha sostenuto con fermezza che la Fed è indipendente dalla politica, una posizione che i presidenti della Fed hanno difeso con zelo almeno dagli anni Settanta. La ricerca economica insegna che una banca centrale indipendente ha maggiori probabilità di tenere sotto controllo l’inflazione, perché è più disposta a fare cose impopolari per combattere l’aumento dei prezzi, come aumentare i tassi di interesse.

Trump e la sua amministrazione vorrebbero che i tassi di interesse a lungo termine scendessero, rendendo più conveniente per gli americani prendere prestiti e comprare case, auto ed elettrodomestici. Ma la Fed controlla i tassi a breve termine e può influenzare solo indirettamente i costi di prestito a lungo termine, che sono aumentati dopo l’annuncio di Trump sui dazi. Le sue politiche doganali hanno fatto aumentare il rischio di una recessione con pressioni inflazionistiche più elevate e una crescita più lenta e, se Powell abbassasse i tassi, i prezzi salirebbero di più.

Scrive Massimo Gaggi:
Chi oggi rimane basito dalla durezza di Trump, dal modo in cui tenta di travolgere le istituzioni democratiche, i contrappesi ai poteri presidenziali, deve solo riarrotolare il nastro dei ricordi. Nel primo mandato il presidente insultò, esercitò pressioni brutali, ma non minacciò licenziamenti: perché non ha il potere legale di cacciare un banchiere centrale prima della scadenza del suo mandato e perché aveva attorno a sé collaboratori magari arciconservatori, ma rispettosi della Costituzione e della dialettica tra poteri dello Stato.
Ora che tutti i collaboratori di un tempo sono stati sostituiti da «yes men», Trump pensa di poter forzare la mano di Powell minacciando di licenziarlo. Ma Powell, come aveva già fatto durante il primo mandato di Trump, tiene duro. Mercoledì, interrogato su questo all’Economic Club di Chicago, si è detto tranquillo. Per legge non può essere licenziato prima di fine mandato (metà 2026) salvo che per gravi reati. O se il Congresso decide di abbreviare per legge il mandato dei presidenti della Federal Reserve (che è molto lungo proprio per metterli al riparo da pressioni politiche). Cosa che non avverrà perché, dice il capo della Fed, tanto i democratici quanto i repubblicani danno importanza all’autonomia dell’autorità monetaria.
Così Powell ha formulato liberamente il suo giudizio sulla politica dei dazi di Trump e ha assicurato che la Fed deciderà solo sulla base delle sue convinzioni. Furente perché accusato di danneggiare l’economia, Trump può essere tentato di forzare un’altra volta le leggi: può accusare Powell di qualche reato fantasioso, additarlo al disprezzo del suo popolo. Magari togliergli la protezione della scorta come ha già fatto con altri suoi ex servitori.
Ma deve stare attento a non esagerare perché è comunque sensibile al consenso del suo mondo. E la platea dei finanzieri di Chicago accorsa ad ascoltare Powell gli ha tributato una fragorosa manifestazione di apprezzamento per la sua scelta di autonomia e per la condanna dei dazi.

Lo scontro tra governo e Regioni sulle liste d’attesa

Governo e Regioni (tutte, anche quelle di centrodestra) si sono scontrati sulla legge per ridurre le liste d’attesa varata dalla maggioranza a giugno scorso, che prevede di istituire un organismo del Ministero della Salute con poteri sostitutivi nel caso le Regioni non riescano a diminuire i tempi d’attesa per visite ed esami medici.

Spiega Adriana Logroscino:
L’intesa sui poteri sostitutivi dello Stato in caso di inadempienza delle Regioni sulle liste d’attesa non è stata raggiunta, la richiesta di rinvio, avanzata dai governatori, è stata respinta dal sottosegretario che rappresentava il governo, Marcello Gemmato, e ora si apre una mediazione di trenta giorni per uscire dal muro contro muro.
Il ministero della Sanità esprime «rammarico per la mancata intesa dopo cinque mesi di interlocuzione». I governatori, sia di centrodestra sia di centrosinistra, respingono l’addebito e — unitariamente — fanno loro l’identico sentimento di rammarico: «Abbiamo manifestato ampia disponibilità al confronto e a trovare soluzioni anche diverse». Polemizzano i partiti di opposizione, Pd, Avs, M5S: «È l’evidenza del fallimento di un decreto sbagliato. Si vogliono abbattere liste d’attesa? Si investano risorse. Servono almeno 5 miliardi».

Le altre notizie importanti

  • Il New York Times ha rivelato che Israele aveva presentato agli Usa un piano dettagliato per colpire i siti atomici dell’Iran entro maggio. Ma diversi esponenti dell’amministrazione Trump (la capa di gabinetto Susie Wiles, il segretario della Difesa Pete Hegseth, la direttrice dell’intelligence Tulsi Gabbard, il vice presidente Vance e anche il consigliere per la sicurezza nazionale Waltz) hanno convinto il presidente a mettere il veto sull’operazione. «Queste rivelazioni non a caso escono a ridosso del secondo round di colloqui tra Stati Uniti e Repubblica islamica, che sabato si incontreranno a Roma. Secondo gli esperti, un modo per ricordare agli ayatollah lo scenario peggiore sul tavolo» spiegano Greta Privitera e Guido Olimpio.

  • «Un’occasione di convergenza molto importante». Il presidente francese Emmanuel Macron ha definito così i colloqui di ieri a Parigi fra europei, americani e ucraini. Alle discussioni, un nuovo formato negoziale, erano presenti il segretario di Stato americano Marco Rubio e l’inviato di Donald Trump Steve Witkoff e, da parte ucraina, i ministri degli Esteri e della Difesa, Andriy Sybiha e Roustem Umerov.

  • L’amministrazione Trump ha chiesto all’Internal revenue service, l’Irs che equivale alla nostra Agenzia delle Entrate, di revocare all’università di Harvard lo status fiscale agevolato. E ha minacciato di impedire all’ateneo di accogliere studenti internazionali. La mossa arriva dopo che Harvard ha rifiutato di conformarsi alla stretta dell’amministrazione Trump contro l’attivismo studentesco, e contro le politiche antidiscriminazione su diversità, equità e inclusione (Dei). «Sarebbe una decisione clamorosa, che potrebbe minare l’indipendenza delle istituzioni accademiche e la libertà di espressione» scrive Giuliana Ferraino.

  • L’alleanza tra la società SpaceX di Elon Musk, la Palantir del miliardario conservatore Peter Thiel e l’Anduril di Palmer Luckey è considerata la favorita per l’appalto per costruire lo scudo anti-missileGolden Dome «ordinato» da Donald Trump pochi giorni dopo il suo insediamento. Spiega tutto Guido Olimpio.

  • Google ha monopolizzato in modo scorretto le tecnologie per la pubblicità online. Lo ha sancito una giudice federale americana. La sentenza potrebbe ora aprire la strada ad una richiesta a Google di scorporare i suoi prodotti per la pubblicità. «Google ha deliberatamente intrapreso una serie di azioni anticoncorrenziali per acquisire e mantenere un potere monopolistico nei mercati dei server pubblicitari», ha affermato la giudice. Si tratta della seconda sentenza in pochi mesi contro la posizione di monopolio del gigante del web.

  • Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato dimesso dopo l’intervento per l’inserimento di un pacemaker al cuore e sta bene. I medici gli hanno prescritto alcuni farmaci, niente stress per una settimana e, in futuro, controlli periodici. Il 25 aprile parlerà alle celebrazioni per la Festa della Liberazione a Genova, città medaglia d’oro al valor militare, dove i partigiani riuscirono da soli a far arrendere i nazifascisti senza l’intervento delle forze alleate.

  • Tragedia sul monte Faito, a Castellammare di Stabia, dove ha ceduto il cavo di trazione della funiviache ha fatto precipitare nel vuoto una cabina oramai a un passo dalla vetta. Erano da poco passate le 15. Dopo la rottura non ha funzionato il freno di emergenza e il vagone è prima rotolato lungo un dirupo e poi si è schiantato contro un pilone. A bordo quattro turisti e l’operatore. La nebbia ha reso difficile il lavoro dei soccorritori che hanno recuperato quattro corpi senza vita e un ferito grave. Sospesa nel vuoto anche una cabina a valle, ma in questo caso i passeggeri sono stati salvati.

  • È ancora Portofino (Genova) il comune più ricco del Paese. Lo dicono le dichiarazioni dei redditi degli italiani. La città in cui risiede Pier Silvio Berlusconi vanta un reddito medio di oltre 94 mila euro. Milano all’ottavo posto.

  • L’assemblea degli azionisti del Monte dei Paschi di Siena ha approvato l’aumento di capitale al servizio dell’Offerta pubblica di scambio su Mediobanca con l’86,4%, con una quota forse al di là delle aspettative. «Più che pronti per nuova fase con Mediobanca», ha detto l’ad di Mps Luigi Lovaglio.

  • Forte vento, piogge violente e frane nel Nord Italia. È emergenza soprattutto in Piemonte, con allerta per fiumi Po, Dora e Sesia. A Torino sono stati chiusi quattro ponti e i Murazzi. Un anziano è annegato a Monteu da Po. Vento forte a Milano.

  • «Lui si spaccia per suo fratello, ma in verità, da quando è stato adottato, non l’ha mai vista fisicamente. Tra loro non c’è alcun rapporto». Così Giovanni Roffo, l’avvocato di Anna Lucia Cecerecommenta le affermazioni del fratello della donna sulla sua «cattiveria». Cecere, a 29 anni di distanza, è a processo con l’accusa di avere ucciso, il 6 maggio 1996 nello studio di Chiavari del commercialista Marco Soracco, la 25enne Nada Cella.

Da ascoltare

Nel podcast «Giorno per giorno», Gimmo Cuomo racconta l’incidente alla funivia del Monte Faito, a Castellammare di Stabia. Francesco Bertolino spiega le conseguenze della decisione della Banca centrale europea di ridurre al 2,25% il costo del denaro. Velia Alvich parla di quello che la madre di uno dei 14 figli di Elon Musk ha raccontato al «Wall Street Journal»: una vicenda utile a capire una parte della visione del mondo di Mr Tesla.

Da leggere

La Cinebussola di Paolo Baldini con le prime visioni al cinema e le novità delle piattaforme digitali: «Queer», «I peccatori», «Love», «Generazione romantica», «Drop – Accetta o rifiuta», «Guida pratica per insegnanti», «30 notti con il mio ex», Diamanti», «Una terapia di gruppo», «Captain America: Brave New World»

Grazie per aver letto Prima Ora, e buon venerdì

(Le mail della Redazione Digital: gmercuri@rcs.itlangelini@rcs.itetebano@rcs.itatrocino@rcs.it)

 

 

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giovedì 17 aprile 2025

Teniamoci l’Europa, il grido di Friedman, la strada stretta di Schlein, la rivincita del fossile, «I peccatori»

Teniamoci l'Europa, il grido di Friedman, la strada stretta di Schlein, la rivincita del fossile, «I peccatori»

editorialista

di   Alessandro Trocino

Bentrovati. Mentre Giorgia Meloni sta incontrando Donald Trump alla Casa Bianca, noi si parla di Unione europea, Occidente, Partito democratico, sostenibilità ambientale e vampiri.

L’Unione e la forza Che l’Unione europea finirà per fare la fine del vaso di coccio fra Stati Uniti e Cina è stato ripetuto tanto spesso da rischiare di diventare una profezia che si auto avvera. Anche per i detrattori dell’Ue, però, vale forse la massima: «Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo». Ce ne parla Luca.

Grido di dolore «Non ho mai avuto tanta paura per il futuro dell’America». Il grido di dolore di Thomas Friedman colpisce, spiega Gianluca, perché viene da un maestro mai, ma proprio mai incline ai toni da Cassandra.

La via stretta di Schlein Nel Pd è sempre l’era di manovratori, suggeritori, fustigatori, che dettano la linea alla segreteria. Elly Schlein deve destreggiarsi tra tra l’ala oltranzista del pacifismo radicale contiano (vedi Bettini) e la linea filo israeliana e filo von der Leyen della sua componente moderata. Muoversi in questa via stretta, tenendo insieme tutti, sarà il suo miracolo (o il suo fallimento).

Insostenibile I temi della sostenibilità sia ambientale sia sociale – dice Ferruccio de Bortoli in uno dei suoi «Frammenti» – sembrano decisamente passati di moda: nell’era di Trump sono tornate d’attualità le fonti fossili: non si è mai consumato tanto petrolio e tanto carbone come nel 2024.

La Cinebussola Paolo Baldini ci parla oggi del film «I peccatori». Basti per farsi un’idea questo passaggio: «Coogler traccheggia tarantineggia, gigioneggia tra vendette, segreti, metamorfosi, abbandoni dionisiaci ricordando Kill Bill e i nidi di vipere alla Twin Peaks».

Buona lettura!

Se vi va, scriveteci.

Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it
Luca Angelini langelini@rcs.it
Elena Tebano etebano@rcs.it
Alessandro Trocino atrocino@rcs.it

Rassegna euro-americana

E se il Vecchio Continente fosse (un po’) meglio del nuovo che avanza?

editorialista

Luca Angelini

Alzi la mano chi è pronto a scommettere che l’Unione europea saprà approfittare dell’uragano Trump su commerci e difesa e ne uscirà più solida, robusta, protetta e sicura di se stessa. La scommessa, lo ammettiamo, è azzardata. Ma non è un azzardo anche rassegnarsi al ruolo di predestinato vaso di coccio tra Stati Uniti e Cina, con magari la Russia come terzo incomodo? Davvero, nel mondo nuovo che avanza, l’Ue non avrà più nulla da dire? Un possibile antidoto contro la rassegnazione potrebbe essere la ricerca di «qualcosa di buono» che l’Europa potrebbe, volendo, proporre al mondo che verrà. Un esame di coscienza sui propri difetti, ma magari anche su qualche non trascurabile pregio.

È quel che ha fatto il corrispondente da Bruxelles dell’Economist, che per consolidata tradizione si firma Charlemagne (confessiamo che, prima ancora che il testo, ci ha colpito la vignetta che l’accompagna: una Statua della Libertà staccata dal suo piedistallo newyorkese e riportata in Europa). Il buon Carlo Magno mette subito il dito in una delle piaghe più purulente: «Il problema dell’Europa, sostengono i detrattori, è che è troppo regolamentata. Cumuli di burocrazia e tasse punitive fanno sì che in Francia o in Germania non ci siano imprese imprenditoriali da un trilione di dollari all’altezza di Amazon, Google o Tesla».

La battuta che circola in proposito – e che ama ad esempio ripetere l’ex ministro Giulio Tremonti – magari l’avrete già sentita anche voi: «L’America innova, la Cina copia, l’Europa fa dei regolamenti». Ora, a parte che ormai da anni non è più vero che la Cina copi soltanto e non è del tutto vero che la scarsa competitività dell’Ue dipenda soltanto dall’eccesso di norme («Il nodo della competitività europea risiede in una difficoltà strutturale a sviluppare e finanziare innovazione e investimenti su larga scala, causata dalla mancanza di un vero mercato unico dei capitali e dalla mancanza di un bilancio veramente corposo, autonomo, in grado di sostenere investimenti e affrontare sfide come la transizione ecologica», aveva scritto tempo fa sulla Stampa l’economista ed europarlamentare Irene Tinagli: e il piano Draghi da 800 miliardi di euro per rilanciare la competitività dell’Unione ne è una conferma), non è che regole e paletti, a Bruxelles, vengano messi soltanto per passatempo. E, infatti, Charlemagne aggiunge che i big di Big Tech come quelli citati sopra non sono l’unica cosa che manca all’Europa: «Sono assenti dal Continente anche i broligarchs (oligarchi affratellati, potremmo tradurre, ndr) che siedono in cima a questi colossi, alcuni dei quali hanno una presa più stretta sul potere che non sulla realtà. Non ci sono quindi Rasputin europei che versano milioni di euro in campagne politiche, che ottengono un posto d’onore alle cerimonie d’insediamento dei leader o che gestiscono propri dipartimenti governativi di fresca creazione. Ci sono pochi unicorni (startup non ancora quotate ma già valutate almeno un miliardo di dollari, ndr) in Europa, ahimè, e troppo poca innovazione. Detto questo, non ci sono per niente top manager tecnologici che si vantano sui social di passare i loro fine settimana a infilare pezzi di Stato “nella cippatrice, per farne segatura”» (copyright di Elon Musk).

Insomma, non c’è, da questa parte dell’Atlantico, il rischio di una «dittatura degli ingegneri» sulla quale, sulla scorta di un articolo di Franklin Foer sull’Atlantic, hanno messo in guardia, sul Corriere di oggi, padre Paolo Benanti e Sebastiano Maffettone: «L’idea di un eroe benevolente dotato quasi di poteri da super-eroe cattura le fantasie di molti perché rappresenta l’anti-politica per eccellenza. La politica democratica e il rispetto delle regole costituzionali sono un ostacolo per la realizzazione di progetti ispirati alla dittatura degli ingegneri di cui scrive Franklin Foer. Ed è questo il rischio maggiore dell’ingegneria sociale utopistica che, nella sua versione più radicale, rischia di diventare una dittatura sociale. E, anche se in questo caso è forse superfluo dirlo, il rischio che si corre non solo dove ci sono Trump e Musk ma dovunque un governo cerchi di bypassare le regole e il bilanciamento dei poteri costituzionali».

Altro punto dolente toccato da Charlemagne: «Il problema dell’Europa è che è indecisa, troppo lenta ad agire. Ogni crisi richiede molteplici vertici dei leader nazionali dell’Unione europea, che spesso litigano fino a tarda notte. I noiosi processi del governare attraverso il consenso possono rallentare l’Ue fin quasi alla paralisi: ci sono voluti quattro giorni e quattro notti di mercanteggiamenti per concordare l’ultimo bilancio settennale dell’Unione, nel 2020». Anche qui, però, c’è a suo avviso un lato non disprezzabile dell’«indecisionismo», se paragonato a quel che accade negli Usa: «L’apparato statale europeo non chiude arbitrariamente ogni pochi anni quando l’accordo politico sui finanziamenti diventa irraggiungibile, lasciando milioni di dipendenti pubblici in congedo temporaneo e servizi di base non disponibili per giorni o settimane (riferimento ai periodici shutdown negli Usa, ndr). La regola del consenso significa anche che i petulanti tweet programmatici di un politico malaccorto – dazi del 125% sulla Cina, gradite? – non fanno precipitare i mercati azionari globali. I vertici dell’Ue non sono eletti e talvolta non sono chiamati a rispondere. Tuttavia, non oserebbero farsi fotografare mentre giocano a golf dopo aver azzerato i risparmi di milioni di loro connazionali».

Charlemagne ne ha anche per la reprimenda del vicepresidente Usa J.D. Vance, alla Conferenza di Monaco, contro la presunta repressione del dissenso e delle voci scomode – per puro caso, di estrema destra – da parte dell’Europa: «Il problema dell’Europa è che non ha un attaccamento assolutistico alla libertà di parola. Si veda il modo in cui i giudici in Romania e in Francia hanno fatto deragliare le carriere dei politici di destra, che si sono convinti (con poche prove) che a metterli nei guai sia stata la loro ideologia e non invece il loro aver violato la legge. A molti europei l’idea che la libertà di espressione sia minacciata suona bizzarra. Gli europei possono dire quasi tutto quello che vogliono, sia in teoria che in pratica. Le università europee non sono mai diventate focolai di controllo del linguaggio da parte di una razza o di un’altra di guerrieri culturali. In qualsiasi campus europeo (almeno al di fuori dell’Ungheria) è possibile esprimere opinioni controverse senza temere di perdere la cattedra o la borsa di studio. Non ci sono centri di detenzione che attendano studenti stranieri con punti di vista discutibili su Gaza; le testate giornalistiche non vengono citate in giudizio per aver intervistato politici dell’opposizione. Gli studi legali non sono costretti a inchinarsi ai presidenti come penitenza per aver lavorato per i loro avversari politici» (qui l’analisi di Federico Fubini).

Tutto questo, l’abbiamo anticipato all’inizio, non vuol certo dire che, dalle nostre parti, «tutto va bene, madama la Marchesa». Charlemagne, che ha una conoscenza di prima mano di quel che accade nei corridoi di Bruxelles e Strasburgo, lo sa meglio di altri. Magari peccherà un po’ di eccessiva indulgenza, ma la sua conclusione può essere di conforto per chi pensa che una riscossa dell’Ue (improbabile, complessa e tardiva quanto si vuole) sarebbe comunque meglio di una resa: «Il problema dell’Europa è che è ingenua, l’unico blocco commerciale globale legato a norme morali. Insiste sul rispetto delle decisioni dell’Organizzazione mondiale del commercio, ad esempio, o sul fare la propria parte per ridurre le emissioni di carbonio. Non pretende che gli alleati vengano a strisciare da lei implorando “favori” sui dazi. Il problema dell’Europa è che è come un museo a cielo aperto, il continente del passato. Il suo modello è sostenibile? È una buona domanda, che presuppone che il modello europeo sia degno di essere difeso. È un luogo benedetto da città percorribili a piedi, da lunghe aspettative di vita e da bambini vaccinati che non hanno bisogno di essere addestrati a schivare gente che spara nelle scuole. Il regno del vostro Carlo Magno è un posto con molti difetti, molti dei quali duraturi. Ma, nel loro arrancante modo, gli europei hanno creato un luogo in cui sono garantiti diritti a cui altri anelano: vita, libertà e ricerca della felicità».

Rassegna americana

Il grido di dolore di Friedman, «mai così impaurito per il futuro dell’America»

editorialista

Gianluca Mercuri

Un vero conservatore, una persona di destra, ha certamente Ronald Reagan e Margaret Thatcher nel suo pantheon. Ce li ha per molti motivi, soprattutto se era giovane negli anni ’80 e ricorda bene la determinazione ferrea con cui asfaltarono tutti i nemici interni ed esterni. Ma visto che la gerontocrazia sovietica e la giunta argentina sono anticaglie per fortuna rimosse, ciò che di quei due giganti luccica ancora agli occhi di un conservatore è il pensiero puramente liberista, l’apparato teorico/dogmatico che prosciugò l’interventismo pubblico e preparò la globalizzazione.

Per questo oggi quel conservatore, passati quattro decenni mantenendo salde le sue convinzioni, resta allibito vedendo i suoi numi usati o dismessi a sorpresa. Vede da una parte il celebre discorso del 40° presidente americano contro il protezionismo postato su Facebook dall’ambasciata cinese a Washington: sì, Reagan ridotto a testimonial di Pechino mentre dice «vedete, all’inizio quando uno dice “imponiamo tariffe sui prodotti stranieri” sembra che stia facendo una cosa patriottica, e a volte per un po’ di tempo funziona, ma solo per un po’ di tempo…». Dall’altra, vede il suo successore, il presidente numero 45 e 47 che, dopo avere clamorosamente contraddetto Reagan sui dazi, seppellisce anche la lady di ferro britannica nell’annunciare che «rimetteremo i minatori di carbone al lavoro» per «riportare in auge un’industria che è stata abbandonata», ridotta chissà come mai da 70 a 40 mila addetti negli ultimi dieci anni, e pazienza se Maggie con la forza tirò fuori dalle viscere della terra i minatori inglesi, dolenti e nolenti ma di certo anacronistici.

Ecco, Thomas Friedman non cita né Reagan né Thatcher, ma sulla riapertura delle miniere annunciata da Trump in mezzo a un gruppo di lavoratori con l’elmetto costruisce uno dei suoi pezzi più dolorosi di questi anniun articolo che sembra fatto di carne e sangue tanto emana sofferenza, e che infatti ha un titolo terribile, «Non ho mai avuto così tanta paura per il futuro dell’America in vita mia», e detto da un giornalista che ha sempre fatto dell’ottimismo ragionato (e impareggiabilmente competente) la sua cifra, fa davvero impressione.

L’immagine surreale di un presidente, che mentre sfida il mondo con la guerra commerciale e i checks and balances della democrazia americana con i prodromi di uno stato di polizia, trova pure tempo e modo di firmare un ordine esecutivo per sostenere l’estrazione del carbone, deve essere sembrata a questo maestro di giornalismo la quintessenza del trumpismo 2.0 nella sua determinazione letteralmente eversiva di ogni aspetto della vita, della società e delle istituzioni.

Benissimo onorare «uomini e donne che lavorano con le mani», ma a parte il paradosso irridente secondo cui quegli uomini e quelle donne «sarebbero infelici se gli offrissero un attico sulla Fifth Avenue perché quello che amano è estrarre carbone» (sicuro?), che senso ha mettere nello stesso momento a repentaglio gli oltre 400 mila posti di lavoro nell’industria dell’energia eolica e solare? A Friedman, la contraddizione «suggerisce che Trump è intrappolato in un’ideologia di destra che non riconosce i posti di lavoro nella produzione verde come “veri” posti di lavoro».

Ma gli suggerisce anche una conclusione più drastica:

«L’intera amministrazione Trump II è una crudele farsa. Trump si è candidato per un altro mandato non perché avesse idea di come trasformare l’America per il XXI secolo. Si è candidato per non finire in galera e per vendicarsi di coloro che, con prove concrete, hanno cercato di farlo rispondere alla legge. Dubito che abbia mai trascorso cinque minuti a studiare la forza lavoro del futuro».

Che cos’altro potrebbe suggerire, d’altronde, la visione di un presidente che – altro che gli anni ’80 di Ron&Maggie: pare tornato ai ’70 – scatena guerre commerciali anche contro gli alleati e ha un segretario al Commercio convinto che milioni di americani stiano morendo dalla voglia di sostituire gli operai cinesi ad avvitare gli iPhone?

Non basta, purtroppo:

«Il mondo sta vedendo l’America di Trump esattamente per quello che sta diventando: uno Stato canaglia guidato da un uomo forte e impulsivo che non rispetta lo Stato di diritto e altri principi e valori costituzionali americani».

Le conseguenze pratiche di questa sconfessione dell’anima americana sono, in sequenza: sempre meno stranieri che comprano titoli americani, gli Stati Uniti che devono offrire interessi più alti e si indebitano sempre di più, il dollaro che si indebolisce, i mutui che aumentano. E poi: sempre meno stranieri che vogliono studiare o trasferirsi negli Usa, che certo è l’effetto voluto ma così di quanti talenti come lo Steve Jobs di padre siriano si priverà l’America?

«Se si riducono tutte queste cose – la nostra capacità di attrarre gli immigrati più energici e intraprendenti del mondo, che ci ha permesso di essere il centro mondiale dell’innovazione; il nostro potere di attirare una quota sproporzionata dei risparmi mondiali, che ci ha permesso di vivere al di sopra delle nostre possibilità per decenni; e la nostra reputazione di sostenere lo stato di diritto – col tempo si finisce per avere un’America meno prospera, meno rispettata e sempre più isolata».

E poi, la Cina.

Certo che nemmeno i cinesi hanno smesso di estrarre carbone, ma hanno programmato di smettere, usando nel frattempo robot al posto dei minatori. Intanto si sono portati avanti, in ogni senso, in settori meno otto-novecenteschi, cose come, oltre ai robot, energia pulita, batterie, veicoli elettrici e auto autonome, materiali nuovi, macchine utensili, droni, informatica quantistica e intelligenza artificiale. L’ultimo Nature Index mostra che la Cina è diventata «il Paese leader a livello globale per la produzione di ricerca nei database della chimica, delle scienze della terra e dell’ambiente e delle scienze fisiche, ed è seconda per le scienze biologiche e le scienze della salute».

Questo non significa che la Cina stia facendo solo cose giuste e Trump solo cose sbagliate. La Cina non può pensare di comprimere per sempre domanda e consumi interni (vedi Luca Angelini sulla Rassegna di ieri), inondare il mondo con i suoi prodotti sussidiati e fare da fabbrica unica di un pianeta svuotato e dipendente in tutto dal gigante asiatico: «Pechino deve riequilibrare la propria economia e Trump ha ragione a fare pressioni in tal senso. Ma le sue continue spacconate e la sua selvaggia imposizione di dazi a ripetizione non sono una strategia». La strategia sarebbe, dovrebbe essere premere sulla Cina perché stimoli consumi e servizi interni e costruisca la prossima generazione di fabbriche in America e in Europa con partnership al 50%.

«Dobbiamo incoraggiare la Cina a fare le scelte giuste. Ma almeno la Cina ha delle scelte», scrive Friedman, e sembra di sentirglielo urlare. La Cina ha scelte che le sono permesse dal motore economico che si è costruita, ma il segretario al Tesoro Scott Bessent dice di vederla giocare a poker con una coppia di due (il paragone pokeristico è stato già stroncato in questa Rassegna, Friedman aggiunge che se Bessent gioca così, «qualcuno mi faccia sapere quando è la serata del poker alla Casa Bianca, perché voglio partecipare»).

E Trump, che scelte si sta dando?
 Questo è il vero punctum dolens: «Sta minando il nostro sacro stato di diritto, sta gettando via i nostri alleati, sta minando il valore del dollaro e sta distruggendo ogni speranza di unità nazionale. Quindi, ditemi voi chi sta giocando con una coppia di due».

O la smette o distruggerà l’America, avverte questo maestro mai, ma proprio mai incline al ruolo di Cassandra. E questo dà più di tutto l’idea della situazione.

«Non ho mai avuto così tanta paura per il futuro dell’America in vita mia».

Rassegna politica
La strada stretta di Schlein
editorialista
Alessandro Trocino

L’era dei suggeritori esterni dovrebbe essere passata da un pezzo ma nel Partito democratico non tramonta mai e così anche stavolta c’è un’intervista di Goffredo Bettini che detta la linea e manovra il manovrabile. Operazione consueta, talvolta in raccordo, talvolta in dissonanza con altri manovratori più o meno occulti, come Dario Franceschini che, dal suo nuovo ufficio-officina, stringe i bulloni della segreteria. Poi c’è, appunto, la segretaria in carica in carne e ossa, Elly Schlein, che tesse pazientemente e convintamente la sua tela, mentre fuori infuria la battaglia, difendendosi con una contraerea misurata dal fuoco incessante, amico e nemico.

Quando si parla di Partito democratico, bisogna resistere alla tentazione autolesionista e massimalista del gioco al massacro, delle ironie gaglioffe, della derisione facile. E a quella, antitetica, dell’indulgenza plenaria, per ogni colpa ed errore, sull’altare della fisiologica predisposizione del riformismo a mediare e a cercare compromessi.

 

Bettini, dicevamo. La sua intervista al Fatto Quotidiano (si noti il giornale, che ha sostituito Repubblica come confessionale) ha fatto alzare più di un sopracciglio nel partito. Perché rafforza, e anzi sbilancia, la postura unionista della segretaria, che da qualche giorno sembra avere trovato una sintonia sorprendente, e per alcuni pericolosa, con il Movimento 5 Stelle e con la sinistra e i verdi di Avs su molti temi, compresa la questione di Gaza.

 

Bettini si esercita subito nel gioco prediletto dalle sinistre populiste e pacifiste, che un tempo era il terreno preferito delle destre: il tiro al piccione contro l’Europa. Considerata debole, pusillanime, evanescente. «Un’entità metafisica», l’ha definita sprezzantemente Lucio Caracciolo. Insomma, una sorta di ologramma. Bettini accusa l’Europa di una «incapacità totale di ritrovare uno sguardo strategico». Von der Leyen sarebbe affetta da un «vuoto di idee». Bettini – già demiurgo o mentore di Francesco Rutelli, Walter Veltroni, Ignazio Marino, Roberto Gualtieri e Nicola Zingaretti – da tempo sostiene Schlein nel suo sforzo «testardamente unitario» e, in un eccesso di agonismo, si spinge talvolta fino a sostenere Giuseppe Conte più del Pd stesso.

 

Il pacifismo è la carta più recente. Bettini trova «insopportabile la litania contro il pacifismo asservito a Putin. È un’idiozia bugiarda». Il motivo della guerra, sostiene, è stata la richiesta dell’Ucraina di entrare nella Nato. E dunque bisogna tenere conto di questa «fondamentale ragione». Bettini – che non ha certo perso acume e intelligenza politica – sa bene che «la pace sarà imperiale, a scapito dell’Ucraina», ma proprio per questo, dice, l’Europa dovrebbe essere attiva e non parlare solo di guerra. L’ex dalemiano (era nella sua segreteria nella Fgci) sostiene ancora la favola che «si vuole» (impersonale) «la vittoria finale sulla Russia». Chi la voleva? Qualche estremista isolato (come Boris Johnson). Per il resto l’idea era ed è di aiutare la resistenza ucraina a resistere, appunto, all’invasione russa, per trattare da posizioni più equilibrate e non lasciare campo libero a Putin che, altrimenti, non avrebbe avuto interesse a trattare su nulla.

Bettini sostiene che «si paventa un attacco del tutto irrealistico e paranoico di Mosca all’Europa. Quando si sa bene che la Russia a stento è in grado di difendere i suoi enormi confini, soprattutto in presenza di un ulteriore calo demografico che non gli permetterebbe di presidiarli». E certo, pensare che la Russia voglia invadere domani la Francia o l’Italia è grottesco, ma enfatizzare le posizioni in una discussione è uno strumento dialettico logoro e scorretto. Si estremizza per non prendere in considerazione quello che appare evidente, cioè la posa imperiale della Russia, che mira a riprendere sotto la sua sfera di influenza territori e Stati che facevano parte dell’Unione sovietica, fregandosene della libertà dei popoli e dell’autodeterminazione.

 

Ieri Kaja Kallas (odiatissima da Putin e da diversi opinionisti nostrani che la trovano «bellicista»), Alto Rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea, ha spiegato a Repubblica: «Posso darvi un elenco di Paesi che Putin ha attaccato e nessuno di questi ha mai aggredito la Russia. Da nord a sud: Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Georgia, Ucraina, Cecenia, Siria, Afghanistan. L’elenco è lungo». Da estone, sente naturalmente il pericolo più vicino, e l’elenco ricorda anche episodi storici preputiniani ma è indubitabile la postura neoimperialista dello Zar (così come quella di Trump che, per ora, si limita verbalmente a «chiedere» nuovi territori, dalla Groenlandia al Canada).

 

Nella sua furia iconoclasta, Bettini demolisce l’Occidente e la sua arroganza: «Oggi dovrebbe essere chiaro a tutti che si è esaurita la fase della globalizzazione, con un Occidente descritto unito e buono contro il resto del mondo incivile e barbaro: il delirio occidentalista che molto amava Oriana Fallaci e fonte di tante tragedie». Massimo Cacciari, che dalle sue posizioni di sinistra filosofica e razionale di un tempo sembra aver scarrellato su un nichilismo perennemente indignato, in un’intervista alla Stampa dice che «Trump ha ragione, l’Europa è un fallimento». Senza farci mancare il suo celebre «ma di che cosa stiamo parlando?», spiega che l’Europa è decaduta per colpa di leader come von der Leyen. Di Trump «fa schifo la retorica populista», dice, «ma non è quello che conta». Contano i rapporti di forza.

 

E va bene, non si vuole certo qui fare le «anime belle».  Dovrebbe contare anche altro, forse. Perché altrimenti il realismo diventa cinismo, diventa adeguarsi a una realtà da far west. È certamente sbagliata la pretesa morale di superiorità dell’Occidente, ma anche l’autoflagellazione pare un tantino eccessiva. In un momento in cui vengono messi in discussione, forse vale la pena difenderli quei valori occidentali che stentano da altre parti: democrazia, libertà sindacali e di opinione, difesa dei diritti civili, lotta ai privilegi e alle diseguaglianze, tutela delle minoranza. Valori che non si sono sempre  concretizzati nella realtà, ma che dovrebbero essere almeno rivendicati come principi (senza dimenticare gli errori e gli orrori che l’Occidente ha prodotto in passato). Altrimenti si rischia di cadere nell’eccesso opposto, il delirio anti-occidentalista.

 

Bettini vorrebbe un atteggiamento di apertura verso i miliardi di persone che sono emerse dall’oscurità della storia con la globalizzazione: «Occorre farci i conti. Trump ha tirato i remi in barca. La Russia è in piedi. La Cina ancora di più». Verissimo, anche se messa così, sembra lievemente indulgente verso quei regimi (non i popoli), dittature o autocrazie, vere o aspiranti. Bettini si indigna in particolare per l’avversione contro Pechino: «Fa rabbia leggere, sulla risoluzione per la sicurezza che “c’è un’ambizione da parte della Cina di diventare una superpotenza globale erodendo l’ordine internazionale basato sulle regole…”.Anche la Cina vogliamo nemica».

In realtà, è Trump che considera la Cina un nemico mortale. L’Europa molto meno. Ma un pragmatismo non immorale dovrebbe saper distinguere tra una collaborazione economica globale (abbiamo in atto un partenariato con Pechino, firmato da Meloni) e una cautela necessaria verso forme di deregulation dell’ordine internazionale, che portano con sé possibili contagi autoritari e imperialisti. Ma Bettini il cinese si spinge più avanti negli encomi a Pechino: «La Cina è uno Stato che non ha mai bombardato oltre i propri confini». Una parola sulle disfunzioni, chiamiamole così, della «democrazia» cinese non avrebbe guastato.

 

Poi si arriva alla pace e alle lodi a Schlein, «accorta, sobria, ma tenace nel tenere il dissenso sulle scelte di von der Leyen». Senza la sua fermezza, «probabilmente il Pd sarebbe esploso». A questo punto, Bettini mette via per un attimo il pluralismo, che non serve più: «Su un tema cruciale come la pace e la guerra un partito non può vivere nella mediazione continua. Ad un certo punto occorre decidere nel modo più unitario possibile». Cioè scegliere il pacifismo radicale di Conte e non seguire «i socialisti europei, investiti da un ripiegamento nazionalistico».

 

Segue un’alata riflessione su quanto sia brutta e non desiderabile la guerra, ma anche una citazione illuminante sul pacifismo storico della sinistra, a partire da Palmiro TogliattiCarlo Calenda ha gioco facile nel replicare: «Bettini resuscita il pacifismo togliattiano a senso unico, per l’Unione sovietica, il comunismo antioccidentale e antieuropeo come via per il Conte Ter».

 

L’intervista ha suscitato sconcerto soprattutto nell’ala più moderata, su questi temi, del Pd. Qualcuno non ha gradito il fastidio esibito per il dissenso interno, come se fosse un invito a Schlein a intervenire per tacitarlo. Linkiesta contesta «l’irrilevanza» del Pd. Mario Lavia parla di partito unico Pd-Avs-M5s. Francesco Cundari conferma «la convergenza del Pd sulle posizioni dei due alleati: dalla difesa europea, su cui il Pd si è isolato rispetto all’intero Partito del socialismo europeo, ai referendum contro il Jobs Act», fino all’Ucraina e a Gaza. «L’impressione – scrive Cundari – è che il Pd, almeno finora principale partito dell’opposizione, abbia subito nel corso del tempo una sorta di auto-declassamento, e anche per questo sia ormai del tutto incapace di esercitare non dico un’egemonia, ma neanche la benché minima funzione di direzione politica».

 

Può darsi che sia così, anche se si sconta anche una posizione finalmente ferma e unitaria sul massacro di Gaza, che non dimentica gli ostaggi nelle mani di Hamas, ma dice nero su bianco che quello che accade non è tollerabile e il silenzio dei governi ancor meno. L’ala moderata del partito, non a caso, è confluita in massa in una conferenza nella quale Piero Fassino ha definito «fatali» le vittime civili, colpite dalle bombe israeliane.

 

Come si diceva all’inizio – bisogna diffidare da letture eccessivamente denigratorie o catastrofiste, così come da quelle ireniche e giustificazioniste. Il Pd ha perso l’aggancio al centro, nel senso di Azione, che ha preso posizioni che vanno oltre l’equidistanza e ammiccano alla destra meloniana. Non può perdere, naturalmente, la sua componente moderata interna. Ma neanche rinunciare a una sua linea. Schlein è stata eletta su posizioni più radicali e di sinistra rispetto a Enrico Letta. La sua leadership si giocherà su questo equilibrio difficile. Sul mantenere un’anima di sinistra, senza rinnegare il pluralismo interno, ma rivendicando un forte grado di europeismo, che è nel dna della sinistra riformista del Pd. Non rinnegare le istanze pacifiste, condivise da larga parte della popolazione, senza scadere nel cinismo e nell’apologia delle autocrazie. D’altra parte, dovrebbe rinnovare la necessità di trovare uno schieramento ampio, senza il quale le elezioni si perdono, senza cadere nella trappola della subalternità a Conte, che sancirebbe una perdita catastrofica di credibilità del Pd.

 

Frammenti
L’inatteso crollo dell’attenzione alla sostenibilità
editorialista
Ferruccio de Bortoli

Sono diversi i segnali di un serio rallentamento, che qualche volta è addirittura una marcia indietro, sui temi della sostenibilità sia ambientale sia sociale. Sembrano decisamente passati di moda ma non sono – o almeno non dovrebbero essere – una moda. Nessuno difende più il Green Deal europeo, che avrà mille difetti da correggere ma non si propone traguardi tanto scandalosi.

 

Nell’era di Trump vi è un costante rilancio delle fonti fossili che era illusorio pensare si potessero abbandonare in fretta per passare all’eolico o al solareNon si è mai consumato tanto petrolio e tanto carbone come nel 2024. Nei giorni scorsi, sia da parte dell’Eni sia dell’Enel si è messa in discussione la chiusura programmata delle centrali a carbone in Italia. In altri momenti vi sarebbe stata qualche polemica. Oggi nulla. Del resto la Sardegna, governata dal centrosinistra, si tiene stretta la sua vocazione carbonifera, moltiplicando l’avversione alle rinnovabili. In alcuni documenti societari, specie di chi ha interessi con gli Stati Uniti, l’acronimo Esg (Environmental, social and governance) è stato sostituito con espressioni più morbide. Non si sa mai. Fino a poco tempo fa era irrinunciabile in qualsiasi documento pubblico.

 

Grandi personaggi della finanza internazionale, onusti di bonus anche per via del loro credo sostenibile, inorridivano all’idea che si investisse ancora nei fossili o che venissero meno gli obiettivi di parità e inclusione. Non ci credevano molto. Ma il pubblico che ne pensa? Colpisce una ricerca appena realizzata da Eumetra, che scandaglia gli umori della popolazione sulle relazioni sociali, le preferenze nei consumi, il rispetto delle regole, la percezione del proprio benessere. «Mai avevo visto nella mia lunga carriera di sociologo e ricercatore – confessa Remo Lucchi, fondatore di Eumetra – un crollo di attenzione come quello che registriamo sul tema della sostenibilità. In un solo anno, nella scala delle priorità personali, si è semplicemente dimezzata. Uno spostamento persino violento. Soprattutto in quei gruppi che esercitano un’influenza sociale più elevata di altri. Un esempio su tutti: solo il 20 per cento è ancora favorevole a perseguire obiettivi di inclusione nelle aziende e nella società».

 

La Cinebussola
«I peccatori», la dannata notte dei vampiri
editorialista
Paolo Baldini

I vampiri di Clarksdale, nello stato del Mississippi, ballano e cantano allegre canzoni irlandesi. Temono, secondo tradizione, aglio, croci, paletti nel cuore e, naturalmente, la luce del sole. Azzannano, svolazzano e mordono, creando un mortifero contagio. Sembrano zombie, portano magliette insanguinate, hanno gli occhi come tizzoni ardenti. Predicano amore e unione, liberando i canini per succhiare e dilaniare. Con I peccatori, Ryan Coogler (regista di Black Panther e Creed) compie il salto di qualità inventando l’horror intertemporale, erotico, solidaristico: tutti uniti contro il demonio (e le discriminazioni razziali).
Lo sguardo va al dantesco Dal tramonto all’alba di Robert Rodriguez e, più lontano, a La notte dei morti viventi di George A. Romero (1968). Coogler usa lo schema western assedio-resistenza, la musica come elemento connettore e la coda del diavolo come benzina immaginifica.

Siamo nel 1932, negli Stati Uniti del Ku Klux Klan e di Jim Crow, figura leggendaria e simbolo della segregazione. Le piantagioni sono ancora il regno dello sfruttamento, la magia nera è pane quotidiano e il blues la musica più amata. Dalla Chicago del Proibizionismo e delle gangster story tornano i gemelli Elijah ed Elias Smoke (entrambi interpretati da Michael B. Jordan). Dopo aver fatto i soldi al seguito di Al Capone, vorrebbero aprire una juke joint, ossia un locale gestito frequentato soltanto da neri. Per questo, acquistano a peso d’oro da un riluttante razzista-primatista un enorme magazzino per il legno da tempo dismesso, riuniscono la parte colored della comunità e organizzano un’inaugurazione in grande stile.
I gemelli Smoke fuggono dal male, hanno attraversato l’inferno delle gang convinti di potersela cavare, ma dentro la loro testa corre un’antica premonizione: «Se continui a ballare con il diavolo, un giorno il diavolo ti seguirà fino a casa». Decisivo è l’incontro con il giovane Sammy Moore, figlio del pastore protestante nonché virtuoso della chitarra. Sarà lui, Sammy, detto priest boy per il padre prete, l’attrazione della festa insieme all’anziano musicista Delta Slim (Delroy Lindo).

Il sabba liberatorio esplode: come in un sogno dionisiaco, sulla pista arrivano rockstar vestite come ai giorni nostri, sacerdoti tribali e improbabili catafalchi mascherati. Elijah ed Elias ritrovano due vecchi amori: l’esperta di vudù Annie (Wunmi Musaku) e la sexy meticcia Mary (la cantante Hailee Steinfeld). Ma alla porta bussa l’inquietante Remmick (Jack O’Connell), uno zombie canterino inseguito da bande di nativi che gli danno la caccia conoscendone la portata demoniaca. Le «entità» si moltiplicano, il deposito diventa una polveriera: i non-morti muoiono, risorgono e attaccano.
La dannata notte dei vampiri non può che finire male, anche perché nulla sembra poter fermare le creature. Come questo avvenga, ed è il cuore del film, lo lasciamo alla visione degli spettatori. Basti ricordare che la trama arriva fino al 1992 e i vampiri sono ancora in circolazione. Coogler traccheggia tarantineggia, gigioneggia tra vendette, segreti, metamorfosi, abbandoni dionisiaci ricordando Kill Bill e i nidi di vipere alla Twin Peaks.

Procede per accumulo di suggestioni e input, cerca il circo Barnum e trova almeno due pezzi di cinema da ricordare: 1) il gran ballo nel magazzino maledetto e 2) l’avanzata dei non-morti durante l’assalto definitivo, che ricorda, con altro umore, la marcia dei barboni di Miracolo a MilanoLa ricerca spasmodica del brivido brrr, della spettacolarizzazione compiaciuta e l’inevitabile retorica dello zombie qua e là distraggono Coogler, che però riesce a tenere in pugno la storia anche nelle sequenze più spigolose e splatter, quando il film assume una dimensione lunare, funesta, spaesata. Da fumetto cimiteriale. Parlando degli attori, vanno apprezzate le acrobazie a cui è costretto Michael B. Jordan, alle prese – come De Niro di The Alto Kinghts – con un doppio ruolo, ben sostenuto dalle eccellenti Hailee Steinfeld e Wunmi Musaku, i due poli della sensualità.

I PECCATORI di Ryan Coogler
(Usa, 2025, durata 131’, Warner Bros. Pictures)

con Michael B. Jordan, Hailee Stainfeld, Jack O’Connell, Wunmi Mosaku, Delroy Lindo, Lola Kirke
Giudizio: 3 ½ su 5
Nelle sale