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sabato 19 aprile 2025
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L’ultimatum di Trump sull’Ucraina, Vance da Meloni, i morti per il maltempo, il Risiko bancario
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Il ponte crollato che ha causato la morte di due persone nel Vicentino
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di Luca Angelini
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Al fatto che non sarebbero bastate 24 ore per far terminare il conflitto in Ucraina, Donald Trump si era rassegnato. Ma, a quanto pare, non vuole rassegnarsi all’idea che ci vogliano settimane o mesi per un cessate il fuoco e magari anni per un trattato di pace (sempre che ci si arrivi e non si congeli il tutto in una situazione stile Cipro o due Coree). Facendo eco a quanto già anticipato dal segretario di Stato, Marco Rubio («Se non sarà possibile raggiungere la tregua, allora ci sfileremo, gli Stati Uniti hanno altre priorità»), ieri il presidente americano ha scandito: «Se per una ragione o per l’altra, una delle due parti rende le cose molto difficili, noi diremo semplicemente: siete degli stupidi, degli imbecilli, siete persone tremende. E passeremo a occuparci di altre cose. Ma spero che non arriveremo a questo punto. I negoziati sono ora al culmine».
«Se non è un ultimatum, poco ci manca», scrive da Washington Giuseppe Sarcina. Ma aggiunge che il messaggio è ambivalente e potrebbe anche indicare che una svolta è vicina. «Non è una questione di settimane e di mesi, non siamo disponibili ad andare avanti per troppo. È una questione di giorni», ha detto ancora Rubio, lasciando il vertice dei «volenterosi» organizzato a Parigi da Emmanuel Macron. E il vicepresidente J.D. Vance, da ieri a Roma – dove ha incontrato anche la premier, Giorgia Meloni – ha corroborato la versione ottimistica delle parole di Trump: «Non voglio anticipare nulla, ma sono davvero fiducioso sullo stato di avanzamento delle trattative in corso».
Uno stato di avanzamento che Rubio avrebbe illustrato a Parigi ai «volenterosi» e al segretario generale della Nato, Mark Rutte. E che, spiega ancora Sarcina, prevederebbe uno schema in tre punti: «Primo: i russi potranno tenersi i territori occupati con la forza, compresa naturalmente la Crimea. Secondo: i Paesi occidentali allenteranno le sanzioni contro la Russia, una volta verificata la tenuta del cessate il fuoco. Terzo: viene cancellata la prospettiva di un ingresso dell’Ucraina nella Nato». Un piano, in tutta evidenza, molto favorevole ai russi, che i russi potrebbero però continuare a ritenere non favorevole abbastanza.
Perciò, anche se Kiev contesta, comprensibilmente, le amputazioni territoriali e l’assenza di garanzie di sicurezza contro eventuali futuri attacchi di Mosca, «i negoziatori americani si sarebbero resi conto che il vero ostacolo per la trattativa è Putin. Il leader russo non vuole solo i territori che ha invaso finora, ma le intere regioni sotto attacco (quelle di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia). Una larga striscia pari al 22% della superficie ucraina. Probabilmente a Washington non intendono rimanere prigionieri di una trappola politica. La diplomazia Usa farà ancora qualche tentativo. Dopodiché potrebbe lasciare il campo agli europei, come per altro ha già cominciato a fare, cedendo la guida della “coalizione dei volenterosi” all’asse franco-britannico. Resta anche da capire se gli Stati Uniti continuerebbero a fornire armi a Zelensky ed eventualmente in quale misura». Per ottenere garanzie almeno su quest’ultimo punto, gli ucraini dovrebbero firmare l’accordo sullo sfruttamento dei minerali critici tra giovedì 24 e sabato 26 aprile.
Da Mosca, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, pur confermando a parole l’apertura al dialogo, ha aggiunto: «Ci sono già alcuni sviluppi, ma ci attendono molte discussioni difficili». «Come dire, mettetevi tutti comodi – scrive Marta Serafini -. E per rendere meglio l’idea ha fatto sapere che nonostante sia scaduto il termine di 30 giorni di tregua per gli attacchi ai siti energetici il presidente russo Vladimir Putin non ha dato nessun ordine di rinnovarla. Tradotto, a Mosca non solo non hanno fretta. Ma sanno di poter ottenere di più, soprattutto sul fronte delle sanzioni e dei rapporti commerciali». (Qui l’approfondimento di Marco Imarisio sul gioco di adulazioni e rinvii che Putin sta tentando con Trump)
L’incontro Vance-Meloni
All’indomani dell’incontro di Giorgia Meloni con Donald Trump (che in un tweet l’ha ribattezzata “Georgia”) e dopo quello del faccia a faccia con J.D. Vance, appare sempre più chiaro che anche l’intesa fra Roma e Washington ruota attorno a tre punti. Maurizio Caprara li riassume così: «L’incontro alla Casa Bianca ha impegnato in sostanza il nostro Paese a: 1) spendere negli Stati Uniti fondi per la difesa dei quali Trump chiede agli alleati l’aumento, 2) agire per togliere ostacoli ai colossi americani mentre l’Unione europea deve varare norme sulle compagnie tecnologiche, 3) aumentare le importazioni di gas liquefatto e di sistemi statunitensi di intelligenza artificiale. Non solo. Assodata la rinuncia alla Via della Seta cinese, l’Italia coopererà con gli Stati Uniti sui “progetti infrastrutturali” della via alternativa che dall’India dovrebbe passare per Golfo, Israele e, attraversato anche il nostro territorio, proiettarsi verso l’America. Non erano messaggi scontati, non è detto che lasceranno indifferenti i partner europei». (Qui le reazioni politiche in Italia)
Quanto al summit a Roma per sancire – si spera – la pace fra Usa e Ue sui dazi (qui l’editoriale di Carlo Cottarelli sui motivi che la rendono possibile e qui l’intervista di Giuliana Ferraino a Michael Froman, presidente del Council on Foreign Relations, un po’ più scettico), potrebbe tenersi a fine giugno (Trump sarà all’Aia il 24 e 25, per un vertice Nato), anche se gli europei – e Meloni in primis, come spiega Francesco Verderami nel suo retroscena – spererebbero prima. Ieri la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha avuto una «buona telefonata» con Meloni. Lo ha riferito una portavoce della Commissione europea spiegando che la premier ha informato la presidente sull’incontro di giovedì alla Casa Bianca con Trump. Si erano, del resto, sentite anche martedì sera per «coordinare» la visita. «La missione di Meloni a Washington, a quanto si apprende a Bruxelles, ha trasmesso sensazioni positive tra i vertici della Commissione europea – segnala Francesca Basso -. L’incontro alla Casa Bianca, spiegano le stesse fonti, è stata “un’occasione utile per creare ulteriori ponti” con l’amministrazione Trump “nel rispetto dei diversi ruoli, come già affermato dalla stessa Meloni”».
L’idea di invitare Trump a Roma non è stata una novità per Bruxelles, la premier l’aveva menzionata a von der Leyen già nei giorni scorsi. Un possibile vertice Ue-Usa è visto positivamente ma la competenza dell’organizzazione di un summit di questo tipo spetta al presidente del Consiglio europeo António Costa. (Qui il racconto di Fabrizio Roncone della «vacanza romana» di Vance; qui la Nota di Massimo Franco e qui un articolo di Greta Privitera sulla conversione al cattolicesimo di vice di Trump)
Che un’intesa con gli Usa sia urgente, lo dicono anche i dati sottolineati ieri da Confindustria: «Il Pil italiano è atteso in crescita modesta nel 1° trimestre 2025: i servizi frenano e l’industria rallenta il calo. Prosegue il taglio dei tassi, ma l’ondata di incertezza generata per i continui annunci sui dazi e i dazi stessi frenano scambi e decisioni di spesa e investimento. Unico effetto collaterale positivo: scende il costo dell’energia. A destare inquietudine è anche l’andamento delle esportazioni italiane: a febbraio continuano a crescere su base mensile del 3,5%, ma rispetto allo stesso periodo del 2024 il dato dell’export verso gli Stati Uniti segna una flessione del 9,6%.
Non rassicura di certo economisti e investitori l’escalation di attacchi della Casa Bianca al governatore della Federal Reserve, Jerome Powell. Kevin Hassett, consigliere economico di Trump, ha detto ieri ai giornalisti che «il presidente e il suo team stanno studiando come licenziare Jerome Powell». Colpevole di aver bollato così la manovra sui dazi voluta da Trump: «Una cosa mai vista prima che rischia di riaccendere l’inflazione e rallentare la crescita economica». Anche per questo Powell ritiene che, a dispetto delle pressioni della Casa Bianca in tal senso, non sia il momento di tagliare i tassi di interesse. E ha già fatto sapere che intende rimanere al suo posto fino alla scadenza del mandato, nel maggio del 2026 e che «la legge impedisce la rimozione dei governatori della banca centrale». «La mossa del presidente americano – sottolinea Giuseppe Sarcina – non avrebbe precedenti e segnerebbe una chiara violazione dell’indipendenza della Fed. Ma potrebbe avere anche un impatto traumatico sui mercati finanziari. Anche per questo il segretario al Tesoro, Scott Bessent, come riferisce il New York Times, starebbe cercando di frenare la furia trumpiana».
Morti e danni per il maltempo
È finita in tragedia l’ondata di maltempo che giovedì ha flagellato la provincia di Vicenza, tra i Comuni di Recoaro Terme, Valdagno, Cornedo Vicentino, Arzignano, Brogliano e Trissino (oltre 100 millimetri d’acqua in poche ore, con picchi di 134 a Valli del Pasubio, 191 a Staro e 200 a Recoaro). Nel fiume Agno, a Valdagno, sono morti l’imprenditore Leone Nardon, 64 anni, e il figlio Francesco di 21, che lavorava nell’azienda del padre. Probabilmente per andare a vedere la piena (una delle loro aziende aveva sviluppato da poco un sistema di monitoraggio ambientale e strutturale per prevenire i disastri ambientali), intorno alle 20 di giovedì i due nel rientrare a casa in auto hanno deviato dal percorso abituale, per percorrere via Terragli a Ponte dei Nori, frazione di Valdagno. In quel momento la furia dell’acqua ha fatto crollare il vecchio ponte, aprendo una voragine sulla rotonda attigua che ha inghiottito anche la Fiat Ulysse dei due.
Frane, allagamenti, paesi isolati, evacuazioni hanno messo in ginocchio anche altre zone. In Toscana, le piogge torrenziali della notte hanno provocato decine di smottamenti in Versilia, nei comuni delle province di Massa-Carrara e di Lucca. «Solo in provincia di Lucca ci sono oltre 1.500 persone isolate — ha detto il presidente della Regione, Eugenio Giani —. Abbiamo provveduto a dichiarare lo stato d’emergenza regionale che ci permetterà di coprire con 3 milioni di euro le somme urgenze nei singoli comuni. Frane anche in Valle d’Aosta dove è stata chiusa la galleria Les Toules sulla A21 Gran San Bernardo e, nonostante l’energia elettrica sia stata ripristinata nella Valdigne, da Courmayeur e La Thuile, sono ancora 3.260 le utenze che ne sono prive. In Piemonte, che conta ancora 75 sfollati, le frane registrate sono almeno 500 e nel corso di una giunta straordinaria sono stati stanziati 5 milioni di euro per gli interventi. In Lombardia, a preoccupare, sono invece i fiumi ingrossati. A Pavia il Ticino è esondato in via Milazzo, che si affaccia sul fiume, e una decina di famiglie sono state soccorse dai vigili del fuoco e trasportate con i gommoni in zone più sicure. Ma a preoccupare è anche il Po, ormai giunto a livelli critici. Per il transito della piena del fiume nelle pianure piacentine e parmensi, in Emilia-Romagna, l’allerta rossa prosegue anche per oggi ma, per fortuna, non sono previsti fenomeni meteorologici significativi.
Il Risiko bancario
Sul via libera (condizionato) all’Offerta pubblica di scambio di Unicredit per Banco Bpm (i paletti riguarderebbero le sedi e il perimetro per un’eventuale cessione di sportelli; più sfumati gli interventi riguardanti il personale e gli equilibri della governance) sono emerse nel governo due linee di pensiero diverse, che nemmeno un incontro a quattr’occhi, con la mediazione della premier Giorgia Meloni è riuscito a far collimare fino in fondo. Forza Italia mantiene riserve sull’esercizio dei poteri speciali del governo (golden power). Dopo un incontro con Meloni e il titolare dei conti pubblici Giancarlo Giorgetti, il vicepremier e segretario di Forza Italia Antonio Tajani a sua volta ha posto dei paletti. «Uno tecnico – spiega Mario Sensini – recepito nel compromesso finale raggiunto dal Consiglio dei ministri ieri sera, un altro, più rilevante, politico. Sul piano operativo Forza Italia ha chiesto, e avrebbe ottenuto, di concedere maggiore tempo a Unicredit per smobilitare le attività in Russia. (…) Al di là di questo passaggio tecnico, pur senza bloccare il provvedimento, Tajani ha posto un problema politico non irrilevante. “Forza Italia è a favore del libero mercato e contro il dirigismo” ha detto il vicepremier, riferiscono i suoi, nel corso del confronto con la presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia. Ed ha preteso che a verbale della decisone assunta ieri dal governo fosse comunque evidenziata una riserva della delegazione di Forza Italia nell’esecutivo. “I poteri speciali, il golden power, entrano in gioco quando ci sono interessi strategici nazionali da difendere, che qui non sono evidenti“, spiegano fonti del partito».
Le altre notizie
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È la nostra civiltà a impedirci di voltare le spalle, di restare indifferenti, di smarrire quel sentimento di umanità che è radice dei nostri valori». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha commemorato ieri le centinaia di migranti che dieci anni fa persero la vita nel Canale di Sicilia. Il capo dello Stato ha dato una scossa alle coscienze, anche dei politici, pure di quelli europei. «
I movimenti migratori vanno governati e l’Unione europea deve esprimere il massimo impegno in questo senso», ha detto infatti Mattarella, aggiungendo poi: «Il necessario contrasto all’illegalità, la lotta alla criminalità, si nutrono della predisposizione di canali e modalità di immigrazione legali che, con coerenza, esprimano rispetto nei confronti della vita umana». E ancora: «Nel fare memoria rinnoviamo l’apprezzamento per l’opera di soccorso da parte delle navi italiane che sono riuscite, in condizioni estreme, a salvare vite, rispettando quanto impone la legge del mare».
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Era ai domiciliari, a Udine, con l’obbligo del braccialetto elettronico. Ma questo non ha impedito a Mohamed Naceur Saadi di uccidere la ex moglie Samia Bent Rejab Kedim
, 46 anni, accoltellandola più volte. L’uomo aveva due permessi settimanali per uscire. “Il problema riguarda il permesso di allontanarsi due ore – ha detto il procuratore Mario Lia -, non era coperto con quel tipo di braccialetto». L’allarme, perciò, è scattato quando il delitto era già avvenuto. Per il magistrato sarebbe stato «meglio lasciarlo in carcere».
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Quattro ergastoli e una condanna a 22 anni: Saman Abbas è stata uccisa a Novellara da tutta la famiglia. La Corte d’Assise d’Appello di Bologna ha confermato l’ergastolo per i genitori, il padre Shabbar Abbas e la madre Nazia Shaheen, ha inflitto l’ergastolo ai due cugini Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz, e ha rideterminato la pena per lo zio Danish Hasnain da 14 a 22 anni. Riconosciute anche le aggravanti di premeditazione e futili motivi.
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Carmela Fiorella, moglie dell’ex capogruppo del Pd nel consiglio regionale pugliese, Filippo Caracciolo, ha autocertificato un titolo di studi per un altro, “taroccando” la pergamena di laurea e dichiarandosi laureata in una disciplina che le ha permesso poi di partecipare al concorso di Aeroporti di Puglia. Una contraffazione che le ha consentito di ottenere l’incarico di responsabile delle risorse umane di Adp, ottenendo così un contratto da 80 mila euro all’anno. È quanto emerso dagli approfondimenti interni condotti dall’ateneo di Bari: Fiorella ha conseguito sì un titolo di studi magistrale, ma in Scienze dell’amministrazione, non in Economia e Management come invece indicato sulla pergamena depositata per poter partecipare al concorso. «Chiedo scusa a tutti, sono stata accecata dall’ambizione» ha scritto in una nota.
Da leggere
L’inchiesta di Gian Antonio Stella sull’usura. Secondo l’Ufficio studi Cgia di Mestre, sarebbero 118 mila le imprese italiane a rischio di “strozzinaggio”.
L’intervista di Margherita De Bac al ministro della Salute, Orazio Schillaci, che nega ci sia una guerra con le Regioni sulle liste d’attesa.
La riflessione di Aldo Cazzullo sul Venerdì Santo e su “una Pasqua particolare, con un Papa convalescente eppure salvo, vivo, quasi rinato”.
L’intervento di Elio Franzini “Università, un tagliando necessario”.
Il corsivo di Giovanni Caprara: “Ricerca e satelliti: anche l’Africa cerca spazio”.
La rubrica di Paolo Lepri, dedicata all’oppositore russo in carcere Sergey Karelin.
Grazie per aver letto Prima Ora, buona Pasqua e buona Pasquetta (questa newsletter ritorna martedì 22)
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venerdì 18 aprile 2025
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Diritti per tutte, Modotti e le altre, il processo a Gesù, cosa ci insegna Rothko, l’essenza della Tv, padri e figli al cinema, passateci Neil Young, la playlist |
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di Gianluca Mercuri
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Bentrovati. Donne negate e autoaffermate, la terribile storia del Venerdì Santo, quadri che ci fanno da specchi, Tv e cinema da vedere, musica eterna e anche no. È il menu del vostro weekend:
Diritti per tutte Dopo la sentenza britannica sulle donne transgender, Giuliano Ferrara plaude al «coraggio» delle femministe no-gender che l’hanno ottenuta. Ma avverte che se si limita il diritto all’autorealizzazione delle persone trans bisogna accettare di limitare anche quello delle donne. Dovrebbe essere un monito, scrive Elena.
Tina Modotti e le altre Il giornalismo, come quasi tutto, per le donne è stato una conquista. Che è cominciata prima di quanto pensiamo. Valeria Palumbo (una di noi per i lettori della Rassegna) la racconta nel suo nuovo libro, edito da Laterza, La voce delle donne. Pioniere e ispiratrici del giornalismo italiano. Ne pubblichiamo qui alcuni estratti dedicati in particolare alle fotoreporter come Tina Modotti (sopra, uno dei suoi capolavori, Miseria per le strade di Città del Messico, 1928).
Il processo a Gesù Nell’aprile dell’anno 30, a Gerusalemme, Yehoshua ben Yosef – Gesù di Nazareth – venne processato e ucciso: ma di che cosa fu ritenuto colpevole? E a quale dei quattro evangelisti si deve l’assurda accusa di deicidio rivolta a tutti gli ebrei, madre di duemila anni di antisemitismo cristiano? La ricostruzione storica e filologica di Gian Guido Vecchi è appassionante.
Il colore siamo noi Scappare via, di fronte a quel colore che sembra fine a sé stesso, o fermarsi a contemplarlo, sfidando la propria capacità di concentrarsi sul nulla apparente e che invece contiene tutto, a cominciare dalle nostre emozioni? Roberta Scorranese stavolta si dedica a Marc Rothko e – chi la legge sempre non se ne sorprenderà – ne viene fuori un altro Capolavoro.
Il meglio della Tv Di che si tratta? Del caro, vecchio ma sempre nuovo procedural, storie in cui uno o più casi (un delitto, una malattia, un processo) vengono risolti a poco a poco grazie all’intervento di poliziotti, medici, avvocati. Stefania Carini spiega da vera esperta perché in questo genere c’è l’essenza inossidabile della Tv. Con casi emblematici come il nostro Doc, che spopola anche nella versione Usa, e The Pitt, che racconta (anche) i mali del sistema sanitario americano (la serie da noi arriva nel ’26).
4 volte padri e figli «Figli problematici, senza agganci sociali, persi in un caos emotivo di origine spesso traumatica. Padri e madri distratti, assenti, deboli, immaturi, più problematici dei loro ragazzi. Famiglie disfatte, ammaccate, in piena anomalia sentimentale. Rette fatte per convergere che prendono tragitti imprevedibili»: l’uscita contemporanea di ben 4 film italiani sui rapporti tra genitori e figli – tutti notevoli – ha ispirato a Paolo Baldini una plurirecensione, notevole pure lei.
Heart of Young Breve storia, in occasione dell’uscita del documentario e album «Coastal», di Neil Young, che dopo tanti anni è ancora il nostro eroe preferito, figlio ribelle di un’America semplice, rurale, appassionata, impegnata, onesta, solidale. Un bellissimo ritratto firmato Trocino.
La Playlist della settimana Quattro nuove uscite per la playlist della settimana, che seleziona il fior da fiore della musica nuova che ci gira intorno.
Buona lettura, buon ascolto e buon weekend.
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Rassegna dei diritti |
Perché la sentenza britannica contro le persone trans può nuocere a tutte le donne |
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Niente mostra quanto siano intrecciati i diritti delle donne con quelli della comunità lgbt+ e delle persone transgender meglio della reazione di Giuliano Ferrara alla sentenza britannica che ha sancito che le donne trans non hanno diritto alle tutele anti-discriminatorie delle donne «biologiche». Il fondatore del Foglio, che si è schierato più volte contro l’aborto, in un commento sul suo giornale ha avvertito le «care amiche femmine, femministe e libertarie» che, dice lui, con «coraggio» hanno «decapitato un diritto in nome del vostro diritto al primato biologico del femminino», delle conseguenze della loro battaglia.
Per Ferrara sono chiare: le sentenza britannica è «una scelta restrittiva dei diritti di autorealizzazione» che «rende parziale e non inclusivo l’accoglimento della transizione nei suoi effetti finali». E quindi comporta che adesso «tenere in piedi le basi del relativismo in tutte le materie che riguardano l’individualità e la relazionalità dei rapporti d’amore o sessuali, nella nozione di ciò che è paideia o educazione o pedagogia, nell’impianto culturale e sociale di come noi siamo, maschi e femmine e anche qualcos’altro, nella idea di autorità e di paternità e maternità che ci facciamo in quel che resta del nucleo familiare originario della società, non è possibile». Ora «care amiche femmine, femministe e libertarie», conclude Ferrara, «fate i conti con gli altri diritti negati dal relativismo».
La «lotta al relativismo» è una delle parole d’ordine del movimento anti-abortista, che accusa chi sostiene il diritto delle donne a interrompere una gravidanza (secondo regole certe e entro limiti temporali determinati) di far prevalere relativisticamente il «soggettivismo morale», cioè il giudizio delle singole persone, sul valore universale della vita umana. L’argomentazione di Ferrara è dunque che, se si accetta di limitare il diritto all’autorealizzazione delle persone trans bisogna anche accettare di limitare il diritto all’autorealizzazione delle donne, pure sull’aborto. Il termine femminista significativamente è diverso — autodeterminazione invece che autorealizzazione (a indicare una condizione esistenziale e non un bisogno egoistico) — ma la questione è centrale per il femminismo: il diritto all’aborto, cioè all’autodeterminazione sulle scelte che riguardano il proprio corpo, la propria salute e la propria vita è stato la battaglia centrale per il movimento delle donne nel Dopoguerra. E lo rimane ancora oggi, visto gli attacchi dell’estrema destra reazionaria (dal movimento Maga di Donald Trump al Pis polacco a Provita e Famiglia e Forza Nuova in Italia) contro l’aborto.
Le femministe no-gender o trans-escludenti — auto-proclamatesi «radicali» — si distinguono dalla maggior parte del femminismo contemporaneo proprio perché rifiutano l’idea che le loro battaglie siano connesse a quelle della comunità lgtbq+ e in particolare delle persone transgender. Le femministe no-gender vedono i diritti come un gioco a somma zero, cioè una competizione in cui se qualcuno «vince» dei diritti qualcun altro (o qualcun’altra) li perde. È una concezione eminentemente di destra, anche se questi gruppi femministi provengono dalle fila della sinistra — e infatti il maggior teorico e praticante del gioco a somma zero è oggi Donald Trump (ne ha scritto Stefania Carini sulla Rassegna).
L’ironia in tutto ciò è che ci voleva Giuliano Ferrara per ricordare alle «care amiche femmine, femministe e libertarie» che se si gioca a somma zero allora il gioco travolge tutto. E che, nonostante tutte le dichiarazioni in contrario, o i diritti sono di tutti o non sono di nessuno.
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Rassegna storica
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Tina Modotti e le altre: le donne che hanno fatto la storia del fotogiornalismo
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Pubblichiamo alcuni estratti del saggio La voce delle donne. Pioniere e ispiratrici del giornalismo italiano, di Valeria Palumbo, Editori Laterza, 2025, da oggi nelle librerie.
A pagina sette del primo numero della rivista La donnina, nel 1898, si affermava:
«Eppure anche le fanciulle hanno il desiderio ed il bisogno di leggere un giornale che le istruisca e le diletti; eppure anche esse rappresentano la speranza dell’avvenire; eppure anch’esse hanno bisogno di divertimenti utili e benefici ammaestramenti che le rendano buone di cuore e brave massaie».
Eppure, eppure… sembra di sentir dietro le obiezioni: un giornale per le ragazze, anzi le «donnine»? A che dovrà mai servire se da grandi dovranno essere madri, spose e massaie? A istruirle a star buone, ovvio, era la rassicurante risposta. Non certo perché si mettessero grilli per la testa, sognassero di studiare e magari un giorno di mantenersi da sole, e, dio non voglia, far loro stesse le giornaliste. Sarebbero potute finire a far tardi la sera, dopo essere state in redazione con tutti quegli uomini, o addirittura in giro a caccia di notizie. Per la mentalità borghese ottocentesca, a cui non faceva alcun effetto che le bambine del popolo lavorassero pure di notte nelle fabbriche o se ne andassero per le città a portar pacchi e servire padroni (la prima legge sul lavoro minorile è del 19 luglio 1902, n.242), l’idea che le ragazze degli strati appena meno poveri o addirittura le borghesi potessero aspirare a qualcos’altro che un prolifico matrimonio, base dello Stato nazionale e nazionalista, sembrava un insulto alla morale. Guido Fabiani, direttore per l’editore milanese Vallardi de La donnina, aveva aperto anche L’omettino. E gli «omettini» sì che potevano aspirare a studiare e leggere giornali. Che poi lo dovessero fare anche per partire contenti a fare la guerra o per lavorare a testa bassa senza dare ascolto a socialisti, anarchici e altri sobillatori era un altro conto. Il 1898, anno dell’articolo, è anche quello delle cannonate del generale Fiorenzo Bava Beccaris contro il popolo milanese che protestava contro l’aumento del prezzo del grano. Ma, nell’Italia dei pochi maschi al potere, che discuteva se estendere il suffragio dal 6% in vigore dopo la riforma del 1882, a qualche uomo in più, donnine e omettini avevano ruoli, vocazioni e destini ben distinti. (…)
I borghesi maschi, cioè, rivendicando per sé tutti i mestieri, le professioni e i ruoli remunerati o di prestigio che la monarchia liberale offriva alla nuova classe emergente, non si appellava a un’ideologia: sarebbe stato terreno franoso visto che l’Unità d’Italia era figlia dell’irredentismo liberale, frutto, a sua volta, delle rivolte post-Rivoluzione francese. Ma, addirittura, a Dio. Pensare che proprio in quegli anni il nuovo Stato ribadiva la sua natura laica: il monumento a Giordano Bruno, a Roma, è del 1889.
Fare le giornaliste o anche solo studiare troppo non rientrava dunque nelle costellazioni femminili. E questo benché lo stesso Fabiani, dal 1906, avesse unificato i due giornaletti nel Giornalino degli ometti e delle donnine. Per le ragazze i compiti restavano distinti. E l’istruzione azzoppata: perfino Lidia Poët, che pure si era laureata, aveva dovuto rinunciare al suo sogno di fare gli studi classici liceali. Aveva frequentato le «scuole normali», quelle che producevano maestre, unico orizzonte professionale che si ritenesse adatto a una ragazza (e pure non dappertutto: le maestre furono spesso vittime di violenze e ostracismi). E dalle Normali venivano gran parte delle prime giornaliste ottocentesche, Matilde Serao in testa.
Perché le giornaliste comunque esistevano. Così come esistevano da tempo i giornali per le ragazze, a cominciare dal glorioso Cordelia. E lentamente, molto lentamente, le giornaliste sarebbero pure aumentate. Perfino sotto il fascismo. Non sarebbero, però, esplose con la Repubblica: il «ritorno a casa», nel clima dell’Italia cattolica, democristiana e reazionaria del Dopoguerra, puntellata dall’ambigua ideologia comunista sulle donne, non avrebbe aiutato. Si sarebbe dovuto aspettare i tardi anni Settanta, e, più ancora gli Ottanta, con il boom dei periodici, la nascita delle tv e delle radio private. E con il salto in avanti delle diplomate e laureate: oggi sono il 65,3% a fronte del 60,1% degli uomini, per le diplomate; il 23,1%, contro il 16,8%, per le laureate (dati Istat 2022). Per quanto siano cifre che ci pongano al penultimo posto nell’Unione europea. (…)
In questo saggio racconteremo, invece, dei circa cento anni cruciali, tra metà Ottocento e metà Novecento, che ci hanno plasmato e che ancora influenzano la narrazione e le idee più diffuse. Con evidenti svantaggi per le donne. E spesso in barba a quello, che, nei fatti, accade. Quindi, ancora una volta, sarà di una corsa a ostacoli che dovremmo raccontare, con le leggi contro, a garantire il predominio maschile in tutti i ruoli di potere e di prestigio e a conservare la sottomissione in famiglia, con la cittadinanza dimezzata dall’impossibilità di votare e farsi votare fino al 1945. Ma, soprattutto, con una cultura patriarcale che considerava e, in parte, considera la libertà di movimento e l’autonomia delle donne una minaccia. E lo nasconde sbandierando che, in realtà, a essere in pericolo, se si muovono da sole, sono proprio le donne: l’insicurezza è diventata l’ultima arma per tenerle «buone». Perché, ed è bene sottolinearlo subito, non basta scrivere per i giornali per essere giornaliste. Bisogna sceglierla come professione e farne la fonte principale del proprio reddito e quindi accettare, per adempiere ai propri doveri, di affrontare il mondo. Di sporcarsi le mani, e non solo d’inchiostro.
Questo ha creato, nel tempo, problemi alle figure «ibride», in particolare scrittrici e politiche: le prime impegnate ad arrotondare i loro guadagni collaborando con varie testate. Le seconde facendo del giornalismo il miglior megafono delle loro idee e della loro azione. Non è solo per non allargare a dismisura il nostro campo d’azione che abbiamo cercato di limitare il racconto delle «ibridazioni”», a cui pure sono dedicati due capitoli. Ma anche per un motivo concettuale: ciò contro cui l’ideologia patriarcale borghese si è più accanita è il tentativo delle donne di uscire dal dilettantismo.

Assunta Adelaide Luigia Saltarini Modotti, la grande Tina Modotti, 1896-1942
Dal capitolo «Tina Modotti e le fotografe: viaggiare, scattare, moltiplicare la libertà».
Fare fotogiornalismo presuppone due libertà: quella di viaggiare e muoversi, che comprende anche quella di potersi vestire in modo comodo e pratico. E quella di avere i soldi per le attrezzature. Entrambe hanno costituito un ulteriore limite per le donne, oltre a quella, sperimentata anche dalle altre giornaliste (prima solo scriventi, poi radiofoniche, poi televisive e quindi del web), di accreditarsi sia presso i direttori di testata sia presso chi, con i media, parla e collabora. Inutile dire che essere mandate e accettate nei palazzi del potere, sui fronti di guerra, guerriglia e rivolta, è stato difficilissimo. Ma perfino sui campi sportivi le resistenze sono state molte.
Nonostante questo, ancora una volta, le fotoreporter non sono mai mancate. Almeno da quando esistono le macchine fotografiche compatte. Lo sforzo di ridurre le dimensioni di apparecchi e lastre, fra l’altro, si è posto già da metà Ottocento e ha prodotto la Pocket Kodak, una scatoletta di legno che pesava solo 140 grammi ed è stata venduta, tra 1895 e 1900, in 147 mila esemplari.
Non che le fotografe non esistessero anche prima. Basti pensare alla grande ritrattista britannica, nata a Calcutta, Julia Margaret Pattle Cameron (1815-1879). Ma potevano di fatto lavorare solo in studio o in contesti non in movimento, fosse solo per le dimensioni e il peso delle attrezzature. Oltre, appunto, alla difficoltà di spostarsi con abiti ingombranti e apparecchiature vistose, in contesti pericolosi o difficoltosi e solo maschili.
Se è vero che la prima foto è comparsa su un quotidiano, The Daily Graphic di New York, nel 1873, e quindi in qualche modo la fotografia di documentazione ha una storia che va in parallelo con le pioniere del giornalismo femminile, è stato solo negli anni Venti del Novecento che il fotogiornalismo ha davvero preso forma e, negli Stati Uniti, le donne hanno cominciato ad affrontarlo.
(…)
E dunque, chi fu la prima? Per quanto è sempre difficile stabilire questo genere di primati, risulta che la prima donna al mondo a pubblicare le proprie foto su un giornale sia stata Jessie Richmond Tarbox, poi Beals, con il matrimonio. Era nata ad Hamilton, in Ontario, nel 1870, in una famiglia che subì presto un pesante rovescio finanziario. A 17 anni, dopo tre anni di studio presso il Collegiate Institute of Ontario, faceva già l’insegnante. Nel 1888, per caso, vinse una piccola (per l’epoca) macchina fotografica in un concorso indetto da un giornale, The Youth’s Companion. Iniziò così a fotografare i propri alunni e i luoghi in cui viveva. Le piacque immensamente. Non molto tempo dopo acquistò una Kodak di migliore qualità e aprì un suo studio fotografico. Nel 1897 sposò Alfred Tennyson Beals, gli insegnò le basi della fotografia e ne fece, dal 1900, il suo assistente per una sorta di studio itinerante. Nel frattempo, nel 1899, il Boston Post le aveva commissionato il primo servizio fotografico, sulla prigione di Stato del Massachusetts: era diventata ufficialmente fotoreporter. Già nel 1901 Jessie era entrata nello staff del Buffalo Inquirer e del Buffalo Courier. E dovette, appunto, utilizzare le pesanti macchine di legno dell’epoca e le lastre di vetro: in un autoritratto del 1905 circa appare con il suo apparecchio poggiato sull’ingombrante treppiedi, un vestitone scuro che l’infagotta, il cappellino, gli occhiali e una pesante borsa per l’attrezzatura. Tanto per capirci, il suo kit pesava circa 23 chili. (…) Scrisse nel suo diario, a ribadire le difficoltà: «Grazie a Dio ho avuto una forza anormale, le donne solamente femminili, delicate, fatte di porcellana, non vanno da nessuna parte negli affari e nella vita professionale». Morì in povertà a New York nel 1942. (…)
A questo punto, appare chiaro: furono le fotoreporter statunitensi ad aprire la strada alle altre. Seguite a ruota da britanniche e tedesche, nel periodo di Weimar.
Ma un contributo fondamentale è arrivato proprio dall’Italia, sia pure sul suolo americano. Ed è quello di Tina Modotti. Una vera eccezione perché le italiane, a parte il fondamentale contributo di Virginia Oldoini, la contessa di Castiglione, non hanno senz’altro affollato le file delle pioniere della fotografia, tanto meno quella giornalistica. (…)
Non risultano, invece, fotogiornaliste ufficiali europee sul fronte della Prima guerra mondiale, per quanto, durante il conflitto, alcune fotografe documentarono professionalmente l’impegno bellico nel loro Paese e qualcuna si spinse sui campi di battaglia: per la Gran Bretagna è il caso, per esempio, di Christina Broom (1862-1939) e Olive Edis (1876-1955).
Broom, in particolare, aveva cominciato documentando il movimento delle suffragiste e poi seguì lo sbarco dei soldati statunitensi alleati in Inghilterra e il giorno dell’armistizio a Londra, l’11 novembre 1918. Florence Farmborough (1887-1978), invece, si spinse sul fronte orientale: si trovava a Mosca al momento dello scoppio della guerra e, come Florence MacLeod, si arruolò come infermiera volontaria.Il paradosso è che, ancora oggi, le sue immagini, per esempio dei soldati morti sul campo di battaglia, sono considerate il lavoro di una «dilettante». Prima si impediva alle donne di esercitare una professione in sostanza, poi, di fronte ai risultati, spesso ottimi, da loro ottenuti con mille sforzi e mille sotterfugi, le si liquidava come dilettanti.
(…) Con la Seconda guerra mondiale cambiarono molte cose. La statunitense Library of Congress, in occasione della mostra Women come to the Front del 2010, dedicata a otto reporter che coprirono il conflitto, scrive: «Per le donne giornaliste la Seconda guerra mondiale offrì nuove opportunità professionali: almeno 127 donne americane vennero accreditate come corrispondenti di guerra, se non addirittura per assignments sul fronte». Tra le fotoreporter che emersero, la grande Dorothea Lange (1895-1965), che illustrò fra l’altro gli effetti devastanti della Grande Depressione sui coltivatori, e May Craig (1889-1975), giornalista e suffragista, che documentò anche la guerra in Corea e ammise: «La guerra ha dato alle donne l’occasione di mostrare che cosa possano fare nel mondo dell’informazione, e loro lo hanno fatto molto bene».
Ci limiteremo ancora a pochi altri esempi. Il primo è quello di Lee Miller (1907-1977). Entrata nel mondo della fotografia a New York come modella di Edward Steichen e di altri, nel 1929 si ritrovò a Parigi dall’altra parte dell’obiettivo come assistente di Man Ray e sviluppò quindi il suo stile nell’ambiente surrealista. Tornata negli Stati Uniti e diventata fotografa per Vogue, si occupò soprattutto di moda e ritratti. Ma nel 1944 fu accreditata dalla US Army per seguire le truppe alleate dopo lo sbarco in Normandia: fotografò, sempre per Vogue, l’assedio di Saint-Malo, la liberazione di Parigi, la liberazione dei campi di Buchenwald e Dachau, i traumi dei civili alla fine della guerra. E si fece scattare da David Scherman, fotografo di Life, con cui lavorava in team, un celeberrimo ritratto nella vasca da bagno di Adolf Hitler. Molto meno conosciuto è il ritratto che lei fece a Scherman nella stessa identica posizione. (…)
Non fece in tempo né a documentare la fine della guerra di Spagna né tanto meno lo scoppio della Seconda guerra mondiale quella che resta la più celebre pioniera delle fotografe di guerra: Gerda Taro (1910-1937). Rimasta a lungo nell’ombra del suo compagno Robert Capa, la tedesca Gerta Pohorylle, nata a Stoccarda da una famiglia ebrea di origine polacca, si è vista solo di recente riattribuire molte foto che, frettolosamente, erano state assegnate al partner. In Italia, una grande mostra tra febbraio e giugno 2024 a Camera (Torino), Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerra, ha permesso anche al pubblico italiano di riconoscerne il ruolo e il valore. (…)
Più lunga e di maggiori soddisfazioni è stata la carriera della newyorkese Margaret Bourke-White (1904-1971), stroncata però da una forma di Parkinson molto aggressiva, che le fu diagnosticata nel 1953, quando aveva 49 anni. (…) Segnaliamo l’importanza di Bourke-White nel documentare l’avanzata degli Alleati in Italia proprio perché la domanda inevitabile è: perché non aveva colleghe italiane? In fondo, le donne continuarono a scrivere e a collaborare con i giornali e con la radio anche dopo che il regime fascista aveva tentato di limitarne in tutti i modi le carriere professionali. E le più fedeli al regime lo fecero fino alla sua caduta.
Va premesso che, in tutta la stagione pionieristica, le fotografe italiane sono certo state più numerose, anche sui giornali, di quanto a oggi sappiamo. Si tratta di scavare ancora nei giornali. (…) La prima fotogiornalista professionista italiana è ancora considerata Chiara Samugheo, ossia Chiara Paparella (1925-2022), che cominciò a scattare per i giornali dopo il trasferimento a Milano nel 1953. Tardissimo, rispetto alle colleghe statunitensi.
In realtà però non fu lei la prima fotografa per i giornali. Se per la fama all’estero di Benito Mussolini contribuì in maniera decisiva la biografia Dux di Margherita Sarfatti, del 1925, lo stesso effetto ebbe il ritratto che gli scattò Ghitta Carell (1899-1972). Fotografa ungherese di origini ebraiche, naturalizzata italiana, Carell non fu a rigore una fotogiornalista. Ma una ritrattista. Solo che le sue foto facevano «notizia» ed erano pubblicate sui giornali. (…) Dopo la guerra rinunciò alla cittadinanza ungherese, continuò a scattare ritratti, pure a qualche presidente della Repubblica e a papa Giovanni XIII, come già aveva fatto con Pio XII. Nel 1959 prese la cittadinanza italiana e poi si trasferì in Israele: certo non in buone condizioni economiche.
Se il fotogiornalismo deve avere un legame sia pure teorico con la realtà, i ritratti di Ghitta Carell degli anni Trenta e Quaranta ne hanno poco. È stata una maestra della posa e del ritocco. Ma, proprio come quelli della grande pittura del passato, le sue immagini rivelano perfettamente l’idea che le élites avevano di sé e che volevano dare. (…) Ghitta Carell, particolare, fu assoldata da Ottavia Vitagliano (1894-1975) che, alla morte del marito Nino, nel 1933, prese le redini della sua azienda editoriale, come fotografa per Eva, settimanale della donna italiana, per il quale firmò diverse copertine. Lo stesso fece un’altra fotografa che operò in Italia, Eva Elbourn Barrett, anche lei “pittorialista” e ritrattista abilissima a rendere più belli i suoi soggetti che Vitagliano volle, ugualmente, per Eva. D’altra parte, a tutt’oggi star uomini e donne pretendono ritocchi nelle foto di copertina. (…) Della sua vita e del perché si siano perse le sue tracce, si sa pochissimo.
E ancora troppo poco si sa di un’italiana che, come Modotti, cominciò lavorando per le testate estere negli anni Trenta del Novecento, fino alla Guerra di Spagna: Eda Urbani (Livorno, 1908 – Torino, 2001). A lei, nel 2024, è stata dedicata un’esposizione, Scatti di libertà, in occasione del primo festival della Fotografia italiana a Bibiena (Arezzo). Ma già per il centenario della sua nascita, la Biblioteca Villa Amoretti di Torino le aveva dedicato una mostra, poi trasferita, nel 2009, alla Scuola romana di fotografia a Roma.
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Rassegna storico-religiosa
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Perché Gesù venne ucciso? La storia del Venerdì Santo: il (doppio) processo e la morte in croce
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Gerusalemme, aprile dell’anno 30, mattina. Il procuratore romano Ponzio Pilato non ha fatto una gran carriera, se si trova a governare una regione, la Giudea, ai confini dell’Impero guidato allora da Tiberio. Non proprio hic sunt leones, ma quasi. La scena, probabilmente, ha luogo nel Palazzo di Erode il Grande, sulla collina occidentale, vicino all’attuale porta di Giaffa.
Davanti al «pretorio», perché il procuratore lo giudichi, hanno trascinato un predicatore trentenne ebreo della Galilea, un rabbì di Nazaret, forse un rivoltoso, vai a sapere. Tale Yehoshua ben Yosef, nella forma abbreviata Yeshùa. Un’altra sentenza, una delle tante.
Pilato, in carica da quattro anni, non capisce quel popolo che disprezza, ricambiato. E non può immaginare che da quel giorno la sua scelta e il suo nome saranno legati al caso giudiziario più celebre e clamoroso della storia dell’umanità, da fare impallidire pure Socrate.
Un processo che si chiude in poche ore con la condanna alla pena capitale, nella forma più crudele e infamante: la crocifissione. Ma cos’ha fatto, per i suoi accusatori, Gesù? Quali sono i capi d’imputazione? Di che cosa viene giudicato colpevole?
Le fonti storiche
Duemila anni di analisi, migliaia di libri e interpretazioni spesso nefaste. La Chiesa cattolica ha le sue responsabilità, e sono enormi. Fino al Concilio Vaticano II è stata fatta gravare sul popolo ebraico l’accusa, insensata, di «deicidio», matrice dell’antigiudaismo che ha provocato secoli di persecuzioni e pogrom.
Come premette il cardinale Gianfranco Ravasi nel suo libro Biografia di Gesù, è bene anzitutto citare la dichiarazione conciliare Nostra Aetatedel 28 ottobre 1965, che ha finalmente segnato la svolta della Chiesa: «Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo». Accusa insensata, anche perché in questa vicenda sono tutti ebrei: Gesù come i suoi accusatori, quelli che gridano «crocifiggilo!» come Maria, i discepoli, gli evangelisti (solo su Luca c’è qualche dubbio, la tradizione parla di origini pagane, ma si ritiene più probabile fosse un ebreo ellenista di Antiochia), la comunità cristiana primitiva. A parte Pilato: che era l’unico, in quanto procuratore romano, a poter decidere la pena di morte.
E poi la ricostruzione storica non è facile. Il processo è attestato nelle Antichità giudaiche (XVIII) dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, che in un passo cita Gesù e scrive: «Dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall’inizio lo avevano amato». Anche lo storico romano Tacito, negli Annali(XV), scrive dei «tormenti atroci» inflitti da Nerone ai cristiani e spiega che questi «prendevano il nome da Cristo, condannato a morte dal procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio».
Per il resto, le sole fonti sono i quattro Vangeli, che tuttavia non sono stati scritti con un intento storico, leggono gli eventi alla luce della fede nella resurrezione di Gesù e si rivolgono a comunità particolari (Marco a un ambiente di origini pagane, Matteo a giudeo-cristiani della diaspora ellenistica, Luca al mondo greco-romano, Giovanni a quello greco) che spesso hanno rapporti difficili e polemici con l’ambiente ebraico dal quale si sono distaccati.
Ne è un esempio la relativa indulgenza con la quale è descritto Pilato. Filone d’Alessandria, grande filosofo ebreo dell’epoca, ne offre nel De Legatione ad Caiumun ritratto un po’ diverso: «Un uomo per natura inflessibile e, in aggiunta alla sua arroganza, duro, capace solo di concussioni, di violenze, rapine, brutalità, torture, esecuzioni senza processo e crudeltà spaventose e illimitate».
Giuseppe Flavio sempre nelle Antichità giudaiche, racconta le stragi di popolo ordinate da Pilato ai suoi soldati.
L’accusa e il primo processo
Comunque, nel racconto degli evangelisti i processi sono due. Il primo si celebra davanti al Sinedrio, parola greca che significa consesso, assemblea. Ad Atene era il collegio costituito da un magistrato e dai suoi assessori. Nella Gerusalemme del tempo era l’organo politico-religioso responsabile della amministrazione giudaica, molto relativamente autonoma, riconosciuto ma dipendente dall’autorità del potere romano occupante. Era composto da settanta membri più il sommo sacerdote che lo presiedeva. Vi erano rappresentate tre classi: i sacerdoti, gli anziani che appartenevano ad una sorta di aristocrazia laica e terriera e come i sacerdoti erano sadducei, di orientamento conservatore; e infine gli scribi, gli studiosi farisei, più aperti e progressisti, a dispetto della rappresentazione che ne fanno i Vangeli.
Nella notte del tradimento di Giuda, Gesù era stato arrestato nel podere detto Getsemani, «frantoio per olive», da una «folla con spade e bastoni» mandata dalle autorità del Sinedrio. Viene condotto davanti all’ex sommo sacerdote Anna e poi dal genero Caifa, sommo sacerdote in carica e quindi capo del Sinedrio. È a casa di Caifa che avviene la prima assise. I quattro Vangeli variano nel racconto, ma la sostanza non cambia. All’inizio lo accusano di aver detto «distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», frase che peraltro Gesù aveva riferito a se stesso e «al tempio del suo corpo», nota Giovanni. Ma il momento decisivo è quando Caifa gli chiede: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Il Vangelo più antico, quello di Marco, che si ritiene scritto prima della distruzione del Tempio nel 70 d.C., riporta la risposta dell’imputato: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». È a questo punto che il sommo sacerdote si straccia le vesti e esclama: «Che bisogno abbiamo di altri testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». E l’assemblea del Sinedrio risponde: «È reo di morte!».
Quella di Caifa non è una reazione isterica, lo stracciarsi le vesti è un gesto rituale davanti a un’ignominia. Ma che ha detto Gesù di così grave? Ha risposto di essere il Messia atteso da Israele (Mashiah, «unto» con l’olio sacro e quindi consacrato: in greco Christós, Cristo) e, quel che è peggio agli occhi del Sinedrio, lo ha fatto citando un passo del profeta Daniele (7) che presenta nel «Figlio dell’uomo», una figura non solo terrena che partecipa misteriosamente alla natura divina. Ma c’è di più. Il testo originale greco di Marco riporta come risposta di Gesù «egò eimi», che in genere viene tradotto «io lo sono» ma alla lettera significa «io sono»: la stessa risposta di Dio quando Mosé ne chiede il nome, rivolto al roveto ardente sul monte Oreb, il tetragramma YHWH (Jod, He, Waw, He) che gli ebrei non pronunciano. «Il vangelo sfocia in questa sua autotestimonianza, che risolve ogni mistero e sarà causa della sua condanna», scrive il grande biblista gesuita Silvano Fausti nel suo commento a Marco: «Gesù sarà condannato non per testimonianza altrui, ma per questa sua rivelazione».
Lo nota pure Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret: «Non vi risuona forse Esodo 3,14?». In effetti. Per il Sinedrio ce n’è abbastanza, ma l’assemblea non ha il potere di emettere sentenze. Così Gesù viene portato da Pilato.
Il secondo processo, e Ponzio Pilato
Dal Sinedrio al praetorium, il luogo del giudizio. Nel Vangelo di Luca si dice che Pilato, diffidente, cercò invano di scaricare il giudizio su Erode, procuratore della Galilea, che rimandò indietro l’imputato. In ogni caso, per ottenere la condanna, al procuratore romano della Giudea viene presentata dai rappresentanti dell’assemblea un’accusa più politica: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re». Sarà la motivazione finale della condanna, che veniva apposta sul braccio verticale della croce come monito per chiunque volesse ribellarsi al potere romano: «Il re dei Giudei», l’acronimo INRI che nella lingua latina dell’impero si ritrova in innumerevoli dipinti e sculture: «Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum».
La versione di Marco è la più asciutta. Pilato chiede: «Sei tu il re dei giudei?». Gesù risponde: «Tu lo dici». Pilato insiste, Gesù non risponde più nulla. Ma a Gerusalemme sono i giorni della Pasqua ebraica, per la festa il procuratore «era solito rilasciare un prigioniero» e in quel momento c’è anche tale Barabba, «si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio», insomma un rivoluzionario politico vero, probabilmente uno zelota. La scena è celeberrima: Pilato si rivolge alla folla, «volete che vi rilasci il re dei Giudei?», ma la folla «sobillata dai sommi sacerdoti» invoca invece Barabba. E a Pilato che domanda cosa fare di Gesù, «che male ha fatto?», la folla risponde: «Crocifiggilo!».
«Crocifiggilo!»
E qui c’è un problema serio: chi invoca Barabba e chiede la crocifissione di Gesù? Marco, il testo più antico, parla di «óchlos», in greco la «folla» o «massa», appunto, un gruppo di persone formato probabilmente da sostenitori di Barabba. È il solo Vangelo di Matteo a parlare di «laós», che significa «popolo» o «nazione». Tutti i maggiori biblisti e teologi sono d’accordo: è un’esagerazione di Matteo. Anzi, «un’amplificazione fatale nelle sue conseguenze», nota Joseph Ratzinger, che nel suo Gesù di Nazaret chiarisce: «Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo a chiedere la morte di Gesù? La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco».
Se Marco parla di folla, Giovanni indica i «giudei» nel senso dell’«aristocrazia del tempio», Benedetto XVI è definitivo: «Il vero gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell’amnistia pasquale, si associa ad essi la “massa” dei sostenitori di Barabba». Resta, storicamente, la tendenza dei primi cristiani «ad attenuare le responsabilità di Pilato e a marcare quelle giudaiche», come nota Ravasi. Matteo soprattutto, il più polemico con i suoi connazionali, il quale riporta la scena del procuratore che se ne lava le mani e dice: «Non sono responsabile di questo sangue, vedetevela voi!». E aggiunge – anche qui, solo lui tra gli evangelisti – la risposta del «popolo», cui arriva a far dire: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli».
Resta soprattutto il fatto che la responsabilità della sentenza di morte è del procuratore romano, Marco scrive: «Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso».
L’esecuzione in croce
Gesù viene consegnato alla guarnigione romana per essere flagellato. È il racconto della Passione che in buona parte del mondo, il Venerdì Santo, scandisce la Via Crucis. I romani usavano un flagrum a corde grosse con pezzi di osso e di metallo. La derisione, le torture. Nella salita al Golgota, i soldati fermano un tale Simone di Cirene perché porti il patibulum, l’asse trasversale della croce. Quello verticale è già piantato sul luogo dell’esecuzione. Il condannato viene appeso alla croce, inchiodato per i polsi. La parola greca agonía significa lotta, per un crocifisso è lunga e dolorosa. Alla fine, un soldato tende a Gesù agonizzante una spugna intrisa di «aceto», in realtà un vino mescolato con acqua che soldati e mietitori usavano per dissetarsi: quello che popolarmente appare come l’ultimo gesto di scherno potrebbe essere invece un gesto estremo di pietà. «Tetélestai», è l’ultima parola di Gesù riportata da Giovanni: «“Tutto è compiuto”, disse. E, chinato il capo, spirò».
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Rassegna dell’arte (Capolavoro!) |
Silenzio, spazi vuoti, colore intenso: perché davanti a Rothko c’è disagio (o emozione) |
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Davanti alle gigantesche tele di Marc Rothko il ventaglio delle reazioni si riduce essenzialmente a due: imbarazzo o commozione. Ci sono quelli che distolgono lo sguardo perché le sue enormi distese di colore senza figure, beate nella propria autarchia, risultano incomprensibili e, al contrario, ci sono quelli che si fermano, «abitano» il dipinto, si lasciano trascinare nelle vaste campiture e alla fine, forse, piangono. Perché?
Lui stesso ha rimarcato la peculiarità delle proprie opere in una lettera inviata nel 1943 a Edward Alden Jewell, senior critic del New York Times, scritta a quattro mani con Adolph Gottlieb e in risposta a un articolo pungente: «Non intendiamo difendere i nostri dipinti. Questi si difendono da soli. Li consideriamo dichiarazioni cristalline. La sua incapacità di congedarli o di screditarli è una prova di prima mano che sono dotati di un qualche potere espressivo». E quella «incapacità di congedarli o screditarli» oggi persiste in tanti di noi quando ci si predispone davanti a una delle sue tele, grandi e fatte di puro colore, stratificato a veli.
La Cappella Rothko a Houston, con i dipinti dell’artista
Per capire questo dualismo (imbarazzo/commozione) bisogna entrare nella vita e nel metodo del pittore, nato Markus Rothkowitz nel 1903 in una cittadina russa, ora in Lettonia, e a soli dieci anni immigrato negli Stati Uniti. Divenne cittadino americano nel 1938, ma è difficile capire a quale mondo sia davvero appartenuto. Negli Anni 40 provò a sperimentare una pittura personale, fatta di figure sempre più fluide, come «Antigone», il quadro che suscitò lo sconcerto del New York Times. Poco per volta il colore cominciò a prendere il sopravvento. Ma non come strumento, bensì come esistenza propria del dipinto, come cuore dell’opera.
Come un asceta del colore, iniziò ad asciugare, a togliere, a depurare. Non solo i dipinti, ma la sua stessa vita. Prese a diventare Rothko: intransigente, rigoroso, spirituale. Le figure si dissolvono lentamente, travolte da una forza invisibile ma inesorabile, le distese di pittura a olio (non è ancora il tempo degli acrilici) si fanno più vaste, letteralmente «mangiano» il superfluo. Si fanno spazio, senza regole apparenti. Siamo negli Anni Quaranta e negli Stati Uniti regna l’espressionismo astratto, si possono già scorgere i prodromi della pop art. Rothko resta distante dalle etichette rigide, prosegue il suo cammino verso una purificazione che a quel punto era diventata anche personale: si appassiona ai miti e alle culture antiche, studia la storia della Mesopotamia, torna alle sue origini e cerca di comprendere le tecniche e l’ispirazione dei pittori di icone. Nell’immobilità di quelle figure cristallizzate nel tempo trova un’altra chiave di lettura del mondo: la velocità sta fagocitando le sensazioni. Non c’è più tempo per vivere. Che cosa può fare la pittura? Forse può recuperare quello spazio contemplativo che nello scorrere dei giorni si appiattisce in una disperata fuga dal vuoto.
Capisce anche che l’astrazione non sta soltanto divorando le forme, ma l’antica concezione della pittura, dove il colore era cosa fertile, creatrice di vita, non solo un abbellimento. Il colore. Ecco il nodo. Rothko comprende che con l’intensità cromatica si può creare un mondo nuovo, purificato dalle forme e, al tempo stesso, denso come un quadro di Giorgione. Nel colore c’è una forma di vita, avevano insegnato Monet e Seurat. Arriviamo al 1949 ed ecco la svolta: con «Violet, black, orange, yellow on white and red» (oggi al Guggenheim di New York) Rothko mette le basi del suo avvenire di artista. Ha solo 46 anni e non sa che gliene restano solo ventuno. Ma sa che ha trovato la chiave: in seguito declinerà quelle sfumature in decine di diverse intensità cromatiche, di volta in volta riscalderà o raffredderà quei punti di partenza per raggiungere quello che ha sempre cercato, cioè la pienezza di uno spazio vuoto.
«Violet, black, orange, yellow on white and red», 1949
E il cerchio si chiude. Quelli di Rothko sono densissimi spazi vuoti, abitati solo dal silenzio. Ma bisogna chiedersi: siamo ancora abituati a vedere uno spazio che non sia riempito di cose? Guardiamo la nostra vita di tutti i giorni: non sopportiamo nemmeno di rimanere dieci minuti in coda senza cominciare a scrollare il telefono. Non reggiamo i titoli di coda di una serie tv, perché li consideriamo «spazi vuoti» e passiamo immediatamente all’episodio successivo. Le nostre vite sono diventate una incessante e smaniosa fuga dal niente, quando è proprio in questo niente che risiede la vita, come ci insegna una raffinata poeta, Chandra Livia Candiani. Nel suo libro «Il silenzio è cosa viva», Candiani accosta l’esperienza del «fermarsi» a quella del lutto. «Se accogli i suoi inviti, le sue chiamate a sentire la morte, interrompere tutto, sedersi o sdraiarsi e assaggiare l’assenza, allora è un dono. Se fingi che non ti chiami, se riempi ogni attimo di distrazione, ti fa a pezzi, brandelli di te che non stanno nell’intero del reale cambiato: aggiornare il file, con questo buco che vuole spazio, vuole ospitalità».
Marc Rothko (1903-1970) davanti a una tela
Trovo che queste parole siano perfette per capire Rothko: se davanti ai suoi dipinti ci si ferma, si «rimane» e si assaggia l’assenza, allora si viene investiti da una profonda emozione che arriva alle lacrime. Se invece ci si lascia sedurre dalla facile impazienza e ci si allontana infastiditi, sopraggiunge l’imbarazzo, il disagio, quel fastidio che qualche volta è peggio del dolore puro e affilato. Chi pratica yoga lo sa bene: il dolore e il disagio sono due cose differenti. Lo yoga non insegna a combattere il dolore, ma a rimanere nel fastidio. A restare in una posizione scomoda, a farla propria, a renderla familiare. E Rothko ci invita a contemplare, una pratica della quale ormai abbiamo perso l’abitudine.
«Antigone», 1939
Non è un caso che la sua opera più famosa sia una cappella spirituale. Quella che gli venne commissionata a Houston, Texas, da John e Dominique de Menil. Pianta circolare, un ottagono iscritto in una croce greca, con semplici panche per sedere e meditare di fronte a 14 delle sue opere. «Meditare», appunto, non «guardare». «Rimanere», non «passare accanto». È nelle sue stesse opere che Rothko traccia le istruzioni per l’uso. Per un uso diverso dell’arte e dello stare al mondo. Conoscendo bene i rischi di questa conoscenza profonda: si toglierà la vita del 1970, mai del tutto americano, mai del tutto russo, mai del tutto novecentesco.
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Rassegna televisiva
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Perché nel «procedural» c’è la forza eterna della Tv
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Alla fine chi vince è spesso la cara vecchia Tv. O meglio, una formula antica di racconto che troppo spesso oggi trascuriamo nel discorso «critico», un po’ perché affascinati a ragione da certi titoli straordinari e un po’ perché deviati a torto dall’astuto marketing delle piattaforme di streaming.
Parliamo del procedural, che prevede la risoluzione, attraverso una serie di step, di uno o più casi (un delitto, una malattia, un processo) grazie all’intervento di poliziotti, medici, avvocati. Queste professioni sono sempre un buon investimento in Tv, anche se si vuole cogliere il momento storico in cui si vive. Perché il procedural prevede sì una struttura costante e rassicurante per lo spettatore, ma proprio per questo può permettersi a volte di inserire temi, stili, formule nuove.
D’altra parte è proprio dal procedural che negli anni Ottanta parte la rivoluzione del piccolo schermo americano. La casa di produzione MTM sforna titoli di successo come Hill Street Blues, A cuore aperto e Avvocati a Los Angeles cambiando la struttura rispettivamente del poliziesco, del medical e del legal drama: ora ci sono tanti personaggi, più linee narrative, e alcune storie smettono di essere autoconclusive e spesso si evolvono di puntata in puntata, enfatizzando il percorso emotivo dei personaggi. È la nascita di quello stile chiamato Quality Tv, che poi si è diffuso a tutta la produzione degli Stati Uniti e ha contagiato anche quella mondiale.
Prendiamo una serie di enorme successo degli ultimi anni, tutta italiana: Doc. Deve molto a ER, Grey’s Anatomy e Dr House, anche se riconfezionati all’italiana. La trama che intreccia i casi da risolvere ai problemi personali dei dottori permette una narrazione forte, magari meno mirabolante di altri generi, ma intanto si parla di temi importanti, dalla pandemia ai certi problemi della sanità. Una struttura così è capace di far presa sul pubblico per più puntate e per più stagioni e per più anni. E questo è il vero successo della Tv, al di là di certe formule mordi e fuggi imposte dalle piattaforme oggi.
Doc ha funzionato così bene che è stata esportata in diversi Paesi, e ha avuto anche i suoi remake, persino negli Stati Uniti, un caso curioso che mostra la circolarità delle influenze culturali (nella versione americana la protagonista è la dottoressa Amy Larsen, «una sensazionale Molly Parker», scrive Variety). Sarà anche che in questo periodo vogliamo essere rassicurati, e non c’è nulla di meglio della figura del buon dottore/dottoressa. Anche il successo di Doc in piena pandemia si era basato su quello: in un momento in cui eravamo diventati, per forza di cose, un semplice numero in sistema sovraccarico fino all’estremo, guardare in Tv dei dottori che avevano tempo per i propri pazienti era consolatorio. Accade che a volte si voti per una cosa, ma in Tv si cerca il suo opposto: mentre l’amministrazione americana attacca la scienza, gli spettatori premiano un medical drama di pura abnegazione scientifica, cioè The Pitt, osannato anche dalla critica e capace di riportare il procedural al centro della scena.

Una scena di «The Pitt»
Inedito in Italia, ambientato nel pronto soccorso di Pittsburg, ricorda ER, anche perché il suo volto guida è Noah Wyler, già interprete del Dr Carter in quella serie, qui anche sceneggiatore e produttore insieme a John Wells, già produttore di ER. The Pitt va in onda sul servizio in streaming di Warner Bros, Max (in Italia arriverà nel 2026), ma segue una solida regola della cara vecchia Tv: una puntata a settimana. È un meccanismo potente, capace di creare fedeltà negli spettatori e un fruttuoso passaparola. Troppo spesso invece pubblicare intere stagioni comporta bruciare titoli in poco tempo, senza creare veri fan.
In The Pitt c’è tutto quello che c’era in ER ma estremizzato. Ancora una volta quando la Tv vuole rinnovarsi gioca con il tempo del racconto e della visione: la serie copre in 15 episodi un singolo turno di ospedale (l’ispirazione è un’altra serie rivoluzionaria, 24), quindi assistiamo alle 15 ore di lavoro di un gruppo di medici esperti e di novellini appena arrivati. I critici americani ne sono entusiasti: i molteplici casi medici e la costruzione della personalità dei dottori si frantumano in tante scene da pochi minuti, ma grazie alla visione progressiva, tutto va a formare un coerente e affascinante mosaico medico e umano. E così The Pitt affronta l’emergenza del Fentanyl ma anche tutte le carenze del sistema sanitario americano (e il trauma del Covid). È una serie liberal nel suo termine più antico e puro, e così la Tv torna a raccontare il reale unendo e facendosi forum di discussione (sempre Variety la vede ben messa nella corsa agli Emmy, gli Oscar della Tv).
A proposito di realtà americana, chissà cosa si inventeranno i coniugi King, autori dei legal drama The Good Wife e The Good Fight già molto critici sulla commistione tra tecnologia e potere. È stato infatti annunciato un loro progetto ambientato nella Silicon Valley. Intanto hanno scritto Elsbeth, in onda in Italia su Raidue: un’avvocatessa a New York investiga il mondo dei ricchi. Come ha spiegato al Montecarlo Tv Festival l’attrice Carrie Preston, che interpreta la protagonista della serie, gli autori volevano mettere in scena un pesce fuor d’acqua capace di smascherare quel mondo di privilegiati che crede di essere sopra la legge. Anche qui forse c’è qualche riferimento alla situazione attuale americana…
Carrie Preston in «Elsbeth»
Pure Shonda Rhimes – campionessa del medical grazie a Grey’s Anatomy – ha messo in scena in The Residence (Netflix) un giallo vecchio stile sul mondo dei ricchi (la Rassegna se ne è occupata con Eelena Tebano il 28 marzo). La detective Cordelia Cupp viene chiamata a indagare sulla morte del capo maggiordomo della Casa Bianca, dove scopre l’esistenza di due «famiglie» distinte: la servitù assunta in pianta stabile e i nuovi inquilini politici con i loro tirapiedi. Il delitto serve a smascherare la lotta di classe.
E poi ci sono i poliziotti speciali ma socialmente negletti (come Colombo!). La serie francese Morgane, in onda anche su Raiuno con discreti risultati, ha per protagonista una donna delle pulizie con un’intelligenza tale da venire assunta come consulente dalla polizia. C’è anche un bel po’ di romanticismo, con la storia impossibile tra lei e il capo detective (un po’ come succede in un altro poliziesco/legal nostrano, Imma Tataranni). Una serie con aspetti anche comici, che come spiega la protagonista Audrey Fleurot, deve qualcosa a un classico degli anni 80, Moonlighting, con Bruce Willis e Cybill Shepard. Fu capace di rompere gli schemi ibridando il poliziesco con la commedia e la love story in maniera così nuova da creare un genere a sé stante, il dramedy. In Morgane – come in Elsbeth e in The Residence – la protagonista è una donna over 40 fuori dagli schemi, e anche questo un modo per rinnovare il racconto televisivo (e aggiornare la rappresentazione della società americana, che non ha nulla a che vedere con l’essere «troppo woke»). Come Doc, anche Morgane ha avuto il suo remake in Usa: quella versione, dal titolo High Potential, è disponibile anche in Italia su Disney Plus. Certi generi fanno dei giri enormi, ma poi fedelmente ritornano.
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Rassegna cinematografica |
La vita che ti diedi: 4 (ottimi) film italiani sui rapporti tra genitori e figli |
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Figli problematici, senza agganci sociali, persi in un caos emotivo di origine spesso traumatica. Padri e madri distratti, assenti, deboli, immaturi, più problematici dei loro ragazzi. Famiglie disfatte, ammaccate, in piena anomalia sentimentale. Rette fatte per convergere che prendono tragitti imprevedibili.
Quanti spunti propone il cinema sul complesso rapporto tra padri e figli. Curiosamente, in questi giorni arrivano (o sono già in programmazione) quattro film italiani sul tema. Commedie, drammi, tragedie. Cinema sociale, ideale per una discussione. I quattro film sono:
- Una figlia di Ivano De Matteo (2025, durata 103’, esce il 24 aprile con 01 Distribution).
- La casa degli sguardi di Luca Zingaretti (2024, durata 109’, già nelle sale con Lucky Red).
- La vita da grandi di Greta Scarano (2025, durata 95’, già nelle sale con 01 Distribution).
- Nottefondadi Giuseppe Miale Di Mauro (2024, durata 89’, esce l’8 maggio con Luce Cinecittà).
UNA FIGLIA di Ivano De Matteo
La protagonista di Una figlia è Sofia (Ginevra Francesconi), 17 anni, liceale insonne, brava amazzone, insofferente alle regole, appiccicata a uno sbiadito fidanzatino. Il padre, Pietro (Stefano Accorsi), è un immobiliarista al galoppo che pensa più al padel e alle case da vendere che alla ragazza. La madre è deceduta da poco, lasciando un gran vuoto, anche perché Pietro, nel frattempo, si è risposato con Chiara (Thony), che era l’infermiera della defunta. Sofia la detesta e l’accusa di aver lasciato morire la madre. Chiara cerca di stabilire un contatto con la ragazza, conscia della sua sofferenza. Invano.
La tragedia è nell’aria. Così, in un turbolento pomeriggio, in un eccesso di furore, appare un coltello e Sofia uccide Chiara. Non andiamo oltre per non svelare eventi e misteri che accompagnano la storia in un crescendo, fino all’epilogo. Nel mezzo, ci sono la confessione di Sofia, le fatiche dell’avvocata che la difende (Michela Cescon), il carcere, lo sconforto, una doppia maternità e, finalmente, il difficile percorso di riabilitazione che diventa percorso di formazione e il tardivo perdono di Pietro. Con questo bagaglio di emozioni, Una figlia è un film amaro, straziato, il racconto di un incubo a occhi aperti, come lo definiscono a più riprese padre e figlia.
Stefano Accorsi e Ginevra Francesconi in «Una figlia»
LA CASA DEGLI SGUARDI di Luca Zingaretti
Come resistere al disagio di vivere? Se lo chiede La casa degli sguardi, prima regia di Luca Zingaretti, basato sul romanzo omonimo del poeta Daniele Mencarelli (Mondadori). Zingaretti con gli sceneggiatori Gloria Malatesta e Stefano Rulli racconta lo smarrimento del sensibile Marcolino (Gianmarco Franchini), 23 anni, poeta per vocazione ma da tempo dilaniato da un oscuro malessere. L’origine, anche qui, è la morte dell’amata madre. Da allora, da quel Big Bang, è iniziata una triste odissea di sbalzi d’umore, ricoveri, incidenti, scoppi d’ira che lo ha portato alla dipendenza dalle droghe e dall’alcol. «L’unica cosa che desideriamo davvero, con tutte le nostre forze, è essere visti, percepiti», dice Zingaretti. «Viviamo in una società che ha demonizzato il dolore. Il mio protagonista, Marco, affronta la sofferenza quando riesce ad accoglierla».
Marcolino sente sulle sue spalle tutto il dolore del mondo. Papà (lo stesso Zingaretti) è un uomo semplice, fa il tranviere sulla linea 19, a Roma, ed è attento ai bisogni del figliolo, ma incapace di capirli e domarli. Quel che riesce a fare è trovargli un posto in un’impresa di pulizie che lavora per l’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma. Stare a contatto con la sofferenza aumenta, se possibile, la depressione di Marcolino, che pure trova un rapporto umano con la squadra del burbero benefico Federico Tocci, con una disinvolta collega di cui fatica a innamorarsi (Chiara Celotto) e con un bambino che vede alla finestra dell’ospedale e con cui scambia dolci messaggi.
Zingaretti espone il suo dizionario del dolore che stravolge la vita e alza muri altissimi con il prossimo. «È importante avere una persona che ti dice: qualunque cosa accada io ci sono». Alla fine, Marcolino sale sul tram di papà, scrive una poesia e si addormenta.
Gianmarco Franchini e Luca Zingaretti in «La casa degli sguardi»
LA VITA DA GRANDI di Greta Scarano
La vita da grandi è quella a cui aspira Omar Nanni da Rimini (Yuri Tuci), un bel tipo di quarantenne affetto dal disturbo dello spettro autistico; quindi, con frequenti sbalzi d’umore e perdite di connessione con il mondo ma anche con idee ben piantate in testa. Omar vive con i genitori (Maria Amelia Monti e Paolo Hendel) e amerebbe conquistarsi un’indipendenza. Omar ha anche una sorella lontana, Irene (Matilda De Angelis), che si occupa di pubblicità e abita a Roma con il fidanzato (Adriano Papaleo).
La vita da grandi segna il debutto da regista di Greta Scarano, 38 anni, è prodotto da Grøenlandia e Rai Cinema, sceneggiato da Sofia Assirelli e Tieta Madia e ispirato al romanzo autobiografico Mia sorella mi rompe le balle di Damiano e Margherita Tercon (Mondadori, 2020).
Irene è scappata dalla «buca» romagnola e non avrebbe nessuna voglia di tornare indietro, se non fosse che la mamma deve farsi curare e solo lei può badare a quel fratellone indifeso, il quale peraltro nega di voler vivere con la sorella dopo la morte dei genitori, aspirando invece a sposarsi, fare almeno tre figli e diventare il frontman di «un gangsta rapper iper-autistico». Tutto cambia quando Omar finisce tra i candidati a un talent di successo, di cui ovviamente ignora tensioni e possibili delusioni. La diffidenza iniziale tra Omar e Irene a questo punto diventa complicità, comprensione, solidarietà. Il legame si approfondisce quanto serve per far pace con le comuni radici spingendo entrambi verso la maturità.
(Qui l’intervista di Candida Morvillo in cui Yuri Tuci racconta la sua vera storia: «A 18 mesi le prime avvisaglie dell’autismo, la diagnosi a 18 anni: ho provato a uccidermi. Recitare mi ha reso felice»).
Yuri Tuci e Matilda De Angelis in «La vita da grandi»
NOTTEFONDA di Giuseppe Miale Di Mauro
C’è un dolore profondo che scava nell’anima di Ciro: un lutto non elaborato gli toglie il sonno e la voglia di vivere, portandolo su strade pericolose. Vicino alla follia, Ciro (Francesco Di Leva) vaga di notte con il figlio tredicenne, Luigi (interpretato da Di Leva Jr, Mario), alla ricerca dell’auto rossa che ha travolto la moglie. Per lui non c’è sollievo: abita con la madre, ha perso il lavoro e a nulla vale la compagnia della bella dirimpettaia (Chiara Celotto) e dell’amico Carmine (Adriano Pantaleo) che vuole vendicarsi di colui che ritiene la causa del suicidio del suocero.
Il dramma di Ciro è alla base di Nottefonda, opera prima di Giuseppe Miale Di Mauro. Il film è un progetto – il primo realizzato per il cinema – del collettivo Nest (Napoli Est Teatro), fondato tra gli altri da Di Leva e Papaleo nel cuore di San Giovanni a Teduccio, uno dei quartieri più problematici della città. E da Nest, che svolge un’intensa attività sociale, viene l’intero cast artistico.
Francesco e Mario Di Leva in «Nottefonda»
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Rassegna musicale / 1 |
Neil Young, il figlio ribelle dell’America rurale che ci piace |
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«Ricordi il tuo cane da guardia? Beh, temo non ci sia più»Revolution Blues
C’è quel passaggio di Ligabue che dice «Certe notti la radio che passa Neil Young sembra avere capito chi sei» che dice molto del cantante canadese di 79 anni, 57 di carriera e un numero di dischi pubblicati incalcolabile, paragonabile ai romanzi di Simenon. Noi l’abbiamo sempre letta al contrario quella frase (la radio che passa Ligabue non ha capito chi siamo), ma è arrivato il momento di dare riconoscimento al cantante di Correggio di avere colto l’essenza di un musicista che non è solo un artista, ma per molti e per molti anni ha rappresentato qualcosa di più.
Daryl Hannah, l’attrice che l’ha sposato nel 2018, l’ha ritratto in «Coastal», un film che documenta il suo ritorno sulle scene dopo il Covid. Peter Bradshaw, del Guardian, lo ha apprezzato fino a un certo punto. Belle le scene in cui canta, ma tutto quel materiale girato sul bus, dove Young parla di nulla insieme all’autista Jerry Don Borden, «è, come dire, poco interessante». Sul sito della Bbc, Mark Savage, vedi come i punti di vista possono essere ribaltati, trova quelle scene «meravigliosamente banali». E in fondo, dice Hannah, è proprio quella la chiave per capire Neil e la sua (di Daryl) voglia di mettere in scena la normalità:
«Molti artisti mettono in scena un personaggio, Neil non ha affatto quella qualità. Qualunque cosa stia dicendo con l’autista del suo autobus, continua a parlarne con il pubblico. La gente pensa a lui come a una persona intimidatoria e imperscrutabile, ma non è così. Ha una dedizione assoluta e straordinaria alla sua musa creativa. Non è guidato da interessi finanziari, non è guidato dall’autoesaltazione, non è guidato da nient’altro che dalla sua forza creativa, ed è davvero incredibile vederlo. Avendo trascorso così tanto tempo con lui, la mia impressione è che sia completamente ingenuo. Ha un sacco di calore e innocenza, quindi volevo mostrarlo».
Neil Young, 79 anni
Ingenuo, forse, ma uomo tutto d’un pezzo, con una sua etica rabbiosa che ogni tanto affiora e – nonostante il soprannome «The Looner», il solitario – una militanza politica ultradecennale. Nel 1970 firmò «Ohio», in omaggio ai quattro studenti morti in una manifestazione per la pace, che divenne uno dei primi inni antimilitaristi. Nel 1974 cantava di Nixon, in «Ambulance Blues»: «Non ho mai conosciuto un uomo che dice tante bugie». Poi ha attaccato Reagan, i due Bush, la Monsanto, Starbucks, i giganti delle piattaforme. Nel 2016 protestava e cantava insieme ai nativi indiani a Standing Rock. Quest’anno ha deciso di abolire nei suoi concerti i biglietti platinum (ad alto costo), sulla scia di Robert Smith. E quando Joe Rogan, nel 2022, fece uno dei suoi podcast complottisti sul Covid, Young per protesta ritirò per molti mesi la sua musica da Spotify.
Con Donald Trump ha un dissing lontano nel tempo. Da anni, dal suo primo mandato, il tycoon insiste nell’usare le sue canzoni per i comizi. Young ha prima protestato e poi gli ha fatto causa: «Non può usare la mia musica per campagne d’odio». La scorsa settimana Young ha fatto un’apparizione al comizio di Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders a Los Angeles. Ora ha detto, con la sua consueta sincerità, che dopo il tour europeo non è così sicuro di poter rientrare in America, pur avendo la doppia cittadinanza, canadese e americana (presa con fatica nel 2020, dopo molti interrogatori, nonostante viva là dal 1965): «Potrei essere uno di quelli che tornano in America e vengono banditi o messi in prigione a dormire su un pavimento di cemento con una coperta di alluminio». Del resto, ha definito Trump «una vergogna per il mio Paese». Il tour europeo comincia il 18 giugno in Svezia, doveva essere preceduto da un concerto gratuito in Ucraina, annullato per questioni di sicurezza.
Neil Young, a destra, con Paul McCartney nel 2016 (Afp)
Non tutto nella vita di Young è andato per il verso giusto, e come poteva essere altrimenti. David Crosby – racconta Giovanna Taverni sul Domani – lo ha descritto come «un egoista». Con Still e Nash i rapporti sono migliorati, ma mai fino a far scattare la reunion («state pisciando nel vento», cantò di loro). La sua musica è stata in tutti questi anni malinconica, dolce ma mai sdolcinata, selvaggia, emozionante, avventurosa, infelice, ruvida, carezzevole, sognante, aspra, estenuante. Sperimentatore e tradizionalista insieme, ci ha deliziato e ammorbato con interminabili, lancinanti e straordinari assoli di Gibson Les Paul. A George Harrison non piaceva il suo modo di suonare la chitarra, «sembra un buffone, ci mette troppa improvvisazione». Poi ti rivedi il video unplugged di Needle and the damage done e pensi ok, amico George, il tuo assolo in «Something» non è niente male, ma giù le mani da Neil.
Ha scritto Michel Houellebecq: «Le canzoni di Neil Young sono fatte per coloro che sono spesso infelici, solitari, che sfiorano le porte della disperazione; ma che continuano tuttavia a credere che la felicità sia possibile».
Ora Young è un dinosauro fuori moda, ascoltarlo alla radio è un miracolo, ma lui continua imperterrito all’alba degli 80 anni, nonostante diabete, poliomelite, epilessia e un aneurisma. Suona in mezzo agli animali, come nel live Coastal. O come quando, durante il lockdown, si esibì in diretta streaming dal fienile della sua fattoria in Colorado, circondato da alpaca, anatre, galline e un cavallo. Raccontò una volta di avere avuto un lavoro normale da ragazzo: «Leccavo francobolli. Durò un paio di settimane».
L’ex membro dei Buffalo Springfield è ancora il figlio ribelle di un’America semplice, rurale, ma appassionata, impegnata, onesta, solidale. Il nostro eroe che, come il rock and roll, can never die, non morirà mai. Come cantava in Hey Babe, «So che tutte le cose passano, cerchiamo di farle durare».
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Rassegna musicale / 2 |
La Playlist della settimana: Bon Iver, Black Country New Road, Neffa & Young |
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Oggi abbondiamo con quattro brani, forse perché non ce n’erano di indimenticabili, quindi suppliamo con la quantità alla qualità. Eccoci alla nostra Playlist della settimana, con le nuove canzoni selezionate secondo il nostro sindacabilissimo gusto. La trovate qui.
Bon Iver – «SABLE fABLE» – «There’s a rhythmn»
Dice che questo è l’ultimo disco di Justin Vernon nelle spoglie di Bon Iver, come dimostrerebbe l’ultima canzone del disco, intitolata «Au revoir». Vedremo, non ci stracciamo le vesti, c’è una guerra mondiale che incombe, sopravvivremo (alla fine di Bon Iver, alla guerra chissà). Questo SABLE, fABLE, scritto proprio così (prima o poi ci si stancherà dei giochini con m maiuscolo-minuscolo), è un disco piacevole. Qualcuno dice che è il più maturo e solare (nella parte fABLE). Può darsi, a noi non fa impazzire, ma per dovere di cronaca segnaliamo e ascoltiamo.
Black Country, New Road «Forever Howlong» – «Besties»
C’è del barocchismo folk e pure prog, con quei flauti teatrali, il clavicembalo, le tastiere e le voci, flautate pure loro. Disco talvolta stucchevole, ma «Mary» sembra raggiungere uno stato di grazia, con l’incrocio delle voci femminili che hanno preso il posto di Isaac Wood, da tempo è uscito dal gruppo, novello Jack Frusciante. Noi sentiamo volentieri anche «Besties».
Neffa – Canerandagio Parte 1 – «Bufera»
All’epoca ci divertì il tradimento di Neffa che, dopo un’onorata carriera prima nell’hardcore punk e poi come pioniere del rap, e il successo con i Sangue Misto, nel 2001 se ne uscì con il brano perfetto per épater les rappeurs, «La mia signorina». Scanzonata, divertente, perfetta per far urlare al tradimento. Dopo 25 anni, a 57 suonati, Neffa torna a rappare. Disco non indimenticabile, pieno di collaborazioni: Guè, Fabri Fibra, Izi, Miss Keta, Fra Quintale, Joan Thiele, Gemitaiz, Francesca Michielin. Noi scegliamo «Bufera», con Franco 126.
Neil Young – «Coastal» – «Throw your hatred down»
Di lui abbiamo parlato a lungo qui sopra. È appena uscito come singolo una versione live di «Vampire Blues», che fa parte della colonna sonora del documentario «Coastal». Dall’album «On the Beach», disco di culto, uno dei più belli e più deprimenti del cantante. Noi mettiamo in playlist però «Throw your hatred down», versione folk del brano tratto da «Mirror Ball». Senti un accordo di chitarra e sei già con lui.
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