Il processo sarà rievocato presso la Università della Terza Età in Santa Maria Capua Vetere venerdì 17 alle17,30 nella sede di via Tari
Un ex monaco uccise il padrone a coltellate e strangolò la figlia 18enne
Accadde a Santa Maria Capua Vetere nel luglio del 1870 in casa del ricchissimo Michele Visconti. Il movente era da ricercarsi nel licenziamento in tronco per scarso rendimento. Dopo il delitto occultò i cadaveri nella cantina del palazzo. Sottrasse ori, diamanti e fedi di credito del Gran Libro del Debito Pubblico del Regno d’Italia per vari milioni. Giudicato dalla locale Corte di Assise fu condannato a morte. Alla difesa due tra i più importanti avvocati dell’epoca: Pietro Rosano e Francesco Girardi.
Le cronache dell’epoca raccontano che Antonio Bottillo, 37 anni, da Cervinara, ex monaco terziario nel convento dei Francescani a Napoli, dopo aver sedotta una minorenne, era fuggito da Napoli e venuto a Santamaria era stato assunto come servitore presso la ricca famiglia dei Visconti.
Il 14 luglio del 1870, una mattina, appunto verso le sette, appena abbrustolito il caffè, aggredì e uccise a coltellate il suo padrone Michele Visconti; poi, recatosi nella camera da letto dove dormiva strangolò la figlia Rosina, una giovanetta di appena 18 anni.
Dopo il duplice delitto scavò una fossa nella cantina di casa e vi seppellì i due cadaveri. Motivo? Il padrone gli aveva detto che non sapeva cucinare e lo aveva minacciato di licenziamento.
Per occultare il suo duplice omicidio il Bottillo a chi cercava (parenti amici e conoscenti) notizie sulla scomparsa del padre e della figlia narrava che i due erano andati per un certo tempo in vacanza a Napoli e facevano i bagni tra Lucrino e Ischitella e che lui li aveva accompagnati fino all’angolo di Corso Garibaldi per aiutarli nel peso del loro baule.
Per accreditare ancora di più la tesi dell’allontanamento volontario aveva fatto sparire gli indumenti dei due, sottratto ori e fedi di credito fedi di credito del Gran Libro del Debito Pubblico del Regno d’Italia, per vari milioni, che aveva ricettato poi presso un personaggio napoletano coinvolto nel processo, tale Giovanni La Ruffa.
Il Parrillo, dopo molti giorni contattava la sorella del suo padrone alla quale consegnava le chiavi della casa e si recava a servire in Castellammare presso la famiglia del barone Castaldi.
Mentre trascorreva il tempo – i familiari erano sempre più allarmati – tanto è vero che il locale Pretore effettuò una sortita nel palazzo Visconti, ma parve tutto in ordine. Non furono rinvenuti nè segni di sangue né effrazioni o tracce di colluttazioni o altri indizi che portassero al duplice efferato crimine.
Dopo qualche tempo – poiché erano risultate vane anche le ricerche effettuate dalla polizia nella zona di Lucrino, Lago Patria, Ischitella e Pozzuoli – il Pretore fu spinto ad effettuare un nuovo sopralluogo nel palazzo Visconti.
Questa volta le ricerche più approfondite portarono alla scoperta dei cadaveri – trovati coperti di terriccio – seppelliti nella cantina della casa.
Con la perizia generica e le autopsie risultò che Michele Visconti era stato ucciso con tre colpi di coltello al collo e al capo. Ed altre ferite che si trovavano in altre parti del corpo. I periti accertarono inoltre che il Visconti era stato ucciso mentre era a letto con armi diverse. Si accertava anche che la giovane Rosina era stata uccisa con un colpo alla testa ed era stata strozzata con un laccio di piccole dimensioni.
A questo punto Antonio Bottillo fu arrestato a Castellammare di Stabia a tradotto nelle carceri San Francesco della città del Foro.
Interrogato diede una versione inverosimile del duplice delitto. Narrò che il 14 luglio del 1870 il padre e la figlia verso le sette di mattina entrarono nella cucina dove lui era per apparecchiare il caffè e gli imposero di allontanarsi da casa in virtù della diffida già fatta giorni prima del licenziamento.
Che lui, adirato, aveva replicato ed il padrone aveva ingiunto alla figlia di correre nella camera attigua a prendere la pistola e nel contempo gli aveva mollato solenni ceffoni.
Trovandosi quindi in imminente pericolo di vita (una legittima difesa reale o putativa… ma inventata!) aveva accoltellato il padrone che cadde sul pavimento e lui aveva continuato ad infierire sul cadavere (ecco la risultanza della perizia e delle tracce degli altri colpi sul corpo) e liberatosi così del padre era corso incontro alla figlia e l’aveva strangolata con la sua stessa treccia.
La Sezione di Accusa non ritenendo affatto vere le circostanze inventate al solo scopo di mettere in campo una provocazione contestò al Bottillo il reato di duplice omicidio aggravato dalla premeditazione (il secondo delitto eseguito per assicurarsi l’impunità del primo) il furto vari oggetti e denaro, il tutto aggravato dalla sua qualità di servitore. Allo stesso tempo venne incriminato il ricettatore presso il quale furono rinvenuti gli oggetti.
Il relativo processo – definito dalla stampa dell’epoca – “uno dei processi più celebri ed interessanti nei fasti della giustizia penale”- si svolse nel 1871 presso la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere di cui era Presidente Francesco Santamaria; la pubblica accusa venne sostenuta dal pubblico ministero, il procuratore generale Cesare Oliva; gli avvocati difensori, per Bottillo furono Pietro Rosano (allievo di Nicola Amore) e Francesco Girardi (allievo di Leopoldo Tarantino); per il ricettatore napoletano l’avvocato Niccola Mottola. La privata accusa fu sostenuta dall’avvocato Francesco D’Amore (unico avvocato sammaritano amico di famiglia delle vittime).
Dopo un anno dal delitto fu celebrato il processo. In apertura del dibattimento la relazione del presidente che riassunse il duplice efferato delitto provocò il raccapriccio ( orrore e ripugnanza) dei presenti. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale fu prima interrogato l’imputato il quale cercò, prima di negare poi di sminuire le sue responsabilità accreditando la tesi della provocazione.
Subito dopo furono interrogati i numerosi testimoni: Maria Sticco, moglie separata e madre naturale della Rosina Visconti; il commissario di polizia, Achille Magliano; l’ex cuoco della famiglia Visconti, il napoletano Pasquale Zarlengo; il medico di famiglia Dr. Pietro Morelli (forse quello a cui poi è stata intitolata una strada a Santamaria); il calessiere, o cocchiere, Raffaele Avenia, che condusse in carrozza il Bottillo a Napoli; il sacerdote Raffaele Fratta; i barbieri Abramo Pagano e Aniello Bizozzero; la capera, Caterina Cipullo, che curava i capelli della giovane Visconti; Padre Salvatore Candido, da Napoli, che svelò le precedenti disavventure del monaco (stupratore, vinaio, rapinatore); i suoi ex servitori, Nicola Manone e Giovanni Teti; Giulia Della Corte, amica della giovane uccisa; Teresina Bobbio e Rachele Panaro, altre amiche della vittima. L’apprendista notaio Enrico Code, che la mattina del delitto aveva un appuntamento con Michele Visconti per discutere di alcune rendite.
Fu poi la volta dell’avvocato Francesco D’Amore della parte civile il quale concluse:
“Ecco, o giurati, come il complesso delle pruove morali e la stessa perizia generica, sbugiardono i fatti raccontati dal Bottillo e gli gridano: bugiardo tu mentisci!”.
“Resterebbe ora a dimostrare come gli omicidii commessi dall’Accusato in persona dei due Visconti siano accompagnati da varie circostanze aggravanti; ma questo non è mio compito, sibbene del valentissimo Magistrato che sostiene l’accusa pubblica”.
Quindi – nella udienza successiva – prese la parola la pubblica accusa che a conclusione della sua requisitoria chiese una condanna esemplare:
“Io, senza trattenermi su quelle circostanze che con tanta chiarezza vi sono state esposte, assumo semplicemente a dimostrarvi:
”1) Che la scusa di provocazione messa in campo dall’accusato non può concedersi. 2) Che il primo omicidio commesso dal Bottillo in persona di Michele Visconti, sia accompagnato dall’aggravante della premeditazione. 3) Che l’altro in persona della figlia di costui, parimenti premeditato, sia stato perpetrato per assicurare la impunità al colpevole. 4) Che nel furto, dal medesimo commesso, vi sia una triplice qualifica. 5) Ed infine che il La Ruffa sia colpevole di ricettazione di oggetti furtivi, senza precedente concerto cogli autori del reato”.
“Quando noi diciamo, o giurati, che il Bottillo si è reso colpevole di doppio omicidio, diventando due volte assassino, quando noi vediamo commettersi da quest’uomo tanta scelleraggine, sentiamo quasi il bisogno di studiarne la vita, di guardarne la storia”.
“Dunque, o Signori, sia che l’omicidio di Michele Visconti fosse stato consumato nella sua stanza da letto; sia che fosse avvenuto in cucina, l’ assassino premeditò sempre il misfatto”.
“Sì, anche sua figlia, che il monaco volle parimenti uccidere. Tanta venustà, tanta bellezza, non bastarono ad intenerire l’ex terziario che aveva deciso irrevocabilmente in cuor suo di metterla con mano sacrilega a morte”.
“Per quella disgraziata, o signori, quando l’infame Bottillo le si avventò contro per strangolarla, non vi era più scampo, non vi era più ancora di salvezza per lei”.
“Sì, o signori, non v’era più alcuno che potesse aiutarla, soccorrerla, dalla brutale ferocia di quella iena non ancora paga del primo assassinio”.
“Ricordate quella terribile scena di morte avvenuta in casa Visconti, e poi pronunziate una parola sola di scusa per l’assassino Bottillo, che io tronco il mio dire e v’aspetto!!!”.
“Signori Giurati,
“II contegno stesso del Bottillo, serbato dopo il misfatto, non vi mostra forse che egli ha premeditato? Quella calma, quella freddezza, quel cinismo, non rivelano forse lunga meditazione? Se quelli fossero stati omicidii d’impeto, egli non sarebbe rimasto tanto tempo in quella casa e messo ogni studio a far sparire le tracce per assicurarsi l’ impunità; ma invece sarebbe immediatamente fuggito”.
“Quel sepolcro fatto con tanta perfidia e con tanta astuzia in un luogo così nascosto, dovette essere scavato mentre il Visconti e sua figlia respiravano ancora!“.
“Signori Giurati: ai grandi delitti, grandi espiazioni !!!”.
“Antonio Bottillo ha avuto quanto si poteva aspettare dalla giustizia degli uomini; la garentia della sua persona, la forma solenne dei giudizii, la difesa della sua causa, tutto insomma”.
“A lui non resta che rivolgersi al Cielo, poichè non ha nulla più a pretendere dai giudici di quaggiù”.
Nelle udienze successive le arringhe degli avvocati difensori spinsero molti sammaritani a gremire le aule del Tribunale. Qual giorno in Corte di Assise si registrò il pienone. Il primo a prendere la parola fu l’avvocato Pietro Rosano (*).
“Signor Presidente, signori Giurati innanzitutto mi domando:
“Dove fu ucciso Michele Visconti?”.
“La parte Civile, sosteneva che tale omicidio fosse avvenuto nella stanza da letto. Il P. G. invece osservava essere per lui indifferente determinare il luogo”.
“Per me, difensore di Antonio Bottillo, un abisso separa le due ipotesi. E perchè con precisione io possa assodare questa circostanza tratterrò la questione, considerandola dal doppio punto di vista, sperando così di assodare in qual luogo il Visconti abbia incontrato la morte”.
“I periti, o Signori, considerando che le ferite erano tutte orizzontali, e che sotto il letto dell’ucciso fu trovata una macchia di sangue, ritennero che il Visconti fosse stato ucciso mentre dormiva”.
Dopo circa tre ore di oratoria, l’avvocato Rosano che aveva tentato in tutti i modi di dimostrare che i due delitti non erano premeditati (perché l’aggravante della premeditazione portava alla via del patibolo) senza riuscirvi così concluse:
“Ricordate, o giurati, ricordate che il Bottillo ha scavato in luogo così recondito quelle tombe che dovette preparare prima dell’assassinio, ricordate che egli ha dormito per sei lunghissime notti nel palazzo stesso degli assassinati e poi ditemi se vi è premeditazione”.
“Ma chi vi dice che l’ accusato non appena uccise i due Visconti andò immediatamente a seppellirli nella cantina? E come si fa a supporre che non avesse allora propriamente cominciato a scavare quel sepolcro?”.
“Se si fosse il giorno stesso proceduto a visita domiciliare ed i cadaveri fossero stati già ritrovati seppelliti, allora sì che si potrebbe dire: il servo aveva premeditato l’ assassinio; ma quando invece si va in quel palazzo dopo parecchi giorni, e dopo molto tempo si trova il corpo del reato, non si può inventare una circostanza, che ammessa, farebbe troncare la testa dal busto di un uomo!”.
“Dunque o giurati nè la causale che risulta dal processo è sufficiente, nè le circostanze tutte del fatto addimostrano in modo alcuno la premeditazione”.
“Quello che noi sappiamo solamente di certo si è che due eccidi si sono commessi e che di questi sia autore il Bottillo”.
“Punitelo severamente sì, ma che la punizione non sia esagerata!”.
(*) Rosano quando pronunciò l’arringa in difesa di Bottillo aveva 30 anni. E’ stato un politico e avvocato italiano. Divenne poi Ministro delle Finanze e Deputato del Regno d’Italia (nato a Napoli, 25 dicembre 1846 – Napoli, 9 novembre 1903) Sostenitore dello statista Giovanni Giolitti, fu deputato al Parlamento rappresentando il collegio di Aversa quasi ininterrottamente dall’ottobre 1882 al 1903, sottosegretario al ministero dell’Interno (1892-93) e ministro delle Finanze del Regno d’Italia nel secondo esecutivo guidato dallo statista piemontese, che prima di lui aveva pensato, per l’incarico, ad esponenti della sinistra.
Fu penalista principe, la sua parola penetrante e affascinante, vinse in tutti i tribunali d’Italia e nei processi più difficili. Cognato dell’avvocato e filantropo Gaspare Colosimo, fu allievo dell’avvocato e sindaco di Napoli Nicola Amore. (quest’ultimo nato, come sapete, a Roccamonfina ).
Poco dopo che il Governo Giolitti II ottenne la fiducia alla Camera dei deputati, socialisti, repubblicani e radicali lanciarono contro di lui una campagna di attacchi personali e Rosano, non abituato a tali aspri scontri politici, si suicidò proclamando la sua innocenza.
La città di Aversa gli ha intitolato una strada ed eretto un monumento marmoreo nella Villa comunale. Erroneamente le biografie riportano Pietro Rosano nato ad Aversa. Invece nacque a Napoli il 25 dicembre 1846 in via Ventaglieri come riportato nell’unico libro-biografia “Il giglio e la sua ombra” di Allegro Fortunato, docente di Storia e Filosofia nei licei.
Il secondo difensore di Bottillo fu Francesco Girardi (*). La sua arringa quanto alle argomentazioni, non fu molto lunga, poichè la causa era stata già ampiamente trattata dal suo collega Rosano; però con quella facilità di parola che tanto lo distingue, parlò molto tempo al cuore de’ giurati, interessandoli perché dessero almeno le circostanze attenuanti all’accusato, dando così un ultima smentita a quelli che ritengono sia necessario il carnefice.
Quindi i giurati si ritirarono in camera di consiglio e alle questioni loro presentate i giurati risposero affermativamente ritenendo i due imputati colpevoli secondo l’accusa. Il Bottillo cioè di due assassini per premeditazione in persona del padre e figlia Visconti, e colla qualifica bensì di essere stato il secondo, commesso allo scopo di occultare il primo. Il La Buffa poi di ricettazione di oggetti furtivi senza precedente concerto coll’autore del furto. A costui furono accordate le circostanze attenuanti. La Corte condannò il primo alla pena di morte ed il secondo a 4 mesi di carcere computandosi il carcere già sofferto.
Non appena il presidente ebbe letta la sentenza colla quale al Bottillo veniva comminata la pena di morte, s’intese nella sala un vivo mormorio di gioia e molti applausi.
Il Presidente allora diè immediatamente ordine ai Carabinieri di fare sgombrare la sala, rivolgendo al pubblico le seguenti gravi parole: “Questa gioia feroce è indegna di un popolo civile”.
Eseguito l’ordine si lesse il resto della sentenza. Il condannato Antonio Bottillo protestò subito di ricorrere in Cassazione, e come egli disse di volere appellare per Napoli, rinunciando al Circolo di S. Maria.
(*) Francesco Girardi nacque a Napoli il 12 febbraio del 1842 . Giovanissimo, si laureò in giurisprudenza a Napoli, specializzandosi in diritto penale con Enrico Pessina. Dopo aver superato una dura selezione, il 10 luglio 1864 entrò in magistratura, ma ben presto rinunciò a quella che si preannunciava come una fortunata carriera per tornare alla professione forense.
L’esordio nella famosa causa detta “del lampionaio”, in cui riuscì a evitare il patibolo al suo assistito, e la successiva partecipazione al processo che prese il nome dall’ Hôtel du Globe fecero di lui in poco tempo uno dei più affermati penalisti della città.
Alla morte di Leopoldo Tarantino, suo maestro, il GIRARDI fu, con votazione unanime, designato a prenderne il posto nel consiglio dell’Ordine degli avvocati.
I pregi dell’arte forense del Girardi risiedevano in una retorica ordinata, mai appesantita da vacui orpelli, improntata a una estrema chiarezza e a una logica rigorosa, che “aborriva dal volgare cavillo e dai leziosi lenocinii”.
Non mirava mai a impietosire i giudici, né a smuovere gli affetti, preferendo elaborare convinzioni ragionate supportate da una vasta cultura giuridica, da un ingegno vivace e da una tempra impetuosa. Fu sindaco di Napoli ed entrò alla Camera dei deputati nel 1892, restò in Parlamento fino alla sua morte.
Il processo – grazie al ritrovamento del carteggio originale da parte del giornalista Mauro Nemesio Rossi (che sarà presente nell’occasione) verrà rivisitato in una edizione inedita elaborata dal cronista giudiziario Ferdinando Terlizzi (che è anche responsabile dell’ufficio stampa) nell’Aula Magna dell’Università della Terza Età di Santa Maria Capua Vetere, venerdì 17 maggio alle ore 17,30.
Nella ricostruzione storica la parte dell’avvocato difensore dell’imputato sarà sostenuta da Francesco Tavera. Gli interrogatori dell’imputati saranno rievocati da Gennaro Stanislao, mentre quelli dei testi saranno presentati da Salvatore Romano. La privata accusa sarà sostenuta da Antonietta Barbato e quella della pubblica accusa nel ruolo del procuratore generale da Francesco Pecoraro, mentre il compito di condurre il dibattimento sarà appannaggio di Ferdinando Terlizzi.