IL DIBATTITO INIZIATO DA WOODCOCK
Caro Caselli, sul 41bis sbagli, ci porti allo stato d’eccezione
Replicando al collega Woodcock, l’ex procuratore antimafia tralascia del tutto il dato normativo, usa parole feroci: per lui l’affiliazione mafiosa “può cessare solo col pentimento/confessione, o con la morte”. Ma per la Costituzione nessuno è mai perso per sempre. I regimi ad hoc, come il carcere duro, conducono al diritto penale del nemico a cui non vanno riconosciuti diritti, né garanzie.
Giunge inatteso il dibattito sulle criticità del 41bis avviato dal procuratore Henry J. Woodcock sulle pagine del Fatto Quotidiano (6 novembre). Così inatteso – per firma, tema e tribuna – da strappare un plauso ai direttori del Foglio (7 novembre) e di questo giornale (10 novembre). Come insegna il vangelo, “oportet ut scandala eveniant”, specialmente quando squarciano il velo dell’apparenza rivelando la realtà delle cose. È questo il caso, grazie anche ai successivi interventi dell’ex procuratore antimafia Giancarlo Caselli (8 novembre) e del pm Luca Tescaroli (13 novembre), ospitati sul quotidiano di Marco Travaglio.
Woodcock sospetta che il 41bis sia un regime punitivo inteso a fabbricare pentiti. Lo nega invece Tescaroli: la ratio dell’istituto è tutelare la collettività, interrompendo le comunicazioni con l’esterno di capimafia finalmente dietro le sbarre. Che cosa prevede il 41bis? “La facoltà di sospendere, in tutto o in parte”, e solo temporaneamente, talune regole del trattamento penitenziario, all’unico fine di “impedire i collegamenti” tra il dentro e il fuori. È davvero così? Verifichiamolo empiricamente. Accade di rado, ma accade che un tribunale di sorveglianza revochi a un detenuto il regime del 41bis. La notizia non passa mai inosservata: la stampa amplifica lo sconcerto dell’opinione pubblica, alimentato da sponde parlamentari e sdegnate arene televisive. Eppure, se il magistrato ha così deciso è perché ha verificato, nel caso concreto, che non ricorrono più i presupposti per l’applicazione del regime speciale: cioè che il cordone ombelicale tra quel detenuto e il sodalizio criminale esterno è stato reciso. Il 41bis ha, dunque, raggiunto il suo fine (dichiarato). Il magistrato si trova, così, nel tritacarne mediatico avendo semplicemente applicato la legge per ciò che essa espressamente prevede.
È un paradosso che scaturisce, svelandola, da una premessa normativa fasulla. Simili grida, infatti, rivelano l’autentico fine del 41bis: indurre alla collaborazione con la giustizia o punire chi non collabora, attraverso un regime aspramente afflittivo mascherato da misura di prevenzione.
Questa (mal)celata finalità emerge anche dalla difficoltà di ottenere la revoca del 41bis in modo diverso dalla collaborazione. Il regime speciale ha durata pari a quattro anni, prorogabile per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. A giustificarlo è la circostanza che “vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti” tra l’associazione criminale e il detenuto. Spetta a lui dimostrare il contrario, ma come? Per legge, il mero decorso del tempo – lustri, se non decenni, trascorsi isolati in “carcere duro” – non costituisce, di per sé, elemento sufficiente. Gli indizi su cui può fare leva il ministro di Giustizia nel disporre la proroga (dal profilo criminale del reo al suo ruolo apicale, dal tenore di vita dei familiari alla perdurante operatività dell’associazione a delinquere) sono vere e proprie presunzioni legali. Finisce così per gravare sul detenuto la pretesa dimostrazione dell’inesistenza di suoi legami con l’esterno. Una prova negativa, dunque. Ma la prova negativa di qualcosa che non esiste appartiene alla sfera della teologia, non del diritto processuale.
Si spiega così la serialità stereotipata dei rinnovi del regime speciale, giustificati con un inespugnabile condizionale: “potrebbe ancora…”. Si può dire anche così (cfr. Commissione Antimafia, 9 luglio 2002): “Le motivazioni delle proroghe appartengono a quella categoria di cose che si firmano previa bendatura degli occhi”; l’opposizione a tali proroghe “è quasi una probatio diabolica”; “l’inversione dell’onere della prova è una questione sempre molto borderline, se non oltre il borderline”. Così si esprimeva l’allora sottosegretario alla Giustizia, e già membro del pool palermitano antimafia, Giuseppe Ayala, alla vigilia della legge n. 279 del 2002 che stabilizzerà nell’ordinamento il 41bis, trasformandolo da misura emergenziale a strumento ordinario di politica criminale. Gli oltre 600 detenuti in 41bis (e gli oltre 1.000 pentiti sottoposti a speciale regime di protezione) sono lì a dimostrarlo: su ciò, Woodcock ha ragione.
Dal dato normativo, invece, Caselli prescinde del tutto. Ad esso antepone convinzioni maturate “sul campo” della lotta alla mafia, espresse con parole di rara ferocia nella loro inappellabilità: pentimento “significa solo confessione” e “confessione significa delazione”, poiché l’affiliazione mafiosa “può cessare solo col pentimento/confessione o con la morte”. Testuale. Il presupposto di tale ragionamento è che per i membri della criminalità organizzata non è possibile alcuna prospettiva di recupero, perché è un dato storicamente e culturalmente certo che mafiosi non si diventa per scelta: mafiosi si nasce. Da qui la “regola” – conclamata anche da Tescaroli – per cui da Cosa nostra non si può uscire “se non con la morte o il tradimento”.
È un argomento ontologico che riveste assunti sociologici da verità fattuali incontrovertibili. Soprattutto, evita di fare i conti con la Costituzione secondo cui nessuno è mai perso per sempre: parlando di risocializzazione del “condannato”, infatti, il 3° comma dell’art. 27 usa deliberatamente la forma singolare.
Perché l’esecuzione penale riguarda singole persone, e non organizzazioni criminali. Perché – come si legge nella sent. n. 148/2019 della Corte costituzionale – “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile, ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. Da giuristi, Caselli e Tescaroli non possono ignorare il principio costituzionale “della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (così, ancora la sent. n. 148/2019).
Conosco l’obiezione: davanti a mostruose biografie criminali, l’orizzonte di una risocializzazione è colpevolmente irenico. Anche in questi casi, però, resta fermo il divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanità: è un limite negativo che il regime differenziato del 41bis travalica?
Lo adombra Woodcock, cui Caselli contrappone l’alternativa di un progressivo ritorno al passato, quando in carcere comandavano i mafiosi, giustificando una modulazione della detenzione sulla caratura criminale del reo: “in breve, il 41bis “punisce” la maggior pericolosità dei mafiosi irriducibili”. Senonché, a dispetto della sua denominazione gergale, il “carcere duro” non è – né può diventare – una pena ulteriore, di specie diversa, più afflittiva delle altre, neutralizzatrice, riservata a determinati detenuti.
Qui il dato normativo recupera tutta la sua cogenza: le misure penitenziarie legittimate dal 41bis devono essere finalizzate all’unico scopo di interrompere la catena di comando tra chi è in galera e chi è fuori. Diversamente, la misura applicata è illegittima perché “puramente afflittiva” (sent. n. 351/1996 della Corte costituzionale).
Che così debba essere lo ammette persino Tescaroli (“il 41bis non è una ulteriore pena afflittiva”), denunciando il problema della carenza di spazi detentivi “rispondenti a esigenze di umanità, idonei ad assicurare l’isolamento effettivo”. Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra, sottaciuta, è l’applicazione di uno stillicidio di misure – dettagliate da severissime circolari ministeriali – che vanno a comporre un trattamento degradante per la dignità di detenuti i quali, ancorché irredimibili, restano esseri umani.
È questa la preoccupazione che percorre, come un filo conduttore, le principali indagini sul regime del 41bis: la relazione della Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani nella scorsa legislatura, il report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura all’indomani della visita in Italia nel marzo 2019, il rapporto del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, reso noto nel febbraio 2019 dopo aver visitato tutte le sezioni per detenuti in 41bis. Non si spiegano altrimenti le numerose questioni di costituzionalità promosse dalla magistratura di sorveglianza sul 41bis, come pure le non poche pronunce contro l’Italia della Corte europea dei diritti umani, pronunciate in relazione a specifiche applicazioni del regime speciale.
L’art. 41bis esprime, de jure e de facto, la tendenza normativa a configurare i detenuti per “tipi di autore”, individuati sulla base del titolo astratto del reato commesso, e per i quali opera di default un regime ad hoc (processuale, penitenziario, premiale, giurisdizionale). Nei loro confronti il momento dell’esecuzione penale, invece di guardare (come dovrebbe) a un futuro possibile, risponde a esigenze investigative e di difesa sociale. Costi quel che costi.
Magistrati di grande esperienza e preparazione, la cui biografia fa tutt’uno con il rispetto sacrale della legalità, dovrebbero ben sapere che questo “doppio binario” rischia di condurre, progressivamente, sul binario morto dello stato d’eccezione e del diritto penale del nemico, cui non vanno riconosciuti né diritti né garanzie. Chi teme questa deriva, ritiene che il contrasto alla criminalità organizzata non debba essere impermeabile alle regole e ai limiti imposti dal costituzionalismo, italiano ed europeo. Perché non è vero che il fine giustifica i mezzi. È semmai vero il contrario: in una democrazia costituzionale, sono i mezzi a prefigurare i fini. Ecco perché certi mezzi sono fatti oggetto di divieto assoluto e incondizionato, anche in caso di “pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” (art. 15 Cedu). Il divieto di trattamenti inumani e degradanti è esattamente uno di questi.
Il dibattito è destinato ad allargarsi: il 24 marzo 2021, infatti, è calendarizzata a Palazzo della Consulta la quaestio sul divieto di concessione della liberazione condizionale all’ergastolano non collaborante, condannato per un reato associativo incluso nella black-list dell’art. 4bis, 1° comma, dell’ordinamento penitenziario. Se ne è già parlato su queste pagine (Il Riformista, 9 luglio). L’augurio è che si sviluppi una discussione laica e razionale. Non una fatwa pronunciata da chi esibisce al petto lo stemma dell’antimafia contro chi non lo sarebbe abbastanza. Se tanto mi dà tanto, temo non andrà così. Accetto scommesse.
Fonte: di Andrea Pugiotto/ Il Riformista, 19 novembre 2020