Molta mafia, poche notizie

L’influenza

della criminalità organizzata e della corruzione

sulla cronaca e sui giornali.

Il sistema di protezione dei giornalisti minacciati

 

RAPPORTO SULLA MISSIONE DI ACCERTAMENTO DEI FATTI SVOLTA A DICEMBRE 2018 IN ITALIA

 

Questo rapporto

 

 

Il 5 e il 6 dicembre 2018, si è svolta a Roma una Missione di Accertamento dei Fatti ( Facts Finding Mission) dell’European Centre for Press and Media Freedom (ECPMF) con lo scopo di aggiornare il  quadro  dei  più  gravi  problemi  dei  giornali  e  dei  giornalisti  italiani  impegnati  a  fornire informazioni complete e veritiere sulla mafia e sulla corruzione e per offrire una panoramica delle proposte in campo per affrontarli e risolverli. Inoltre la Missione è stata incaricata di descrivere il sistema italiano di protezione dei giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata e di fare una valutazione. Questa relazione riassume gli elementi raccolti attraverso venti interviste strutturate.

 

Sono stati intervistati giornalisti, magistrati, avvocati, parlamentari, esponenti di governo, scelti fra addetti ai lavori, testimoni ed esperti, selezionati in base alla competenza, alla disponibilità e in modo da formare un campione competente e rappresentativo anche per genere. Le interviste sono allegate. Il rapporto ne cita alcune parti essenziali.

 

 

La Facts Finding Mission è stata organizzata da Ossigeno per l’Informazione e guidata da Alberto

 

Spampinato ed è stata realizzata con il sostegno della Commissione Europea.

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi hanno preso parte:

 

Per Ossigeno: Giuseppe F. Mennella, Raffaella Della Morte e Ilaria Fevola. Per il Centro ECPMF di Lipsia, Stephanie Koch.

Per l’Osservatorio Balcani Caucaso di Trento, Valentina Vivona.

 

Questa  relazione  è stata  redatta  da Alberto  Spampinato  con  la  collaborazione  di  Giuseppe  F. Mennella e Dario Barà ed è pubblicata in italiano e in inglese.

 

 

LA SITUAZIONE ITALIANA

 

 

 

 

 

 

 

LA DUPLICITÀ ITALIANA

 

L’Italia è nota come il paese in cui le “mafie” sono nate, si sono radicate e si sono espanse proiettandosi anche all’estero. Ma l’Italia non è soltanto questo. È anche il paese che più di tutti ha cercato rimedi e ha sviluppato terapie efficaci per combattere la mafia.

 

Questa duplicità vale anche per l’informazione giornalistica italiana sulla mafia. Infatti i giornalisti e i media italiani sono quelli che hanno subito e subiscono la massima pressione intimidatoria delle mafie. Ma allo stesso tempo sono quelli che hanno accumulato la massima esperienza sui modi più efficace di opporsi a quella pressione, anche accettando i rischi più alti che ciò comporta, che sono dovuti in gran parte a minacce e altre ritorsioni violente, ma anche a pesanti condizionamenti economici e, in misura notevole all’uso intimidatorio delle accuse di diffamazione a mezzo stampa, al debole stato giuridico dei giornalisti e ad altre carenze della legislazione.

 

 

 

“UNA BATTAGLIA QUOTIDIANA”

 

Le drammatiche condizioni di lavoro dei cronisti italiani che si occupano di mafie e corruzione sono state descritte  in poche parole dal senatore,  Pietro Grasso, ex presidente  del Senato.  “È triste ammetterlo, ma in Italia – ha detto – ci sono regioni in cui il giornalista che descrive senza veli la realtà del potere rischia la vita. Dico: che descrive ‘il potere’, non solo la mafia. (…) Ci sono regioni in cui si combatte una battaglia quotidiana fra la passione, il dovere dell’informazione e la pretesa del silenzio che si esprime con violenza, intimidazioni, minacce di morte che si materializzano in pallottole ricevute per posta o pallottole che frantumano i vetri delle finestre o colpiscono le porte delle abitazioni, o lettere minatorie, copertoni di auto squarciati, automobili date alle fiamme”.

 

Otto giornalisti che pubblicano informazioni inedite sulla mafia sono stati uccisi in Sicilia, un altro in Campania. Altri 21 giornalisti vivono sotto scorta, difesi con le armi dalle forze dell’ordine, a causa di minacce di morte. Nel 2017 ben 176 giornalisti sono stati protetti dalla polizia con misure di “tutela e vigilanza” meno impegnative della scorta (vedi).

Nessuna protezione hanno invece migliaia di cronisti che hanno subito intimidazioni, minacce, ritorsioni,  abusi  ingiustificabili.  Molti  di  loro  non  hanno  avuto  neppure  visibilità,  attenzione pubblica, solidarietà.

 

 

UN CONTINENTE INESPLORATO

 

Nonostante  migliaia  di  giornalisti  italiani  avessero  già  subito  minacce  e  ritorsioni,  la  loro drammatica situazione è divenuta nota e ha cominciato a suscitare attenzione e soltanto dopo che, nel 2008, l’Osservatorio indipendente Ossigeno per l’Informazione ha acceso un faro su questo fenomeno,  fino  allora  ignorato.  L’Osservatorio  ha  visitato  con  una  missione  scientifica  “il continente inesplorato” in cui gli operatori dei media minacciati.  Lo ha studiato con le lenti del giornalismo d’inchiesta e lo ha descritto in modo oggettivo e continuativo, per dieci anni, facendolo conoscere con pubblicazioni e rapporti periodici. Così l’Osservatorio ha aggiunto ai casi di minacce e intimidazioni pubblicate dai giornali altre migliaia di segnalazioni inedite. Attraverso il monitoraggio diretto, la situazione dei giornalisti italiani minacciati è stata conosciuta con dati di fatto, in tutte le implicazioni. L’osservazione continuativa e il flusso di informazioni che ha dato conto dei risultati, sono stati il catalizzatore di un più ampio processo di conoscenza del problema, hanno creato una crescente attenzione pubblica, hanno coinvolto il mondo giornalistico, politico e sindacale, il Parlamento, il Governo e numerose istituzioni nazionali e internazionali.

 

 

 

IL PROBLEMA IN CIFRE

 

 

Fra il 2016 e il 2018, oltre 3721 giornalisti, blogger, video operatori, fotoreporter italiani, elencati con nome e cognome, sono stati bersagli di minacce, intimidazioni, aggressioni, danneggiamenti, furti mirati, gravi abusi del diritto (soprattutto querele pretestuose e cause per diffamazione infondate) e ostacolato accesso all’informazione evidente ma non perseguibile per via giudiziaria.

 

Questi attacchi sono rimasti impuniti nel 91% dei casi. I 3721 dati mostrano la punta dell’icerberg, che misura 15-16 volte di più. I dati sono stati prodotti da Ossigeno per l’Informazione che, dopo avere accertato i fatti, ha pubblicato il nomi di ognuna vittima e i dettagli dell’attacco subito. Dai dati risulta che circa il 38 % di questi attacchi è dovuto alla pubblicazione di notizie sulla mafia. Quanto alle modalità, per circa la metà è stata violenta, per 40% legale e giudiziaria e il restante

10% informale (pressioni, divieto di partecipare a conferenze stampa, altri atti discriminatori).

Nel 2016, Ossigeno ha aggiunto ai dati raccolti sul campo quelli inediti del Governo sull’esito dei processi per diffamazione a mezzo stampa in Italia. Essi hanno dimostrato che i procedimenti sono numerosissimi (circa settemila l’anno e aumentano dell’8 per cento ogni anno), lunghissimi (da due a sei anni per il primo grado) 9 volte su 10 le accuse risultano infondate, ogni anno 155 imputati (in gran parte giornalisti) subiscono condanne a pene detentive per complessivi 103 anni di reclusione. Di solito  queste condanne rimangono  sospese, ma  hanno lo stesso un forte effetto  raggelante (chilling effect) sulla libertà di stampa e di espressione. Fra i condannati a pene detentive primeggiano i direttori responsabili dei giornali. Questi dati sono i più completi e oggettivi disponibili. Nel 2018 il direttore della divisione media dell’UNESCO ha definito Ossigeno “leader mondiale” per il monitoraggio delle minacce ai giornalisti.

 

 

CHI OSSERVA IL FENOMENO E COME

 

Dal 2015 anche l’“Osservatorio sul Giornalismo” dell’AgCom (l’authority italiana per le comunicazioni) studia il fenomeno, integrando i dati di Ossigeno con un sondaggio fra i giornalisti.

 

Nel rapporto del 2017, l’AgCom ha giudicato le minacce e il precariato i due più gravi problemi dei giornalisti italiani. Inoltre ha stimato che in Italia più di un giornalista su dieci (su una popolazione di 115 mila iscritti all’Ordine professionali) ha subito minacce. Inoltre l’AgCom ha fatto notare che i media italiani pubblicano pochissime notizie su questi fatti.

 

Nel 2017, per decisione del Ministro dell’Interno allora in carica, Marco Minniti (sostituito a giugno del 2018 da Matteo Salvini), presso il Ministero dell’Interno è stato istituito il “Centro di coordinamento per la difesa della libertà di stampa”. Questo organismo ha il compito di realizzare uno scambio riservato di informazioni fra Ministro e funzionari del Viminale e rappresentanti della FNSI (il sindacato unitario dei giornalisti italiani) e dell’Ordine dei Giornalisti. È stato creato dopo l’aggressione al giornalista Daniele Piervincenzi e al video operatore Edoardo Anselmi, avvenuta a Ostia il 7 novembre 2017.

 

Nel 2018, la Direzione Nazionale Antimafia (la sezione della magistratura inquirente specializzata nelle indagini sui reati di mafia) ha avviato un monitoraggio specifico delle minacce di matrice mafiosa rivolte ai giornalisti. Lo ha reso noto per la prima volta il Procuratore Cafiero De Raho nell’intervista rilasciata per questa Facts Finding Mission.

 

QUANTA INFORMAZIONE C’È OGGI

Abbiamo chiesto agli intervistati di dire quanta informazione di qualità su mafie e corruzione producono i media. Poca, abbastanza, molta o moltissima.

 

Il 20% ha risposto “molta”, il 40 % “abbastanza” e l’altro 40% “poco”.  Prevale dunque un giudizio di insufficienza qualitativa e quantitativa. L’informazione su questo tema non è considerata rispondente alle aspettative generali,  visto che il 95 percento degli intervistati le ha attribuito “moltissima” importanza e il nobile compito di illuminare il cammino dei cittadini e aiutare le autorità a prendere contromisure pronte e adeguate.

 

“Ciò che manca – interviene Cafiero De Raho – è la rappresentazione del fenomeno mafioso nella sua totalità e specificamente nei territori nei quali se ne hanno segnali e manifestazioni evidenti. Fra l’altro (il disimpegno di molti giornali, ndr) è la causa che più di tutte espone i giornalisti a rischi e ritorsioni: è chiaro che, essendo pochi quelli che si dedicano a trattare questi temi, essi diventano per le mafie e le altre organizzazioni criminali gli obiettivi da colpire”.

 

 

 

COSA LIMITA L’INFORMAZIONE

Invitati a dire qual è la principale causa che impedisce di avere un’informazione adeguata sulle mafie, gli intervistati hanno indicato in modo prevalente (60%) le scelte degli editori (il 45% per decisioni non meglio specificate, il 15% per connivenze con la criminalità organizzata (15%). Un altro 15 % ha indicato il clima intimidatorio e la paura di ritorsioni, il 10 % la scarsa competenza professionale dei giornalisti, il 5 % la precarietà del lavoro giornalistico, l’ulteriore 5 % la legislazione svantaggiosa e punitiva. Esaminiamo una per una queste cause.

 

 

 

LA PAURA E LE MINACCE

 

Cominciamo dalla paura, dal clima intimidatorio e dalle minacce che nella realtà ha un’incidenza ben maggiore di quella che emerge da questi pareri e pesa in primo luogo sui cronisti in prima linea, ma anche sulle redazioni e sugli editori, come vedremo.

 

“I giornali evitano di trattare questi temi – dice Nello Trocchia – innanzitutto perché è più comodo tacerle, ma anche perché hanno paura. La paura è dovuta al gran numero di minacce dirette o indirette, di intimidazioni e aggressioni fisiche nei confronti di giornali e dei giornalisti. Se a tutto ciò si somma il precariato, si capisce perche in definitiva si ha un’informazione monca”.

La paura di subire ritorsioni non è irragionevole. È fondata tenendo conto di ciò che accade, come abbiamo visto, a chi pubblica notizie inedite sgradite a mafiosi, corrotti e altri personaggi dotati di potere o di forza criminale.

 

Nel corso di recenti processi giudiziari, alcuni imputati mafiosi hanno platealmente ili rivendicato il diritto di ricorrere a simili reazioni e hanno addirittura chiesto ai giudici di punire i cronisti da loro minacciati. Secondo la logica di quegli imputati, i cronisti che avevano scritto sul giornale con quali modalità illegali si svolgevano le loro attività, avevano danneggiato in modo ingiustificabile i loro affari. Questi episodi rivelano nel modo più chiaro quale ideologia c’è dietro le minacce ai giornalisti. Le attività mafiose e la libertà di informazione sono assolutamente inconciliabili, come documenta il rapporto dal titolo “L’antitesi mafia-informazione” consegnato Ossigeno per l’Informazione alla Commissione Parlamentare Antimafia.

 

Secondo questa analisi, i mafiosi considerano il libero esercizio della libertà di stampa e di espressione un’inammissibile trasgressione al loro codice del silenzio che impone a chiunque, anche ai giornalisti, di distogliere lo sguardo dalle loro attività e dai loro comportamenti.

 

“Le      mafie    –    afferma    Cafiero    De    Raho   –    vogliono    il    silenzio    e    per    questo intimidiscono, aggrediscono e uccidono i giornalisti che, parlando di loro e richiamano l’attenzione degli organi di repressione dello Stato”.

 

La forza intimidatoria è molto forte, soprattutto in alcuni territori. I corrispondenti locali e i cronisti che lavorano per i giornali a diffusione locale, come spieghiamo più avanti, sono esposti a rischi più frequenti e hanno meno scudi protettivi dei loro colleghi dei grandi giornali a diffusione nazionale. sproporzionate che potrebbero subire.

 

 

 

LE QUERELE PRETESTUOSE

 

Come abbiamo visto in Italia le denunce penali e le cause civili per risarcimento danni da diffamazione per diffamazione a mezzo  stampa sono un’arma usata al pari delle minacce per dissuadere giornali e giornalisti dalla pubblicazione di notizie sgradite. Sono un vero flagello.

 

Sono indicate dagli intervistati come uno strumento intimidatorio molto efficace e di fin troppo facile impiego.

 

Il problema è noto al Parlamento da decenni. La legge sulla stampa in vigore dal 1948 costringe i cronisti e i media a muoversi su un terreno paragonabile a un campo minato. Infatti possono essere accusati di diffamazione a mezzo stampa e finire sotto processo in relazione a qualsiasi notizia pubblicata, vera

o non vera. Il reato è punibile con 6 anni di carcere. Alcuni p rocessi possono durare più di dieci anni e sono costosi. Le cause per risarcimento possono rovinare giornali e giornalisti, come è accaduto in molti casi. L’unico modo certo di prevenire questi processi è l’autocensura, la rinuncia a pubblicare notizie sgradite. Ed è quel che molti fanno silenziosamente, soprattutto di fronte alla prospettiva di pubblicare notizie su fatti di mafia e corruzione. La situazione è peggiorata in seguito ad alcune innovazioni giurisprudenziali introdotte nel 1984 dalla Corte di Cassazione e agli effetti della riforma del processo penale del 1988. Quest’ultima, eliminando il processo per direttissima, ha dilatato di circa 20 volte il tempo medio per ottenere la prima udienza su una querela.

 

Fino a pochi anni fa le querele pretestuose usate a scopo intimidatorio sono stato subite in silenzio dai giornalisti, con rassegnazione e fatalismo, come problemi individuali. Ora invece il problema è percepito come un abuso grave e sistematico del diritto commesso allo scopo di limitare la libertà di stampa e di espressione, come un abuso incontrastato, non ostacolato quanto si dovrebbe e si potrebbe applicando le norme vigenti e introducendone di nuove. Al disvelamento dei termini del problema ha contribuito più di tutto l’ampia documentazione del fenomeno prodotta da Ossigeno per l’Informazione e già citata.

 

 

 

CHI ABUSA DELLE QUERELE E PERCHÈ

 

Molte querele e richieste di danni i arrivano da persone che rivendicano il rispetto della privacy e l’assoluta difesa della loro reputazione, anche se, in base alla legge, per il loro formale coinvolgimento  in  indagini  giudiziarie  o  in  quanto  personaggi  pubblici,  questo  loro  diritto  è attenuato o inesistente.

 

Spesso questi soggetti reagiscono in modo sproporzionato alla pubblicazione di notizie sgradite. Il più delle volte abusano del diritto di denunciare i cronisti all’autorità giudiziaria accusandoli di diffamazione a mezzo stampa. Accade spesso e molte di queste denunce pretestuose o infondate sono  altamente  condizionanti,  hanno  un  effetto  intimidatorio  e  punitivo  anche  se  sul  piano giudiziario si concludono quasi sempre con il proscioglimento degli accusati. Questi effetti ultronei sono inevitabili perché in Italia la legge e la prassi giudiziaria consentono a chiunque di abusare di queste denunce formali senza incorrere in alcuna sanzione.

 

Il tema dell’impunità per questi e altri comportamenti ingiusti verso i giornalisti è richiamato dagli intervistati.

Le interviste e altre fonti hanno confermato che gli illuminanti dati ufficiali del Ministero della Giustizia  sull’esito  dei  processi  per  diffamazione  a  mezzo  stampa  citati  all’inizio  di  questa relazione,  sono  ancora  poco  conosciuti.  Solo  il  55  per  cento  degli  intervistati  ha accettato  di commentarli e ha detto di trovare in essi la conferma di ciò che ha appreso da altri o conosce per esperienza personale.

 

“Di fronte a questi dati bisogna intervenire. Occorre introdurre nuove norme per ridurre le querele a scopo intimidatorio, occorre un deterrente”, ha detto il sottosegretario Vito Crimi commentando i dati del Ministero della Giustizia sul numero enorme dei processi per diffamazione a mezzo stampa Oltre 6000 ogni anno) e sul loro esito, che conferma il frequente abuso delle querele (oltre il 90% degli accusati viene prosciolto).

 

“Questi dati sono la clamorosa dimostrazione dell’uso abnorme delle querele e delle cause per diffamazione”, dice Marco Tarquinio.

 

L’avv. Andrea Di Pietro vede nell’alto numero dei proscioglimenti “il sintomo di una lodevole sensibilità della magistratura sul tema della libertà di informazione, dimostrata dal fatto che nella stragrande maggioranza dei casi vengono inviate al GIP richieste di archiviazione per i casi di diffamazione.  Spesso  PM  e  GIP  sono  in  sintonia,  come  dimostrano  le  molte  richieste  di archiviazione accolte. Allo stesso tempo il dato dimostra che il 90% dei casi può essere catalogato come “cause infondate” che il giornalista ha dovuto comunque sopportare anche se il suo lavoro giornalistico era corretto”.

 

 

 

 

 

(1 – Continua)